Il Libano festeggia, mentre Gaza muore. Hezbollah grida vittoria, quale poi, mentre i palestinesi continuano a essere vittime di un genocidio. “Israele sta finalizzando il suo piano di pulizia etnica nel nord di Gaza e da 50 giorni ormai sta impedendo l’ingresso di qualsiasi aiuto, mentre la popolazione sta morendo di fame”. È l’accusa lanciata da Oxfam, mentre non sembra esserci fine alla catastrofe umanitaria che investe tra 50 e 75 mila persone rimaste intrappolate a Gaza Nord senza cibo, acqua o energia elettrica.
“Da due mesi i nostri operatori e partner a Gaza cercano disperatamente di soccorrere la popolazione rimasta intrappolata a nord, ma Israele continua a bloccare qualsiasi tentativo e sappiamo già che molti bambini moriranno di fame”, denuncia Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia. “La pulizia etnica che si sta consumando nel nord di Gaza dimostra ancora una volta come Israele stia operando nella più totale impunità, violando il diritto internazionale. Siamo di fronte all’annessione de facto di quest’area, mentre svanisce ogni speranza di una soluzione giusta e pacifica, con la comunità internazionale inerte e in qualche caso palesemente complice. Israele continua ad usare la fame come arma di guerra nei confronti di decine di migliaia di persone che vengono definite combattenti solo perché non sono riuscite a scappare. Al momento è impossibile sapere esattamente quanti stiano morendo per malnutrizione”.
Anche le Nazioni Unite confermano che dal 6 ottobre non è stato loro possibile consegnare aiuti alimentari nel nord di Gaza. Tutte le panetterie sono chiuse, sospesi i programmi per la lotta alla malnutrizione infantile e il sostegno alle madri in allattamento. Le autorità israeliane hanno bloccato tutti i tentativi delle Nazioni Unite di inviare personale medico e carburante per mantenere in funzione i servizi idrici e igienici.
“Il nord è isolato dal resto del mondo”, racconta un operatore di Oxfam a Gaza. “A Jabalya, Beit Lahia, Beit Hanoun c’è solo caos, fame e morte. La popolazione è alla carestia e nessuno riesce a fare nulla. Siamo di fronte ad un orrore senza fine”.
“I bombardamenti hanno ucciso 10 nostri operatori, distrutto un ambulatorio e un rifugio per sfollati”
Juzoor, partner di Oxfam ancora presente nel nord di Gaza, riferisce che i recenti bombardamenti israeliani hanno colpito un rifugio per sfollati gestito dall’organizzazione, uno dei 15 ambulatori sanitari e un magazzino di scorte di medicinali. “Il nostro personale è più forte di noi e continua a dirci, che per fortuna c’è ancora qualcosa che possiamo fare”, racconta il dottor il Umaiyeh Khammash, direttore di Juzoor.
In condizioni tanto disperate, Juzoor continua a fornire assistenza medica, aiutando anche le donne che devono partorire, ma riferisce di bambini morti di malnutrizione e di moltissimi altri che non hanno più niente da mangiare. Ad oggi, 10 operatori di Juzoor sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani.
Al pari di tutte le organizzazioni e agenzie ONU che fanno parte della Food Security Cluster, a Oxfam è stato negato l’accesso nel governatorato di Gaza Nord da quando Israele ha intensificato l’assedio militare, il 6 ottobre. In questo lasso di tempo, si sarebbero potuti distribuire 800 pacchi di viveri utili a sfamare 5.600 persone.
“Dimenticatevi di Gaza Nord per sempre”, le testimonianze di chi è riuscito a fuggire
Circa 100.000 persone sono recentemente fuggite dal nord di Gaza in seguito agli ordini di sfollamento forzato di Israele. Gli operatori di Oxfam hanno raccolto testimonianze drammatiche di persone a cui i soldati israeliani avrebbero detto di “dimenticarsi di Gaza Nord per sempre”, promettendo cibo, mai distribuito alla fine di lunghe marce forzate. Un uomo di Beit Hanoun ha riferito di aver vissuto in una scuola semidistrutta con il figlio piccolo, di aver dovuto eliminare insetti dalla farina per fare il pane e accendere fuochi all’interno di un’aula per la paura di essere avvistato dai droni militari.
“C’era un uomo anziano su una sedia a rotelle rimasto bloccato nella sabbia. I soldati ci hanno ordinato di andare avanti senza di lui”, ha raccontato un’altra delle persone in fuga.
Un membro dello staff di Oxfam, responsabile della distribuzione degli aiuti, denuncia che i trasferimenti forzati verso sud, nella regione vicina a Gaza City, hanno generato un sovraffollamento insostenibile e che lo stato generale è vicino alla carestia. Lui stesso, sfollato dieci volte in un anno, riesce a mangiare solo una volta al giorno.
