Alla ricerca del difficile equilibrio: il negoziato tra curdi e turchi, il ruolo della Siria e le ambizioni di Erdogan

Ocalan, detenuto in isolamento, dovrebbe secondo ogni anticipazione annunciare la fine della lotta armata, invitare il PKK a deporre le armi e avviare un processo di pace tra curdi e turchi.

Alla ricerca del difficile equilibrio: il negoziato tra curdi e turchi, il ruolo della Siria e le ambizioni di Erdogan
Manifestazione per Ocalan
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

21 Febbraio 2025 - 20.07


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I leader del partito filocurdo della Turchia, DEM – quello nato sulle ceneri dell’HDP di  dall’autorevole Demitras, il deputato arrestato dai turchi e condannato con una sentenza definita farsa da quasi tutto il mondo – hanno trascorso sei giorni di intensi colloqui politici ad Erbil, la capitale della regione autonoma curda del nord dell’Iraq, al termine dei quali hanno affermato che tra la fine di questo mese e l’inizio del prossimo il leader del PKK, Abdullah Ocalan, detenuto da ventisei anni dai turchi, terrà il suo atteso discorso “storico”, quello che avrebbe dovuto pronunciare il 15 febbraio, anniversario del suo arresto.

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Ocalan, detenuto in isolamento, dovrebbe secondo ogni anticipazione annunciare la fine della lotta armata, invitare il PKK a deporre le armi e avviare un processo di pace tra curdi e turchi. Come conseguenza sarebbe pronta l’amnistia per i guerriglieri del PKK, ma non tutti: quelli accusati dei reati più gravi si sarebbe convenuto che potrebbero trovare ospitalità ad Erbil, con la garanzia del presidente Barzani. E visti gli ottimi rapporti tra Erdogan e Barzani, vero mediatore del negoziato, sembra che i curdi siano disposti a fidarsi. 

Ma il rischio che quella di DEM sia una speranza che non ha solide basi esiste, il discorso di Ocalan potrebbe nuovamente saltare: non per le altre richieste dei curdi di Turchia ad Ankara, ma perché il quadro dell’intesa deve necessariamente includere la Siria, dove l’accordo non c’è. E se salta la Siria può facilmente saltare tutto. E’ bene allora cercare di presentare cosa c’è in gioco e poi cosa manca e perché un successo del negoziato o un suo fallimento avrebbe enormi conseguenze, in positivo o in negativo. 

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Cominciamo da Ankara: l’interesse ad un’intesa da parte di Erdogan c’è. Il presidente turco sa che alla fine del sua attuale terzo mandato presidenziale non potrà più ricandidarsi. Per farlo deve modificare in tal senso la costituzione. Il partito dello sfidante, che lo ha quasi raggiunto alle passate elezioni presidenziali, non lo appoggerà di certo. Confida così in un inatteso sostegno da parte dei curdi. Ma per ottenerlo l’amnistia forse non basterebbe.

Sa bene Erdogan che presentarsi ai turchi come il leader che ha posto fine alla guerra civile con il PKK grazie alla loro rinuncia alla lotta armata sarebbe un biglietto da visita forte per la rielezione, ma appare plausibile che per ottenerlo servirebbe anche qualche concessione in senso “autonomista”: riconoscimento dell’insegnamento complementare della lingua curda in quelle regioni, ad esempio, cessazione del commissariamento dei comuni curdi con incaricati prefettizi sempre e solo turchi.

Se questo è il quadro che si evince da quanto emerge da Erbil, appare evidente che le centinaia di arresti operati in queste dai turchi nei confronti di attivisti curdi, per flebili indizi di simpatia per il Pkk, fanno parte di una strategia di pressione delle autorità turche, che contempla anche l’annuncio preventivo da parte del ministero della giustizia turco: se i negoziatori di DEM volessero incontrare Ocalan nelle prossime, ha fatto sapere, saranno autorizzati. Dunque l’ottimismo dimostrato dai leader di DEM potrebbe avere un senso: “noi ci siamo, basta rispettare gli impegni presi”, sembrano dire, riferendosi forse a punti politici che non si conoscono ancora, o che Ankara non annuncia. 

