"Il suicidio di Israele": Anna Foa spiega il sionismo, la crisi identitaria e le speranze di pace sempre più flebili

In un volume per tanti versi scomodo, la storica Anna Foa, "un'ebrea della diaspora", ricostruisce in maniera sintetica ed efficace le radici della questione arabo-israeliana mettendo in rilievo la complessità e anche l'ambiguità delle varie questioni i

"Il suicidio di Israele": Anna Foa spiega il sionismo, la crisi identitaria e le speranze di pace sempre più flebili
Anna Foa
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13 Dicembre 2024 - 17.42


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di Antonio Salvati

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È un libro che ha già fatto discutere molto, quello di Anna Foa Il suicidio di Israele (Editori Laterza Roma 2024, pp. 96, euro 15,00). Soprattutto tra gli ebrei della diaspora. In un volume per tanti versi scomodo, la storica Anna Foa, “un’ebrea della diaspora”, ricostruisce in maniera sintetica ed efficace le radici della questione arabo-israeliana mettendo in rilievo la complessità e anche l’ambiguità delle varie questioni in campo. Con chiarezza e senza reticenze viene descritta la vicenda del Sionismo e del sogno di dare una terra a un popolo disperso e perseguitato. Un sogno che aveva tante sfaccettature perché gli ebrei della diaspora provenivano da paesi diversi ed erano depositari di culture differenti. Per questo Foa preferisce parlare di “sionismi”.

Un fenomeno, quello dei sionismi, che ha conosciuto un’involuzione: da quello originario della fine del XIX secolo, passando per quello liberale e favorevole alla pace con gli arabi, fino alla crescita del movimento oltranzista dei coloni e all’assassinio di Rabin. Molte pagine sono dedicate alla questione se il sionismo sia stato un fenomeno di “colonizzazione”. Per la Foa «l’emigrazione sionista in Palestina e la sua colonizzazione non erano il frutto di politiche di Stati nazionali, e non erano nemmeno occupazioni armate di territori. Lo avvicinava invece al colonialismo il richiamo al mondo europeo e alla sua cultura» (l’idea di una superiorità della civiltà europea). Il colonialismo di Israele, pertanto, non è simile al colonialismo classico europeo. Non ci sono stati che lo guidino. Più che con le armi si è originato con l’acquisto delle terre. E infatti c’è chi sostiene che i palestinesi parlano di colonialismo, perché percepiscono che Israele è il portatore di un’idea di supremazia europea. 

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Per i sionisti la Palestina non era inizialmente il luogo destinato ad accogliere tutti gli ebrei della diaspora, ma quello dove creare un nuovo modo di essere ebrei, inventare un nuovo mondo. La situazione mutò con l’avvento del nazismo. Il leader dei revisionisti, Jabotinsky, sostenne la necessità di un’emigrazione di massa degli ebrei europei, o almeno quelli tedeschi e polacchi.

Per questo dopo il 1933, oltre 450.000 ebrei emigrarono in Palestina, anche grazie ad accordi stipulati tra Ben Gurion e il Terzo Reich, all’epoca favorevole a disfarsi degli ebrei favorendone l’emigrazione e non ancora lo sterminio. Diverse ondate migratorie di ebrei seguiranno, in particolar modo la nascita dello stato di Israele nel 1948. Altra parte consistente del volume è dedicata all’identità del popolo israeliano, a partire dalla memoria della Shoah.

Dopo la vittoria della guerra dei sei giorni nel 1967, con l’occupazione di Gerusalemme Est e l’ubriacatura nazionalista, cambiarono non solo i confini interni, fra i territori occupati e i paesi arabi, ma anche le identità. Il sionismo subiva una vera e propria metamorfosi e si diffondeva un diverso tipo di israeliano, un sionista religioso aggressivo e ispirato da Dio a colonizzare tutta la terra di Israele. Nella West Bank occupata si sviluppava il fenomeno degli insediamenti da parte dei gruppi estremisti messianici, che si sarebbero poi riuniti nel Gush Emunim, il blocco dei fedeli, movimento religioso sionista messianico fondato nel 1974 dal rabbino Tzvi Jehuda Kook. Per i suoi sostenitori, il legame fra gli ebrei e la terra d’Israele era sacro, essa era stata data loro da Dio e loro compito era colonizzarla e mantenerla ebraica. Essi chiamavano – e anche oggi chiamano – i territori occupati coi loro nomi biblici, Giudea e Samaria, a significare la volontà di considerarli parte integrante di Israele.

