Matteo Salvini torna a puntare con decisione al Viminale, raccogliendo l’investitura del congresso della Lega e presentando la sua candidatura come una scelta di “servizio”, ma in realtà con un obiettivo ben preciso: rilanciare la propria immagine politica sfruttando il clima di polarizzazione crescente, sulla scia dell’“effetto odio” che sta riportando Donald Trump al centro della scena negli Stati Uniti.
Dietro i toni concilianti — “ne parlerò con Meloni, senza litigare”, “sono a disposizione dell’Italia” — si cela la volontà di recuperare centralità nella coalizione di governo e riconquistare consensi, facendo leva su un ritorno a temi identitari e securitari, come l’immigrazione e l’ordine pubblico. Temi che, se gestiti dal Viminale, garantirebbero massima visibilità mediatica e capacità di influenzare l’agenda pubblica.
In questo contesto, il ministro Piantedosi viene lodato formalmente da Salvini come “amico leale”, ma il suo operato rischia di diventare il trampolino per un rientro in grande stile del leader leghista al Ministero dell’Interno. L’obiettivo non è solo istituzionale: è politico e comunicativo. Salvini spera che, cavalcando il malcontento e rilanciando la retorica dell’emergenza e del nemico (lo straniero, l’élite, l’Europa), possa invertire la rotta nei sondaggi e riportare la Lega a numeri ben più alti rispetto agli attuali.
Dopo due anni e mezzo di tensioni sotto traccia con Palazzo Chigi, ora Salvini gioca la carta del ritorno in prima linea. Non è solo una questione di poltrone: è una strategia di sopravvivenza politica in un’epoca in cui il populismo reattivo, alimentato da rancori sociali, torna a guadagnare terreno.
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