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Che un leader ormai islamo-nazionalista come Erdogan addivenga a un’apertura verso un pur tenue forma di  Stato pluralista, rispettoso delle diversità etniche, e domani forse anche di quelle religiose, avrebbe una grande portata: Barzani, che certo non incarna i valori dello Stato laico, plurale, ha detto in una dichiarazione che la bussola sarebbe lo “Stato civile”, traduzione morbida studiata in oriente per dire “Stato laico” senza ingenerare equivoci con la forma laicista dello Stato. Ma se si considera che l’Anatolia è la terra dove il nazionalismo produsse il genocidio degli armeni solo un secolo fa, si ha chiaro il passo avanti che si farebbe rispetto al nazionalismo conosciuto lì ormai da troppo tempo.  Ma per riuscirci occorre un accordo sulla Siria. E questo ancora non c’è. 

L’accordo sulla Siria è necessario perché lì, da anni, opera il PKK. Le sue basi miliziane sono nel nord est della Siria, dove i curdi hanno conseguito una loro autonomia totale da Damasco. E siccome il gruppo armato curdo SDF combatte l’Isis, controlla i campi dove i familiari dell’Isis sono stati rinchiusi in condizioni devastanti da anni, gode del sostegno di 2000 Marines americani che fungono anche da istruttori, la questione è delicatissima. Se gli americani si ritirassero, come Trump non ha ancora deciso di fare ma ha sempre detto che sarebbe incline a fare, per loro sarebbe un guaio; Ankara potrebbe attaccarli e proporsi di subentrargli nella lotta all’Isis, con l’auto di Siria, Iraq e Giordania.

Infatti minaccia da mesi di bombardare la più importante città curdo siriana, Kobane, ma non lo ha fatto e ancora non lo fa per pressione di Barzani. Ecco allora che appare probabile che ai curdi si proponga che i miliziani del PKK disarmino e vadano via, magari anche loro in Iraq. Riconoscendo l’autorità di Damasco, dove governano i nuovi islamisti giunti al potere con l’aiuto di Erdogan,  i curdi siriani dovrebbero entrare nell’esercito siriano, strada che sarebbe preclusa ai miliziani curdi di Turchia, appartenenti al PKK. I leader curdo-siriani accettano di entrare nel nuovo esercito siriano, alle dipendenza dunque di Damasco, ma come fossero un reggimento, dipendente dal ministero ma con un proprio comandante. Perché, affermano, siamo noi che conosciamo questo territorio, siamo noi che abbiamo le strutture idonee a controllarlo, l’esercito siriano è assente da anni, non ha le strutture né le conoscenze necessarie per farlo. E questo Damasco non lo accetta: i curdi dovrebbero entrare individualmente nell’esercito, la catena di comando per loro dovrebbe essere unica.

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Così i curdi rilanciano: gli islamisti vittoriosi hanno portato con sé nell’esercito nazionale anche alcuni jihadisti stranieri, non li hanno obbligati a rimpatriare: in assenza di un accordo quadro non c’è intesa neanche sul trasferimento dei curdi  turchi che operano in Siria, magari in Iraq. C’è poi l’autonomia politico amministrativa del nord est siriano, oggi controllato autonomamente dai curdi. Damasco non intenda riconoscerla nella nuova Siria. 

Barzani ha chiesto ai curdi siriani di sbrigarsi ad assumere la nuova bandiera nazionale, e hanno detto di sì, come sembra logico. Ma i curdi chiedono autonomia amministrativa: Damasco non cede su questo perché anche i drusi, anche gli alauiti e forse altri chiederebbero altrettanto: Damasco, che è sempre stata centralista, propone invece un governo “inclusivo” -almeno così dice- delle diverse componenti etniche e religiose, parla di una scrittura comune della nuova Costituzione.

Ma per accordarsi su questo bisogna prima risolvere gli altri nodi, che sono decisivi. Se si fallisse per la Siria, in ginocchio anche economicamente, divisa tra mille milizie in armi, priva di sicurezza, sarebbe un disastro. La partita dunque è enorme: in gioco c’è l’alba di forme statuali meno repressive di quelle esistenti, di  impianto “sovietico”, non certo liberal-democratico. Che l’inclusività, in questi tempi difficili per ogni forma di rispetto e di incontro, possa ripartire anche in modo tenue dall’Anatolia e dai suoi dintorni, con soggetti intrisi di nazionalismi malati, assoluti, etnocratici, sembra un sogno. Ma davanti a sfide che possono comportare il fallimento dello Stato, sognare non è un lusso, ma una necessità.     

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