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Oltre alla memoria della Shoah un altro fenomeno ha avuto un ruolo importante nell’attenuare i confini tra Israele e la diaspora, con il risultato di legare sempre più gli ebrei ad Israele: il terrorismo palestinese, che si attiva nella diaspora, colpendo gli ebrei e non più solo gli israeliani – come era avvenuto nel 1972 a Monaco –, come nell’attentato del 1982 alla Sinagoga di Roma in cui muore il piccolo Stefano Taché, a Parigi nel 1980 di fronte alla Sinagoga di rue Copernic e nel 1982 nel ristorante ebraico Chez Goldenberg, a Buenos Aires nel 1994 in un attentato che fece 85 morti, per non citare che i più gravi, facendo tutt’uno di obiettivi ebraici ed obiettivi israeliani.

Se in paesi come l’Italia il sionismo aveva avuto grandi difficoltà ad affermarsi, ora diventava difficile, per un ebreo italiano, anche solo dire di non essere sionista. Intanto, l’identità degli ebrei israeliani – aggiunge la Foa – si modificava fortemente rispetto all’antica matrice europea con l’esodo dopo il 1948, e in particolare dopo il 1967, degli ebrei dei paesi arabi. 600.000 profughi provenienti principalmente dal Nordafrica nonché dal Medio Oriente, in fuga dalle violenze antiebraiche diffuse già a partire dai primi anni Quaranta del Novecento. Ci sono varie ondate migratorie, ebrei yemeniti, nordafricani, iracheni, siriani, libanesi, egiziani. Dopo secoli di convivenza fra arabi ed ebrei, i paesi arabi si svuotano quasi completamente di ebrei. In Israele l’immigrazione degli ebrei orientali e nordafricani «determina notevoli anche se lenti cambiamenti e innanzitutto un conflitto di classe e antropologico fra la vecchia élite ashkenazita, laburista e legata all’esperienza dei kibbutzim, e i nuovi immigrati, poveri e considerati arretrati e “primitivi”. Rapporti complessi quelli determinatisi fra gli ebrei di origine europea, prevalentemente ashkenaziti, e quelli genericamente chiamati mizrachim, orientali, che una parte della storiografia israeliana ha interpretato come rapporti di tipo coloniale».

Un’altra grande trasformazione dell’identità israeliana è quella che si determina negli anni Novanta con l’immigrazione dai paesi dell’ex Unione Sovietica. Si tratta di oltre un milione di immigrati, che mantengono a lungo la lingua russa, creando giornali in russo e facendo del russo la terza lingua del paese dopo l’ebraico e l’arabo. Con un’educazione laica e con un alto livello di istruzione, particolarmente in campo scientifico, i russi hanno contribuito in notevole parte al grande sviluppo economico e tecnologico di Israele a partire dagli anni Novanta. Oggi oltre un milione di cittadini di origine russa risiedono in Israele.  L’emigrazione dalla Russia è ripresa in minor misura con l’inizio della guerra russo-ucraina nel 2022.

