Perché la protesta anti-Hamas a Gaza non piace a Netanyahu
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Perché la protesta anti-Hamas a Gaza non piace a Netanyahu

Il titolo-interrogativo fa da sfondo ad una interessante report pubblicato da Haaretz a doppia firma di Jess Manville e Ibrahim Dalalshe.

Perché la protesta anti-Hamas a Gaza non piace a Netanyahu
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

31 Marzo 2025 - 17.49


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Le proteste anti-Hamas a Gaza sono un’opportunità per una leadership palestinese moderata.Israele la sprecherà?

Il titolo-interrogativo fa da sfondo ad una interessante report pubblicato da Haaretz a doppia firma di Jess Manville e Ibrahim Dalalshe. Manville è consulente politica presso l’Israel Policy Forum (Ipf). Dalalshe è fondatore e direttore dell’Horizon Center for Political Studies and Media Outreach. Sono coautori del Rapporto Ipf No Time to Lose. A Blueprint for Reforming the Palestinian Authority 

Scrivono Manville e Dalalshe: “In alcune zone di Gaza sono scoppiate proteste teste che chiedono a gran voce “Hamas fuori” e “stop alla guerra”. Spinti dalla stanchezza dopo un anno e mezzo di guerra e catalizzati dalla ripresa delle ostilità in condizioni di vita inabitabili, i manifestanti stanno esprimendo apertamente la loro frustrazione nei confronti di Hamas. Ancora in gran parte di base e senza leader, questa ondata di dissenso pubblico ha attirato l’attenzione dell’Autorità Palestinese e degli attori vicini a Fatah che cercano di trasformare l’indignazione grezza in qualcosa di politicamente consequenziale.

Non si tratta ancora di manifestazioni di massa e, a Gaza, dove manifestare il proprio dissenso è pericoloso, anche gli atti di protesta isolati sono straordinari. È troppo presto per dire se questo modificherà la realtà politica di Gaza. Ma nel giro di 48 ore, le proteste si sono diffuse da Beit Lahiya, nel nord di Gaza, a Deir al Balah, nel centro, e a Khan Yunis, nel sud.

Poi, nel fine settimana, Hamas ha ribadito la sua intenzione di cedere il proprio ruolo di governo nella Striscia di Gaza e ha accettato la proposta egiziana di liberare cinque ostaggi e di tornare alla fase uno del cessate il fuoco con Israele. È probabile che si tratti di uno sforzo calcolato per mostrare una certa reattività all’opinione pubblica e, allo stesso tempo, per evidenziare la flessibilità di Hamas rispetto all’intransigenza di Israele.

Gli ipocriti israeliani, da una parte, appoggiano le proteste anti-Hamas dei gazawi, ma, dall’altra, ne stroncano le possibilità di successo.

Il clima attuale è altamente infiammabile. La leadership di Hamas si è ritirata in clandestinità a seguito dei nuovi attacchi israeliani a figure chiave, tra cui il ministro degli Interni in carica, Mahmoud Abu Watfa. Questo può spiegare in parte la risposta silenziosa di Hamas ai manifestanti, che potrebbe anche aver incoraggiato i gazani a credere che il gruppo non sia in grado di reprimere il dissenso con la stessa forza con cui lo ha fatto in passato.

Tuttavia, questa finestra potrebbe non durare. Se Hamas dovesse riemergere, è probabile che subirebbe delle punizioni. La prospettiva di una repressione violenta o addirittura di scontri tra fazioni a favore e contro Hamas è reale e potrebbe intensificarsi nei prossimi giorni.

Per questo motivo, è assolutamente necessario che Ramallah e Gerusalemme prendano decisioni tempestive. Israele, in quanto attore più potente coinvolto, si trova di fronte a un dilemma strategico che ha dovuto affrontare per tutta la durata della guerra, ma che ora è ancora più acuto.

Se Israele favorirà l’emergere di un’alternativa credibile come l’AP o Fatah, questo potrebbe segnare l’inizio della fine della presa di Hamas su Gaza. Ma si tratta di una linea delicata. L’evidente sostegno israeliano alle proteste, come i commenti dell’ex ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, che incoraggia l’espulsione di Hamas, rischia di scoraggiare un’ampia partecipazione, per paura di essere bollati come collaborazionisti. Tuttavia, è improbabile che Israele permetta un ruolo significativo dell’Autorità palestinese a Gaza, vista la sua costante opposizione.

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È più probabile che Israele continui a opporsi a qualsiasi opzione di governance alternativa al di là dell’impraticabile modello clanico. Inoltre, si allinea alla reazione allergica israeliana a qualsiasi forma di espressione nazionale palestinese, moderata o meno. Questo approccio alla gestione del conflitto, privo di un fine ultimo, rischia di spingere Gaza verso un vuoto somigliante a quello della Somalia: un paese frammentato, ingovernabile e dominato dalle milizie e dal caos.

