Raccapricciante il numero di israeliani che sostengono l'espulsione dei palestinesi
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Raccapricciante il numero di israeliani che sostengono l'espulsione dei palestinesi

Se il trasferimento della popolazione è diventato un'idea accettabile per la maggioranza degli israeliani, non è certo grazie a Trump.

Raccapricciante il numero di israeliani che sostengono l'espulsione dei palestinesi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Febbraio 2025 - 20.23


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“La Palestina, una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Il popolo ebraico. A sostenerlo non è Benjamin Netanyahu e nemmeno i fascisti che oggi fanno parte del governo israeliano, i Ben-Gvir, i Bezalel Smotrich. No. Quell’affermazione, passata alla storia, è di una delle “madri” fondatrici d’Israele. Un mito dell’Israele laburista, la prima ministra donna: Golda Meir.

Questo va ricordato, per verità storica e per rimarcare come il nazionalismo tout court, l’idea del Grande Israele non è patrimonio ideologico, identitario e alla fine politica, solo della destra dello Stato ebraico. Quella convinzione attraversa la società israeliana, i suoi schieramenti politici e, in definitiva, è elemento fondante non solo di uno Stato ma della psicologia di una nazione.

È raccapricciante il numero di israeliani che sostengono l’espulsione dei palestinesi

A darne conto, già nel titolo, è una amara riflessione di una delle firme più sensibili di Haaretz: Hanin Majadli.

Osserva l’autrice: “Partiamo dalla fine: Trump non ha inventato l’idea di trasferire la popolazione di Gaza altrove, né ha normalizzato il genocidio in atto nella Striscia di Gaza. Anche le minacce di Avigdor Lieberman di trasferire la popolazione araba di Israele non sono sta un’innovazione.   Se il trasferimento della popolazione è diventato un’idea accettabile per la maggioranza degli israeliani, non è certo grazie a Trump.

È perché è già avvenuto una volta ed è radicato nel “DNA” di questo luogo. Sì, mi riferisco al 1948, ancora una volta, cosa che molti israeliani preferiscono non sentire. Ma quell’espulsione è strato l’evento. che ha plasmato la realtà in cui viviamo ora. 

La storia è come una ruota panoramica. Nel 1948 gli ebrei credevano che espellendo gli arabi dalle loro case avrebbero ottenuto la tranquillità all’interno dei confini del loro nuovo Stato. A distanza di 77 anni, non è stato così. La deportazione non ha portato sicurezza allora e non la porterà adesso, anche se potrebbe portare qualche proprietà immobiliare. Chiederei se c’è qualcuno che vuole vivere sopra una fossa comune, ma se questo non ha disturbato nessuno a Tantura, potrebbe non scoraggiare nessuno a Gaza.

Non mi sorprende che la destra israeliana sia in estasi per il piano di Trump. Ciò che è rivoltante e nauseante, tuttavia, è l’analoga tendenza nel campo del centro-sinistra, che improvvisamente si trova d’accordo, quasi con entusiasmo, con l’idea del trasferimento avallata da persone che apparentemente odiano meno di quanto odino gli arabi – vale a dire, persone di estrema destra. Gli esponenti della sinistra condividono la loro fantasia, che ricorda la Soluzione Finale.

Senza battere ciglio, dicono: “Qual è il problema del trasferimento? Gaza non è più abitabile, forse è un bene per i gazawi che cercano una vita migliore”. È interessante chiedersi perché   Gaza non sia più abitabile. Una vita migliore? È incredibile che si veda questo trasferimento come se fosse la stessa cosa di un trasferimento a Berlino o a New York, come un’opportunità per una vita migliore per gli abitanti di Gaza.

Quando non si dispone di un passaporto straniero, di un po’ di denaro iniziale, di un lavoro che ti aspetta all’estero, di un visto digitale transitorio o di un permesso di soggiorno per artisti e, ovviamente, di una casa in cui tornare in vacanza o alla fine del viaggio, non c’è nulla di magico in un trasferimento. Come si può credere seriamente che persone che hanno perso tutto – famiglie, partner, figli, proprietà, salute – molte delle quali affette da gravi ferite, amputazioni o post-traumi, possano trovare una “vita migliore” in esilio, da stranieri. 

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La distorsione di base e di lunga data del dibattito su Gaza, e più in generale sulla questione dei palestinesi, è che questa conversazione si svolge sempre sopra le teste dei gazawi, che sia negli anni del mandato britannico, nello Studio Ovale di Trump o nell’ufficio di quello dai capelli viola in Israele.

Ancora una volta, Israele, gli israeliani e gli elementi coloniali stranieri si riferiscono ai palestinesi come a persone senza alcun attaccamento alla loro terra. Forse alcuni palestinesi di Gaza vorrebbero lasciare Gaza a questo punto, ma sappiamo tutti che una volta partiti, non c’è modo di tornare indietro.