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Un altro tassello importante dell’identità degli ebrei d’Israele è quello religioso. «La religione è molto riconoscibile nella vita israeliana, non tanto nella frequenza in sinagoga, ma nelle feste, nell’alimentazione, nell’osservanza tanto visibile del sabato. Si sente spesso dire che Israele è uno Stato confessionale. Durante le ultime manifestazioni prima del 7 ottobre è stato anche uno degli slogan più diffusi dei manifestanti, “l’Iran è qui”. Ci si riferiva all’acquiescenza del governo nei confronti dei partiti religiosi che lo sostengono, non solo i sionisti religiosi ma anche gli ultraortodossi. In realtà Israele è una strana mescolanza di laicismo e religione: in molte zone gli autobus non circolano il sabato, il giorno di riposo settimanale, e quando lo fanno suscitano reazioni durissime da parte dei religiosi; nei supermercati si vendono solo cibi kasher, anche se molti negozi, anche a Gerusalemme, città assai meno “laica” di Tel Aviv, vendono maiale e crostacei, cibi proibiti dalle norme alimentari ebraiche».

È il frutto del patto fondamentale che all’epoca della fondazione dello Stato Ben Gurion ha stretto con i religiosi, «lui laico convinto ma persuaso che in una o due generazioni non ci sarebbero più stati religiosi e che non valesse la pena creare una spaccatura nel nuovo Stato sulla questione religiosa».

In realtà, è successo il contrario. I sionisti religiosi, fanatici della grande Israele data da Dio al popolo ebraico, «si sono moltiplicati grazie al gran numero di figli, così come si sono moltiplicati gli ultraortodossi, gli haredim, coloro che sono stati esentati fino ad oggi, per studiare i testi sacri, dal servizio militare».

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È l’ultima parte del libro, quella con le riflessioni accompagnate da doloroso sdegno, ad aver sollevato critiche ed attenzione. Israele stava già attraversando un periodo di crisi drammatica prima del criminale attacco del 7 ottobre 2023. Grandi manifestazioni chiedevano a gran voce le dimissioni di Netanyahu e del suo governo e il paese era praticamente bloccato. La risposta al gesto terroristico di Hamas con la guerra di Gaza rischia però di essere un vero e proprio suicidio per Israele. Un suicidio guidato dal suo governo, contro cui – è vero – molti israeliani lottano con tutte le loro forze, senza tuttavia finora riuscire a fermarlo. E – sottolinea la Foa – senza nessun aiuto, o quasi, da parte degli ebrei della diaspora. Anna Foa pensa innanzitutto ad un suicidio anche fisico, territoriale, nel senso che non crede che Israele riuscirà a vincere contro tutti i nemici con cui si trova a combattere su più fronti.

Occorre fermare subito le ostilità e trattare. Per salvare Israele è «necessario contrapporre al suprematismo ebraico, proprio dell’attuale governo Netanyahu, l’idea che lo Stato di Israele deve esercitare l’uguaglianza dei diritti verso tutti i suoi cittadini e deve porre fine all’occupazione favorendo la creazione di uno Stato palestinese».

Qualunque sostegno ai diritti di Israele – esistenza, sicurezza – non può prescindere da quello dei diritti dei palestinesi. Senza una diversa politica «verso i palestinesi Hamas non potrà essere sconfitta ma continuerà a risorgere dalle sue ceneri. Non saranno le armi a sconfiggere Hamas, ma la politica». Senza la pace non si può ricostruire l’immensa distruzione che appare oggi ai nostri occhi. Che non è solo distruzione materiale, ma lacerazione degli spiriti feriti dalla violenza e dalla morte. Ma non c’è altra via. E ci vorranno tanti anni per riparare questi animi feriti e violentati: generazioni. Occorre chiedersi seriamente se l’escalation è la strategia vincente. Forse presto questo governo di estremisti cadrà e le bombe smetteranno di ucciderei civili a Gaza. E coi necessari compromessi la vita ripartirà in Israele e nei territori palestinesi. Ma dopo questa forte esplosione e diffusione di odio sarà difficile realizzare una vera pace. La strada sarà lunga. Per questo Netanyahu e il suo governo sono responsabili non solo per quello che hanno fatto ai palestinesi di Gaza, ma anche per quello che la loro politica ha comportato per la stessa Israele. L’odio lasciato da tutti questi traumi non è scontato che cesserà un giorno. Ma non ci sono altre strade oltre la pace.

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