Trump vuole Canada e Groenlandia: l'Italia si accodi per diventare lo stato Usa numero 52 o 53...
Top

Trump vuole Canada e Groenlandia: l'Italia si accodi per diventare lo stato Usa numero 52 o 53...

E se l’Italia diventasse il cinquantaduesimo stato Usa, subito dopo l’adesione “spintanea” del Canada? Potremmo accontentarci persino di essere il cinquantatreesimo, in fondo

Trump vuole Canada e Groenlandia: l'Italia si accodi per diventare lo stato Usa numero 52 o 53...
Preroll

Seba Pezzani Modifica articolo

7 Gennaio 2025 - 23.30


ATF

E se l’Italia diventasse il cinquantaduesimo stato Usa, subito dopo l’adesione “spintanea” del Canada? Potremmo accontentarci persino di essere il cinquantatreesimo, in fondo. Quindi, accodarci alla Groenlandia, visto che è di stamattina la notizia dell’ennesima sparata di Donald Trump. Della serie fantozziana, ma neanche troppo, «Venghino, venghino gli amici canadesi e pure quelli groenlandini, groenlandoni… groen… Come caspita si chiamano questi?». Eh, già, pare proprio che Trump abbia invitato i vicini settentrionali – da sempre considerati dagli yankee un popolo di fighetti, debosciati ed ecologisti con la puzza sotto il naso – ad abbandonare ogni indugio e a convolare a nozze con la vera America, quella che si fregia di quel titolo anche nel nome e che ne vorrebbe l’esclusiva. Magari, perché no, si potrebbe invitare pure i “peones” del Messico a rinunciare al tricolore e a convergere a loro volta verso un sacrosanta unità di intenti sotto il vessillo della “Old Glory”. Pure il Messico? Perché, se andiamo avanti di questo passo, la bella Italia dovrà umilmente chiedere che le venga intestata una stellina supplementare sul cielo azzurro di Washington, a giudicare dalla visita segreta di Giorgia Meloni a casa di Trump.

Ciò che, fino a non tantissimo tempo fa, sarebbe stato di esclusiva pertinenza di un dopo cena ufficiale a base di whisky e grog, oggi pare avere diritto di cittadinanza in un mondo diplomatico sempre più dominato dalla dabbenaggine. Dall’ultima intemerata del Donald si evince qualcosa di risaputo, ovvero che, in fondo, la creazione di un’unica federazione americana a guida statunitense è nell’ordine delle cose. Si tratta, a pensarci bene, di un sogno panamericano non molto diverso dall’ambizione della Grande Russia. Accostare i due acerrimi nemici fa sempre stizzire gli uni e gli altri, ma, come ebbe a dirmi molti anni fa, all’inizio dell’incredibile ascesa di Putin, un suo connazionale dissidente, «i russi ragionano con la pancia, non con il cervello, sono un popolo emotivo e hanno nostalgia dell’impero». Sembra l’identikit del popolo americano.

I punti di contatto sono molteplici e a nessuno dei due piace sentirseli rammentare. Emotività e imperialismo, come si diceva; una religiosità profonda che sfocia nel bigottismo; un materialismo capitalista quasi messianico, con due divinità profane contrapposte, ovvero liberismo e comunismo; una inveterata tendenza guerrafondaia. Ecco che parlare di Grande Russia con l’annessione dell’intera Ucraina o di parte di essa non è poi così lontana, idealmente, dall’idea americana di annettersi Canada, Groenlandia e, in un secondo momento, pure Messico e Cuba. Con Cuba gli Stati Uniti ci hanno già provato, peraltro.

Leggi anche:  Una Tesla esplode alla Trump Tower di Las Vegas, un morto e 7 feriti: non si esclude il terrorismo

Sparata o meno che sia, come sempre ogni nuovo discorso di Trump è un tassello della sua infinita campagna elettorale che trova facili proseliti nel ventre molle di quell’America che, se venisse effettuato un test di cultura generale, farebbe una figura meschina.

Ma quello slogan “Make America Great Again” – che in realtà non significa nulla, considerati i dubbi sul fatto che sia mai stata realmente grande e/o che abbia cessato di esserla – la dice lunga. L’idea di essere in testa in tutto è una vera e propria ossessione. Il mito dell’eccezionalità Usa a 360 gradi, di una superiorità presunta in tutti i campi dello scibile, della messianicità di tale primato porta a conseguenze devastanti per il mondo intero, se non ci sono contrappesi all’interno del paese che ne fa un orgoglio nazionale. È davvero preoccupante quanto all’americano medio sfugga la proporzione tra la grandezza della propria nazione e le sterminate dimensioni del resto del mondo. La convinzione di tale presunta superiorità è un filamento impiantato nel Dna del popolo americano attraverso un nemmeno troppo sottile lavaggio del cervello imposto fin dalla più giovane età. Messaggi, slogan, atteggiamenti che complessivamente inneggiano a tale primato sono talmente acquisiti che l’americano medio non si rende nemmeno conto della pervasività di quello che, a conti fatti, è il liquido amniotico della nazione. Non è un caso che, ovunque si punti lo sguardo, facilmente negli Stati Uniti ci si imbatte in cartelli – che fanno spesso sorridere – indicanti questo o quel record: il grattacielo più alto (ormai un elemento del passato, sotto i colpi imbattibili dell’edilizia dei paesi della Penisola Arabica e del Sudest Asiatico), la bistecca più grande, il peperoncino più piccante, il fabbricato di pannocchie più mastodontico, l’uomo più ricco, il bambino più grasso, la donna più magra e via discorrendo.