Che il piano di trasferimento di Trump si realizzi o meno – e io scommetto sul fatto che non si realizzi, dato che Trump è un imbroglione pieno di espedienti e a causa delle molteplici complessità geopolitiche – la consapevolezza di vivere in un Paese in cui il 72% della popolazione sostiene apertamente la perpetrazione di un altro crimine contro l’umanità e un altro popolo è agghiacciante e terrificante. Non riesco a smettere di pensare a come si sentivano gli ebrei in Germania durante gli anni Trenta. Quando potremo iniziare a fare un confronto?”.

È la domanda che chiude la riflessione di Hanin Majadli. Una domanda che, temiamo, resterà per lungo tempo senza risposta. Per darla, Israele dovrebbe interrogarsi sulla sua storia, sulla sua identità, sul cosa vorrebbe essere da “grande”. Sulla coscienza del limite e il messianesimo che oggi ipoteca il futuro.

Horror show e piani segreti

Per equilibrio, profondità di pensiero, ricchezza di fonti, Amos Harel è giustamente considerato tra i più autorevoli analisti politici israeliani. Così sul quotidiano progressista di Tel Aviv: “Lo spettacolo dell’orrore che Hamas ha inscenato a Deir al-Balah sabato mattina in occasione del rilascio dei tre ostaggi – smunti, spaventati, con gli effetti della prolungata prigionia chiaramente visibili sui loro volti – ha provocato shock e rabbia in Israele. 

Ma al di là della rabbia verso l’organizzazione terroristica, che ha rapito Ohad Ben Ami ed Eli Sharabi rapito dalle loro rispettive case nel Kibbutz Be’eri e Or Levy dal festival musicale Nova, è importante tradurre lo shock in misure pratiche.

Se l’opinione pubblica israeliana non esercita forti pressioni sul governo per passare alla seconda fase dell’accordo e garantire il rilascio dei 76 ostaggi rimasti nella Striscia di Gaza (più della metà dei quali si presume siano morti), continueranno a soffrire in condizioni simili e forse anche più dure. 

Possiamo anche aspettarci una dichiarazione chiara da parte dei capi dell’establishment della difesa – il capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane, i capi del Mossad e del servizio di sicurezza Shin Bet e il capo del Centro di Comando per gli ostaggi e le persone scomparse dell’Idf – anche se il governo sta lavorando diligentemente per estromettere la maggior parte di loro.

La necessità è ancora più urgente alla luce delle azioni di Benjamin Netanyahu. Il primo ministro, che ha prolungato il suo soggiorno in un hotel di lusso di Washington (con un entourage numeroso e stravagante) fino a sabato sera, sta investendo notevoli sforzi dalla capitale americana per sventare il passaggio alla fase successiva dell’accordo. 

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Inizialmente, dal suo campo è trapelato che per il momento preferirebbe prolungare la prima fase – il rilascio settimanale di tre ostaggi viventi in cambio della liberazione di palestinesi incarcerati in Israele – a causa della difficoltà di raggiungere un accordo sulla seconda fase.

Ma una fonte israeliana senza nome che ha parlato con Liza Rozovsky di Haaretz a Washington durante il fine settimana è andata oltre. Secondo lui, se Hamas “non accetta di cessare di esistere nella Striscia di Gaza”, le opzioni sono la ripresa degli scontri o la proroga della prima fase dell’accordo. 

Israele, ha aggiunto, accetterà di ritirarsi dal corridoio di Filadelfia e dalla zona cuscinetto lungo il confine tra Gaza e Israele solo se i leader di Hamas e “tutti coloro che sono collegati all’organizzazione” saranno esiliati.

Le implicazioni per gli ostaggi rimasti sono chiare. Tutti gli ostaggi ancora in vita a Gaza sono uomini, la maggior parte dei quali in età da combattimento – 50 anni o meno – e quindi in servizio come riservisti o teoricamente in grado di farlo. È noto che gli ostaggi maschi nella Striscia sono stati trattati in molti casi in modo ancora più duro delle loro controparti femminili, che sono state sottoposte ad abusi fisici e psicologici.   La maggior parte degli ostaggi rimasti probabilmente assomiglia ai tre che sono tornati in Israele sabato, mezzi morti di fame.

Non è difficile immaginare le condizioni di coloro che sono rimasti nei tunnel e cosa potrebbe accadere loro se la seconda fase venisse ritardata. 

La vista orribile di Ben Ami, Sharabi e Levy ha anche gettato in una luce ridicola la campagna della destra per il rilascio di Ari Rosenfeld, il sottufficiale accusato di aver fatto trapelare informazioni riservate a un collaboratore di Netanyahu, dalla custodia dell’intelligence militare (è stato rilasciato, molto tardivamente, agli arresti domiciliari la scorsa settimana), e la loro sfacciata affermazione che le sue condizioni sono peggiori di quelle degli ostaggi a Gaza.

C’è un divario significativo tra la grande preoccupazione dell’opinione pubblica per la sorte degli ostaggi – come testimoniano le trasmissioni televisive e i commenti sui social media – e l’indifferenza mostrata dal governo. 