“Non c’è un mercato aperto a Gaza City e le persone sono senza cibo”, racconta. “La scorsa settimana abbiamo ricevuto 280 pacchi alimentari e speriamo di poterli consegnare nei prossimi giorni. Le persone sfollate dal nord sono in condizioni indicibili. Nel frattempo, la parte meridionale di Gaza è come un altro Paese, completamente separato da noi”.
Appello urgente per l’ingresso degli aiuti
In tutta Gaza, compreso il sud, a ottobre sono entrati in media 37 camion di aiuti al giorno, mentre nella prima settimana di novembre, 69 al giorno: prima del 7 ottobre ne entravano 500.
Oxfam chiede un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente e l’accesso degli aiuti umanitari a Gaza nord. Gli aiuti devono arrivare in tutta Gaza e ai palestinesi deve essere data la libertà di tornare a casa, di ricostruire e di vivere in pace senza occupazione o blocco.
Il direttore dei programmi sanitari e direttore dell’ospedale Al-Quds della Mezzaluna Rossa nella Striscia di Gaza, Bashar Murad, ha affermato che più di10.000 tende a Mawasi Khan Yunis sono state spazzate via da forti venti e dalla pioggia, costringendo i civili sfollati a spostarle in aree lontane dalla spiaggia in condizioni molto difficili e dure. Murad ha aggiunto alla radio Voice of Palestine che la popolazione soffre di varie patologie toraciche, in particolare anziani e bambini, a causa del notevole calo delle temperature e della mancanza di vestiti invernali, dispositivi di riscaldamento e coperte.
Netanyahu accetta la tregua in Libano per continuare la guerra a Gaza
Nel titolo di Internazionale, c’è la sintesi perfetta di ciò che sta avvenendo sul quadrante mediorientale. Un titolo che supporta l’analisi, come sempre accurata, di Pierre Haski, direttore di France Inter
Annotata Haski: “Non possiamo che essere sollevati davanti alla notizia del cessate il fuoco è entrato in vigore su uno dei fronti che infiammano il Medio Oriente da oltre un anno. Per i libanesi, come per gli abitanti del nord di Israele, l’accordo non significa la pace ma almeno annuncia la fine della guerra. Ed è già tanto.
Fino all’ultimo l’aviazione israeliana ha colpito i propri obiettivi in Libano, e il 26 novembre Beirut è sprofondata nel panico a causa di una pioggia di bombe. Nel frattempo, Benjamin Netanyahu riuniva il suo governo e faceva adottare l’accordo ai suoi alleati di estrema destra, come sempre inclini ad alzare la posta dello scontro.
L’obiezione dei “falchi” del governo è che Hezbollah non è stato eliminato, anche se l’organizzazione è stata considerevolmente indebolita, soprattutto a causa della morte del suo leader Hassan Nasrallah. Hezbollah arretrerà oltre il fiume Litani e non agirà più alla frontiera con Israele, ma potrà comunque tornare a rappresentare una minaccia in futuro. In questo senso il cessate il fuoco non permette a Israele di raggiungere uno degli obiettivi fissati.
Il primo ministro israeliano aveva diversi motivi per accettare il piano in 13 punti presentato dagli Stati Uniti (la Francia, co-negoziatrice, non è molto gradita da Netanyahu dopo che ha dato l’impressione di approvare il mandato d’arresto internazionale spiccato contro di lui).
Alcune ragioni sono state fornite la sera del 26 novembre dallo stesso Netanyahu: possibilità di concentrarsi sull’Iran, dare respiro a un esercito stremato e conservare il diritto di riprendere le ostilità in caso di violazioni dell’accordo da parte di Hezbollah. Netanyahu ha insistito particolarmente su quest’ultimo punto.
Ma ci sono anche altre motivazioni. La prima è il desiderio di dare una soddisfazione ai negoziatori americani, con l’assenso di Donald Trump. In questo modo Israele può evitare tensioni con l’amministrazione Biden – che è ormai in dirittura d’arrivo – nell’attesa di giorni migliori con il prossimo presidente, amico di Israele e soprattutto del suo primo ministro. La seconda ragione è riassumibile in una sola parola: Gaza.
Hezbollah aveva legato i due “fronti”, il Libano e Gaza, ma oggi l’organizzazione sciita accetta di fare un passo indietro su questo punto. Per il primo ministro israeliano si tratta chiaramente di un successo. Soprattutto l’accordo non prevede la fine della guerra nella Striscia, malgrado 44mila morti e la distruzione quasi totale del territorio.
Netanyahu mantiene libertà di azione a Gaza dove, senza tenere alcun conto delle pressioni esterne, procede a quella che somiglia molto a una pulizia etnica della parte nord del territorio. Israele non rivela i propri obiettivi, ma i suoi dirigenti fanno sapere che saranno presenti a Gaza ancora “per anni”.
Alcuni esponenti politici dichiarano apertamente di voler cacciare i palestinesi. Prendendosi una pausa in Libano, Netanyahu guadagna tempo a Gaza…”.
Così è. Con la complicità del democratico Occidente, dell’umanitaria Europa.