Il programma di deradicalizzazione postbellico di Israele si basa sulla premessa che la pressione militare e umanitaria riunirà i gazawi contro Hamas. Tuttavia, la pressione senza un’alternativa politica rischia di far scivolare Gaza non verso la moderazione, ma verso il collasso. Ciò che inizia come dissenso può facilmente trasformarsi in una disperazione più profonda. Rispondere a tutte le forme di organizzazione politica palestinese con ostilità generalizzata non farà altro che accelerare il caos. Rischia, inoltre, di costringere Israele a un controllo militare indefinito a Gaza, che sebbene sia attualmente favorito dal Primo ministro Benjamin Netanyahu e dai suoi ministri di estrema destra, comprometterebbe la sicurezza di Israele, eroderebbe ulteriormente le norme democratiche e approfondirebbe l’isolamento internazionale. 

Se queste proteste segnassero davvero il graduale declino di Hamas, Israele farebbe bene a evitare azioni che possano delegittimare o compromettere questa fragile apertura politica e a sostenere un’alternativa. Idealmente, questa potrebbe assumere la forma di un governo transitorio di tecnocrati palestinesi, sostenuto da partner internazionali e con l’integrazione di una PA riformata. Facilitare questa opzione potrebbe iniziare a cambiare significativamente il destino di Gaza.

Questa protesta rappresenta anche un’occasione per l’Autorità palestinese di riaffermare la propria importanza come entità di governo legittima. Tuttavia, così come il coinvolgimento palese di Israele rischia di screditare le proteste, lo stesso vale per la percezione che Fatah o le fazioni dell’AP stiano cercando di appropriarsene. Per essere considerata un’alternativa credibile ad Hamas, deve dimostrare con i fatti di essere in grado di governare in modo diverso dal passato e di ottenere risultati per la popolazione. 

Ciò significa attuare riforme attese da tempo: eliminare la corruzione, rafforzare le istituzioni e impegnarsi per una maggiore trasparenza, con riforme politiche più profonde. Inoltre, è fondamentale affrontare le disfunzioni radicate nell’AP, nell’OLP e in Fatah e gettare le basi per un orizzonte elettorale realistico. Senza di ciò, l’AP rischia di apparire solo come un’altra disfunzione.

Le recenti mosse dell’Autorità palestinese, come l’operazione di sicurezza a Jenin contro i militanti (eclissata dalla campagna israeliana del Muro di Ferro) e la cancellazione del programma di pagamento dei prigionieri (a lungo richiesto a livello internazionale, ma impopolare in patria), suggeriscono una preferenza per la credibilità internazionale rispetto alla legittimità interna. Questo gioco di equilibri, progettato per conferire all’Autorità palestinese una reputazione di affidabilità e capacità per poter tornare a Gaza, non reggerà se l’Autorità palestinese non otterrà risultati concreti per il suo popolo. 

Anche se le proteste acquistano slancio e Hamas perde il controllo, la governance non si materializzerà dal nulla. Sarà necessario costruire nuove istituzioni o rivitalizzare quelle esistenti. Partendo dal presupposto che le fondamenta di questo nuovo potere non saranno quelle di Hamas, l’unica opzione possibile è una Autorità Palestinese riformata. La sua capacità di affrontare questa sfida dipende da ciò che farà ora, non dopo, e se questo governo israeliano – o uno futuro – glielo consentirà”.

Visti dal di dentro

Come si comporta a Gaza l’”esercito più etico del mondo” lo racconta, dal di dentro, Anonymus, un anonimo, per ovvie ragioni di sicurezza, ufficiale superiore di una brigata di non riservisti.

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Scrive, sempre su Haaretz, Anonymus: “A Gaza, i soldati israeliani utilizzano scudi umani almeno sei volte al giorno.

Ho prestato servizio a Gaza per nove mesi e mi sono imbattuto per la prima volta in queste procedure, chiamate “protocollo zanzara”, nel dicembre 2023. Erano passati solo due mesi dall’inizio dell’offensiva di terra, molto prima che si verificasse una carenza di cani dell’unità canina dell’Idf, Oketz, che venivano utilizzati per questo scopo. Questa divenne la scusa folle e non ufficiale per questa procedura folle e non ufficiale. Allora non mi rendevo conto di quanto sarebbe diventato onnipresente l’uso di scudi umani, che noi chiamavamo “shawish”.

Oggi, quasi ogni plotone ha uno “shawish” e nessuna forza di fanteria entra in una casa prima che uno “shawish” la liberi. Questo significa che ci sono quattro “shawish” in una compagnia, dodici in un battaglione e almeno 36 in una brigata. Abbiamo un sottoesercito di schiavi.

La procedura è semplice. Palestinesi innocenti sono costretti a entrare nelle case di Gaza e a “ripulirle” per assicurarsi che non ci siano terroristi o esplosivi.

Recentemente ho visto che la Divisione Investigativa Criminale della Polizia Militare dell’Idf ha aperto sei indagini sull’uso di civili palestinesi come scudi umani e mi è caduta la mascella. Ho già visto insabbiamenti in passato, ma questo è un nuovo punto debole. Se l’Mpcid volesse fare il suo lavoro seriamente, dovrebbe aprire ben più di mille indagini. Ma l’Mpcid vuole solo che possiamo dire a noi stessi e al mondo che stiamo indagando su noi stessi; quindi, ha trovato sei capri espiatori e li sta incolpando di tutto.