Con il pretesto di non profanare lo Shabbat, solo alcuni membri del gabinetto si sono preoccupati di dare una risposta al ritorno di Ben Ami, Sharabi e Levy. Per loro, l’intera vicenda è una questione di competenza dell’establishment della difesa, i cui capi hanno monitorato la consegna degli ostaggi dalle loro sale di guerra. 

L’indifferenza di molti ministri e parlamentari della coalizione per la sorte degli ostaggi è pari solo all’insensibilità con cui considerano la loro responsabilità per il disastro del massacro del 7 ottobre. I vertici dell’esercito, invece, sono almeno visibilmente tormentati e la maggior parte degli ufficiali di grado più elevato, giustamente, sono già in partenza.

Sabotaggio deliberato

L’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, che Netanyahu aveva licenziato a novembre, ha confermato nel fine settimana in interviste a Channel 12 News e al quotidiano Yedioth Ahronoth qualcosa che era stato riportato in queste pagine all’epoca: Il primo ministro ha deliberatamente sabotato i negoziati per l’accordo sugli ostaggi nel maggio dello scorso anno, un attacco mirato che è proseguito fino a luglio (vanificando il progetto del presidente degli Stati Uniti Joe Biden dopo la sua accettazione) e a settembre (fughe di notizie verso i media stranieri, che avevano lo scopo di distrarre l’attenzione dall’uccisione di sei ostaggi a Rafah  da parte di Hamas e di creare una crisi artificiale intorno alla richiesta di Israele di ritirarsi dal corridoio di Filadelfia).

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Dalle osservazioni di Gallant emerge che già a maggio i membri della cerchia ristretta di Netanyahu si sono preoccupati di informare il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich del numero minimo di ostaggi viventi che Israele aveva accettato. La pubblicazione del numero – solo 18 – ha contribuito a irrigidire le posizioni di Hamas, ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica israeliana e ha creato un ritardo deliberato nei negoziati. 

Il rinvio della finalizzazione dell’accordo al mese scorso è costato la vita di ostaggi e di decine di soldati nella guerra nella Striscia, che avrebbe potuto essere già conclusa.

Ma Gallant ha lasciato il suo ufficio al 14° piano molto tempo fa. Il suo sostituto è Israel Katz, il tirapiedi di Netanyahu e il suo principale troll nell’establishment della difesa. L’ultimo sfogo di Katz, venerdì, è stato diretto al capo dell’Intelligence Militare, il Magg. Gen. Shlomi Binder, che è stato preso di mira per essere licenziato dai collaboratori del primo ministro nell’ambito dell’ondata di epurazioni in corso. 

Il Capo di Stato Maggiore dell’Idf, Ten. Gen. Herzl Halevi, ha insistito circa sei mesi fa per nominare Binder capo dell’MI, nonostante le riserve sulle prestazioni della Divisione Operazioni (da lui guidata) il 7 ottobre. 

Netanyahu e Katz non sono concentrati sui dettagli delle indagini, ma piuttosto sul distogliere costantemente l’attenzione dai fallimenti del governo, di cui anche la vista degli ostaggi di ritorno da Gaza serve da promemoria.

Questa volta il pretesto è stato l’avvertimento di Binder, in una riunione di funzionari della difesa, che l’avanzamento del “piano” del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump per l’emigrazione dei palestinesi dalla Striscia di potrebbe provocare disordini sul Monte del Tempio e in Cisgiordania all’inizio del Ramadan, che inizia alla fine di febbraio. 

Questo avvertimento è del tutto professionale, fa parte dei compiti del capo dell’intelligence militare. Ma Katz ha dato istruzioni a Halevi di rimproverare Binder, in quanto agli ufficiali è vietato “parlare contro l’importante piano”. 

Katz ha anche detto in un incontro con i riservisti la scorsa settimana che il 7 ottobre è stato un “evento unico” che non si può ripetere e quindi è meglio “non soffermarsi su di esso”. Non si può sfuggire alla conclusione che il ministro della Difesa israeliano non sa nulla dell’importante argomento che gli è stato affidato.

Nel frattempo, sembra che lo stesso Trump stia valutando se fare un passo indietro rispetto alla sua proposta di trasferimento della popolazione e al clamore che ha suscitato.  

Venerdì scorso l’ha definita una semplice “transazione immobiliare”, aggiungendo che gli Stati Uniti “non hanno fretta di fare nulla”. Forse la miliardaria Miriam Adelson, la sua donatrice preferita, dovrebbe spiegargli che, dal punto di vista degli ostaggi israeliani, l’intera questione è in realtà piuttosto urgente. 

Allo stesso tempo, l’Ufficio del Primo ministro farebbe bene a moderare i toni. Gli inviati di Netanyahu negli studi radiofonici e televisivi stanno già descrivendo la proposta come un evento di proporzioni bibliche. 

Questo potrebbe sembrare un po’ ridicolo se alla fine Trump abbandonasse la proposta e tornasse a concentrarsi sulle sue battaglie contro i transgender e sulla sua lotta per riportare in auge le cannucce di plastica”.

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