Il 6 gennaio ricorreva il quarto anniversario dell’assalto a Capitol Hill, una delle pagine meno entusiasmanti della storia delle istituzioni democratiche degli Stati Uniti. Michael Fanone, un poliziotto che quattro anni fa rischiò di restare ucciso nell’assalto al Campidoglio, in un’intervista concessa all’Huffpost riflette tristemente e lucidamente sulla deriva qualunquista del suo paese e sull’inconsistenza della presunta “eccezionalità” del popolo americano. «Non credo più nell’eccezionalità americana. Ci credevo prima del 6 gennaio… Credo che di bravi americani ce ne siano tanti… profondamente devoti a questo paese e alla Costituzione… Ma non penso che siano queste le caratteristiche prevalenti nell’americano medio. Credo che l’americano medio sia codardo ed egoista.» Una disamina durissima e deprimente. «Non credo che viviamo più in una democrazia» è il suo grido di allarme. Aggredito il 6 gennaio 2021 da cinque facinorosi, colpito al collo con un taser, preso a calci e picchiato con oggetti contundenti dopo che, in terra, gli erano stati strappati la radio e il distintivo, Fanone per giunta subì un attacco cardiaco e perse conoscenza. I quattro anni trascorsi e la promessa della grazia per quei facinorosi che Trump ha fatto in campagna elettorale ne giustificano il pessimismo. E come contrappeso non basta il rifiuto di Biden di concedere anticipatamente tale grazia, per toglierne la soddisfazione al neoeletto: Biden ha dimostrato di che pasta sia fatto anche concedendo il perdono presidenziale a suo figlio.

Leggi anche:  Una Tesla esplode alla Trump Tower di Las Vegas, un morto e 7 feriti: non si esclude il terrorismo

Quindi, che male c’è se Donald Trump invita i vicini canadesi a confluire pacificamente nel Grande Paese, nel bengodi della libertà, nella terra promessa dell’umanità buona, nel paradiso dell’iniziativa individuale? Lo ha detto lui stesso, come sempre senza tanti giochi di parole: sembrerebbe aver ereditato tale competenza da qualcuno che in Italia, in un passato recente, aveva fatto della smentita ex-post o dell’accusa di fraintendimento del giorno dopo una vera e propria strategia di marketing politico. Con la differenza sostanziale della ormai inutilità della smentita, oltre che della portata dell’uditorio. Trump, infatti, non si preoccupa nemmeno più se l’ha sparata troppo grossa. Il suo popolo è totalmente assuefatto alle panzane della politica e alla sua narrazione fantasiosa da non saper minimamente distinguere tra una seppur minima parvenza di verità e la più plateale invenzione favolistica.

Ecco, dunque, che la visita della nostra premier al presidente eletto –  ma non ancora in carica, per giunta nella sua residenza privata di Maralago, Florida, e a pochi giorni dalla visita ufficiale in Italia del presidente ancora in carica Biden – rischia di essere un autogol. Soprattutto per via del “pasticciaccio Starlink”, i presunti accordi sottobanco con Elon Musk per un contratto di fornitura miliardaria di tecnologie all’avanguardia. Non che abbia dubbi sulla validità di tali tecnologie, ma l’idea che il fornitore dell’Italia sia un personaggio scarsamente affidabile, apertamente razzista (forse per le sue origini ancestrali boere?) e solitamente ondivago nelle sue scelte nonché arrogante nelle sue ingerenze in questioni politiche interne di altri paesi mi pare più che un azzardo. Pare averlo pensato anche Elisabetta Belloni, la numero uno dei servizi segreti italiani che ha dato anticipatamente le dimissioni e che non sembra felicissima alla prospettiva che la nostra sicurezza sia nelle mani di Musk, l’uomo più ricco del mondo e oggi uomo ombra di Trump.

Leggi anche:  Una Tesla esplode alla Trump Tower di Las Vegas, un morto e 7 feriti: non si esclude il terrorismo

È veramente inquietante pensare che il nostro paese stia facendo la scelta ormai antistorica di puntare a un’alleanza assoluta (che, nell’accezione americana, è una sudditanza vera e propria, senza se e senza ma) con gli Usa, snobbando i nostri partner continentali in un momento in cui un autentico rafforzamento del costrutto Europa potrebbe rappresentare un freno alle mire espansionistiche della Russia di Putin e di chi verrà dopo di lui come pure degli slanci colonialistici dell’America di Trump e del dopo Trump, per non dire nulla delle ambizioni invero poco europeiste della Turchia di Erdogan, della follia collettiva omicida di Israele con o senza Netanyahu e del potere economico dei petroldollari arabi. Quanto alla Cina, una postura di un’Europa meno piegata alle volontà a stelle e strisce sarebbe certamente un viatico diverso per avviare una costruzione di un mondo futuro più promettente.

Che c’è di male, dunque, nell’invito munifico che il Donald ha rivolto a Canada e Groenlandia? Il geniale cantautore americano Randy Newman anticipò i tempi, pubblicando nel 1972 il brano “Sail Away”, trasformando un negriero in un agente di viaggi che così si rivolge ai futuri schiavi africani in terra d’America: «In America ti daranno da mangiare / Non sarai costretto a correre nella giungla / E a graffiarti i piedi / Non farai altro che cantare inni a Gesù e bere vino tutto il giorno / … Sali a bordo, muso nero, fatti un viaggetto con me … / Sarai felice come una scimmia su un albero / Sarai americano anche tu».

Native

Articoli correlati