Quando Kamala Harris ieri, durante il discorso probabilmente più difficile della sua carriera, propone di guardare al futuro con fede e speranza, di “guardare il cielo stellato”, suona oggi tra il naif e forse un po’ ridicolo. Queste elezioni hanno dimostrato che alla maggioranza degli americani non interessa cosa c’è là fuori. Le uniche stelle a cui guardano sono quelle della propria bandiera.
Il mondo occidentale tutto è in una crisi radicale che nessuno vuole ammettere, e il risultato di questo voto ne è l’emblema. Le classi politiche dirigenti, che in una democrazia dovrebbero essere di esempio e ispirare una crescita civica, hanno completamente perso quel ruolo e quel tipo di legittimazione. Molto spesso perché più concentrate su poteri, piccoli privilegi e affari che sulle questioni concrete delle persone che dovrebbero rappresentare. In questo modo si è radicata in molti cittadini una sensazione di tradimento. Come stupirsi se poi votano chi spiattella potere e affari alla luce del sole? Chi, anche se sfacciato (o proprio per questo), risulta più credibile?
Quando si sperimenta che il mondo in cui si vive è così differente da quello narrato e promesso da chi governa, si cerca un altro mondo che dia una nuova speranza di cambiamento. Come? Inseguendo una narrazione che proponga una rinascita. Al giorno d’oggi, se lo fa con un linguaggio sfrontato, ancora meglio: per molti risulta più onesto e quindi degno di fiducia.
In questo contesto si è via via imposta una nuova narrazione alternativa – almeno apparentemente – dove hanno preso spazio idee e visioni semplicistiche della realtà, piene di stigmatizzazione e separazioni, noi-loro, amici-nemici; dinamiche che facilitano il recupero di un’identità e la costruzione di un nuovo senso. Animato da cosa? Sempre da lui, dal bisogno. Bisogno di cosa? In un contesto tanto materiale: di sperare che la vita diventi meno faticosa, che si possa guadagnare di più, per avere di più, di prevalere, che il sogno americano ritorni. Il problema è che il sogno americano per i più è sempre rimasto tale, solo un sogno.
Oggi sembrano tornare forti alcuni degli elementi presenti ai tempi in cui quel sogno è stato sbandierato, ma nel concreto non era per tutti. Il razzismo ne è un esempio. Dopo secoli di discriminazioni, avere la pelle nera negli Stati Uniti è ancora uno stigma, nonostante Obama e tutti i tentativi di narrazione differente. L’America di Trump è in parte l’America di sempre, quella di George Floyd, figlia a sua volta di quella che non celebrò nel 1936 il corridore Jesse Owens, famoso per le sue straordinarie performance durante le Olimpiadi di Berlino. Owens vinse quattro medaglie d’oro, ma non ricevette il riconoscimento che avrebbe meritato: non fu invitato alla Casa Bianca, né celebrato in modo ufficiale, e non ebbe neanche il sostegno finanziario che altri atleti, bianchi e famosi, ricevevano.
Si potrebbe obiettare che in mezzo ci sono stati Martin Luther King, le Black Panthers, il movimento Black Lives Matter, ma non è bastato. Come è successo in molte democrazie, si sono considerate quelle conquiste come ottenute in modo definitivo, ma la democrazia va coltivata ogni giorno, nella sua essenza, non come viatico di posizioni da conquistare. Così negli Usa ci si ritrova nel 2024 con la popolazione carceraria statunitense composta in larga parte da persone di colore (37%, secondo il Bureau of Justice Statistics), nonostante gli afroamericani rappresentino una percentuale significativamente più bassa della popolazione totale (14%). Quale democratico ha davvero cercato di contrastare questa tendenza? Obama? La sola sua presenza non è bastata; servivano politiche concrete che non sono state messe in atto.
Se poi guardiamo alle statistiche più recenti relative alla diffusione della povertà nei paesi OCSE, gli Stati Uniti, uno dei Paesi più ricchi del club OCSE, spiccano con un tasso di povertà pari al 18% (attorno al 10% negli altri paesi ricchi). È nota da decenni la discriminazione sanitaria negli Stati Uniti, portata alla luce in modo eclatante dal docufilm di Michael Moore, Sicko (2007). Anche il mondo dell’educazione è elitario: per accedere all’università 20-30 mila dollari sono il costo minimo.
L’impressione oggi è che la vittoria di Trump s-veli, nel senso che costringa a togliere il velo che consentiva agli Stati Uniti di continuare a emanare un ideale di società dalla matrice democratica in parte illusoria. Lo si vede per le strade di San Francisco invase da giovani senzatetto, masticati e sputati dalla Silicon Valley, per le strade della splendida New York dove, soprattutto dopo il Covid e in assenza di ammortizzatori sociali, si vedono derelitti umani che hanno perso tutto e arrancano senza nemmeno chiedere l’elemosina, rassegnati o distrutti dalla rovina, permeati dalla colpa di “non avercela fatta”.
Non trascurabile il livello di criminalità, l’aspettativa di vita più bassa di tutti i paesi del “primo mondo”. Nel 2021 l’aspettativa di vita alla nascita negli Stati Uniti era di 76,1 anni, la più bassa dal 1996 (National Center for Health Statistics – NCHS), in calo nel 2023, mentre in paesi europei e in Corea del Sud supera gli 80 anni.
Infine, i paesi in cui era stato dichiarato che sarebbe stata “esportata la democrazia” sono oggi nel caos più totale. Tutti fatti che raccontano un mondo reale, ma che in modo perpetuo è stato narrato (complice forse Hollywood) in modo piuttosto illusorio.
Il ritorno di Trump per molti può essere sconcertante. Ridicolo sentire che il suo governo sarà un governo che si contrappone alla dominazione delle élite, mentre i più importanti miliardari non solo lo sostengono, ma entrano fisicamente a farne parte integrante. D’altra parte è talmente evidente lo scollamento dei democratici con quella che un tempo veniva chiamata “base”, e l’attuale opacità del loro operato in America come in tutto il mondo, che solo un ribaltamento così estremo può forse portare a una reale messa in discussione e revisione della costruzione di senso e di rinnovata prospettiva democratica.