Ho assistito a una riunione in cui uno dei comandanti di brigata ha presentato il concetto di “zanzara” al comandante di divisione come un “risultato operativo necessario per portare a termine la missione”. Era talmente normalizzato che pensavo di avere le allucinazioni.

Già nell’agosto del 2024, quando questa storia è stata pubblicata su Haaretz e nelle testimonianze raccolte da Breaking the Silence, una fonte autorevole ha dichiarato che sia il Capo di Stato Maggiore dell’Idf uscente che il Capo del Comando Sud uscente erano a conoscenza della procedura. Non so cosa sia peggio: che non sappiano cosa sta succedendo nell’esercito che comandano o che lo sappiano e continuino a non curarsene.

Sono passati più di sette mesi dalla pubblicazione di questa storia e i soldati hanno continuato a detenere i palestinesi e a costringerli a entrare nelle case e nei tunnel davanti a loro. Mentre il Capo di Stato Maggiore e il Capo del Comando Sud continuavano a non dire e a non fare nulla, il protocollo è diventato ancora più diffuso e normalizzato.

Il personale di alto livello sul campo era a conoscenza dell’uso degli scudi umani da più di un anno e nessuno ha cercato di fermarlo. Al contrario, è stato definito come una necessità operativa.

È importante notare che possiamo entrare nelle case senza usare scudi umani. Lo abbiamo fatto per mesi, seguendo una procedura di ingresso adeguata che prevedeva l’invio di un robot, di un drone o di un cane. Questa procedura si è dimostrata valida, ma ha richiesto tempo e il comando voleva ottenere risultati qui e ora.

In altre parole, abbiamo costretto i palestinesi a fare da scudi umani non perché fosse più sicuro per le truppe dell’Idf, ma perché era più veloce. Ecco perché abbiamo rischiato la vita di palestinesi che non erano sospettati di nulla se non di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

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Il provvedimento non è stato approvato senza ostacoli. Soldati e ufficiali hanno opposto resistenza. Io ho opposto resistenza. Ma questo è ciò che accade quando il comando superiore se ne frega e i politici ancora meno. È quello che succede quando si è veloci nel premere il grilletto e si è esauriti al massimo dal punto di vista operativo. È quello che succede quando si è impegnati in una guerra infinita che non riesce a riportare in vita gli ostaggi mese dopo mese. Si perde il giudizio morale.

Un amico che è un ufficiale dell’esercito mi ha raccontato di un incidente che hanno vissuto: Hanno incontrato un terrorista in una casa che era già stata sgomberata da uno “shawish”. Lo “shawish” era un uomo anziano e, quando si è reso conto di aver combinato un guaio, era così spaventato che si è sporcato. Non so che fine abbia fatto. Avevo paura di chiederlo.

Questo caso dimostra che le giustificazioni che ci hanno dato, ovvero che la procedura è per motivi di “sicurezza”, non erano vere. Queste persone non sono combattenti professionisti; non sanno come scansionare una casa. I soldati non si fidano comunque di loro perché non sono lì di loro spontanea volontà. A volte gli “shawish” vengono mandati nelle case solo per incendiarle o farle saltare in aria. Non ha nulla a che fare con la sicurezza.

Mi fa rabbrividire l’effetto che questo ha sulla psiche di chi deve entrare in una casa, terrorizzato, al posto di soldati armati. Mi fa rabbrividire anche l’effetto che questo ha su noi israeliani.

Ogni madre che manda suo figlio a combattere si rende conto che potrebbe trovarsi ad afferrare un palestinese dell’età di suo padre o di suo fratello minore e a costringerlo violentemente a correre davanti a lui, disarmato, in una casa o in un tunnel potenzialmente pieno di trappole esplosive? Non solo non abbiamo protetto le nostre truppe, ma abbiamo anche corrotto le loro anime e non c’è modo di sapere quali saranno le conseguenze per noi, come società, quando torneranno a casa dalla guerra.

Ecco perché l’indagine dell’Mpcid è così esasperante. Prima si fa in modo che i soldati usino i palestinesi come scudi umani, poi gli ufficiali usano i soldati di grado inferiore come scudi umani, il tutto mentre stiamo ancora cercando disperatamente di recuperare gli ostaggi che vengono trattenuti, in parte, per servire da scudi umani per Hamas.

Era ovvio che era solo questione di tempo prima che questa storia esplodesse, ma è troppo grande per essere gestita dall’Mpcid. Solo una commissione d’inchiesta indipendente potrebbe andare a fondo della questione.

Fino ad allora, abbiamo tutte le ragioni per preoccuparci dei tribunali internazionali dell’Aia, perché questa procedura è un crimine – un crimine che anche l’esercito ora ammette. Succede ogni giorno ed è molto più comune di quanto si dica al pubblico.”

Il combinato disposto dei due articoli porta a dare una risposta all’interrogativo di partenza: No, Israele non darà una chance alla protesta contro Hamas. Perché Hamas resta, sempre e comune, un nemico di comodo per chi non ha mai avuto alcun interesse a costruire una pace giusta, tra pari.

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