Dall’illusione di “Yes We Can” alla realtà di Trump: vi racconto il declino culturale e politico degli Stati Uniti
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Dall’illusione di “Yes We Can” alla realtà di Trump: vi racconto il declino culturale e politico degli Stati Uniti

Serve una rivoluzione culturale che nemmeno il vate più ottimista scorge sull’orizzonte a stelle e strisce.

Dall’illusione di “Yes We Can” alla realtà di Trump: vi racconto il declino culturale e politico degli Stati Uniti
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Seba Pezzani Modifica articolo

11 Marzo 2025 - 23.23


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Correva l’anno 2008 e la campagna elettorale per le presidenziali americane si concluse con la vittoria di Barak Obama, sospinto dallo slogan “Yes We Can”, tre parole che lasciavano ampio spazio di interpretazione. Gli USA stavano tentando di ricostruirsi una coscienza intrepida, di rifarsi il trucco, di riacquistare la verginità perduta, insomma. L’elezione del primo presidente di colore era un messaggio fortissimo, ma forse pure una manciata di polvere da sparo negli occhi attoniti del mondo. Polvere da sparo, non polvere d’oro. Comunque accecante, al punto che Barak Obama fu insignito del premio Nobel per la Pace pochi mesi dopo la sua elezione, decisione improvvida, considerata l’inclinazione a fare la voce forte in politica estera e ricorrere abbondantemente alle armi che avrebbe presto mostrato.

“Yes We Can.” “Sì, possiamo.” Possiamo fare che? Qualsiasi cosa! Ecco la forza di quel motto. Possiamo tornare a sperare, possiamo tornare a essere un modello di ispirazione, possiamo tornare a essere un paese accogliente. Possiamo riscrivere la storia. Eppure, i germi nel “No We Can’t” – no, non possiamo – c’erano già. Da sempre.

Gli USA, paradossalmente, sono più di ogni altro il paese che, in nome della sbandierata libertà dell’individuo e della fede assoluta nella sua capacità di approdare alle vette più impensate, ha permesso fin dalla prima ora che l’iniziativa personale e il libero arbitrio scalzassero l’autentica libertà dei suoi cittadini, ovvero la capacità genuina di competere ad armi pari.

Questa pervicacia nell’inseguire un modello di liberismo sfrenato ha finito per essere il male assoluto, traducendosi in politiche estere sempre più aggressive, sostenute dalla malsana esigenza di alimentare la macchina bellica che ne sarebbe dovuta essere figlia e non madre e da una convinzione quasi vaticana nell’infallibilità delle scelte della Casa Bianca.

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Il popolo americano che diffida istintivamente e tradizionalmente delle proprie istituzioni e che è autorizzato, se non spronato, a farlo dal Secondo Emendamento della Costituzione – “Essendo necessaria una milizia ben regolata per la sicurezza di uno Stato libero, il diritto del popolo di tenere e portare armi non può essere violato” – viceversa si mette totalmente nelle mani dei suoi governanti per qualsiasi scelta di politica estera.

Una contraddizione paradossale e pericolosissima perché lascia all’amministrazione di turno una discrezionalità pressoché assoluta. Lo si vede in questi giorni. Quanti cittadini statunitensi realmente dissentono dalle sparate istrioniche del loro comandante assoluto, quel Donald Trump il cui slogan elettorale “Make America Great Again” – rendiamo nuovamente grande l’America – è la riproposizione becera dell’anelito più atavico del paese, ovvero essere rilevanti, essere i migliori?

Lo “Yes We Can” di Obama poteva essere vuoto di valori concreti, ma, talvolta, la forma racconta qualcosa. Quante persone sono scese in piazza per protestare animatamente di fronte a sciocchezze preoccupanti come la dichiarazione di voler annettere la Groenlandia? Se domani Giorgia Meloni annunciasse la volontà di piantare la bandiera italiana sull’isola di Malta – asserendo che, in fondo, il tricolore donerebbe alquanto ai maltesi i quali, di certo, non vedrebbero l’ora di fare il tifo per la nostra nazionale, cosa che peraltro fanno già, e di abbandonare quella loro orrenda lingua meticcia per il melodicissimo italiano, che già viene insegnato a scuola con ottimi risultati – non si leverebbero cori e cortei di protesta ovunque nel paese?

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D’accordo, l’italiano medio non ha molta simpatia per la politica e per i suoi governanti e l’idea di dimostrare una forte insoddisfazione è scritta nel suo DNA, ma persino i più stolti e disattenti capirebbero che si è trattato di un’uscita quantomeno incauta, se non totalmente biasimevole.

Ci lagniamo, talvolta a ragione, delle pecche del nostro sistema scolastico e dell’inadeguatezza della nostra classe politica. Rispetto agli omologhi americani, siamo anni luce avanti. La scuola negli USA è esclusivamente americocentrica – non si insegnano la storia e la geografia del mondo – e, grazie all’insipienza dei suoi politici, la Pubblica istruzione è platealmente trascurata in favore di investimenti in settori ritenuti più importanti, a partire dalla Difesa: insomma, la scuola non produce ricchezza, ma ne spende, e quindi non serve. Il ragionamento è questo.

Il risultato è un paese in balia di se stesso, con un livello di cultura generale infimo, vittima della propria presunzione di superiorità. Essere i migliori in ogni campo è una vera e propria ossessione che andrebbe psicanalizzata e la si nota a ogni livello della società: dall’hamburger più grande all’uomo più ricco, dal grattacielo più alto (prima che gli arabi del Golfo strappassero tale primato) al fucile più potente.

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Pazienza se questa corsa al primo posto non è suffragata dall’ampia diffusione di un livello minimo di cultura generale. Se chiedessimo all’italiano medio di indicare sulla carta geografica dove si trova l’Honduras, probabilmente ne vedremmo delle belle e il ditino finirebbe in mezzo a un oceano. Però, se gli si chiedesse dov’è New York, molti farebbero centro.

Online si trovano frequenti scenette in cui all’americano medio viene chiesto di indicare questo o quel paese: non solo non ci riesce, ma spesso confonde uno stato con un continente e, talvolta, quest’ultimo lo sbaglia pure. L’assoluta ignoranza – o meglio, non conoscenza – del mondo da parte di buona parte dei cittadini degli Stati Uniti non va presa come una bizzarria su cui farsi due sane risate perché ciò che ne deriva è l’assoluta indifferenza per quel mondo ignoto e, in ultima analisi, l’accettazione supina delle nefandezze che la superiorità presunta degli USA e la loro superiore forza militare ed economica comportano.

La seconda amministrazione Trump è lo sviluppo naturale di ciò che era in atto da molto tempo. Forse, addirittura, c’era totalmente da aspettarselo. La presunzione di eccellenza in ogni campo è facile da scardinare: a cosa servono le università più illustri e ricche se solo una percentuale risibile di studenti meritevoli può avervi accesso?

Serve una rivoluzione culturale che nemmeno il vate più ottimista scorge sull’orizzonte a stelle e strisce.

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