Una lettera di due pacifisti israeliani ai pacifisti europei su cui riflettere

Essere dalla parte dell’Israele che dice no alla guerra permanente, che denuncia, con puntualità e coraggio, i crimini contro la popolazione civile nella Striscia di Gaza, significa anche ascoltare le ragioni delle loro critiche

Una lettera di due pacifisti israeliani ai pacifisti europei su cui riflettere
Pacifisti israeliani
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

6 Luglio 2024 - 13.40


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Essere dalla parte dell’Israele che dice no alla guerra permanente, che denuncia, con puntualità e coraggio, i crimini contro la popolazione civile nella Striscia di Gaza, significa anche ascoltare le ragioni delle loro critiche e i loro appelli rivolti al movimento di protesta pro-palestinese sviluppatosi in questi mesi in Europa e negli Usa, a partire dai campus universitari.

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Significa non chiudere gli occhi né la bocca di fronte alle brutalità commesse dai miliziani di Hamas e del Jihad islamico il 7 ottobre 2023. In questo, Globalist ha cercato, da sempre, di non avere due pesi e due misure. Abbiamo scritto dell’apartheid in Cisgiordania, delle punizioni collettive, contrarie al diritto internazionale e umanitario, perpetrate da Israele contro la popolazione civile di Gaza.

Ma questo, almeno per noi, non significa minimizzare la portata dell’uccisione di civili, gli stupri, i rapimenti commessi dai miliziani palestinesi. Non c’è lotta di resistenza, anche la più legittima, che possa giustificare crimini contro civili. 

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Una presa di posizione importante.

Molly Malekar è direttrice esecutiva di Amnesty International Israele. Yariv Mohar è vicedirettore di Amnesty International Israele e cofondatore della Campagna Pro-Human, una coalizione globale contro la disumanizzazione. Il loro impegno per il rispetto dei diritti umani va avanti da anni, con dedizione e coraggio. Un impegno visto come fumo negli occhi, ed è un eufemismo, dagli attivisti di estrema destra che a più riprese li hanno tacciati di “traditori” arrivando anche a minacciarli di morte sui social. La loro lettera aperta, pubblicata da Haaretz, è importante anche perché ricorda a tutti noi, a tutte e tutti che hanno a cuore le ragioni della pace e i diritti dei palestinesi, che la peculiarità della tragedia israelopalestinese, come ebbe a sottolineare più volte il grande scrittore israeliano recentemente scomparso, Amos Oz, è che a confrontarsi, senza trovare un incontro a metà strada, sono due diritti ugualmente fondati: quello alla sicurezza per lo Stato ebraico, e il diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente. Le due facce di una stessa medaglia: quella di una pace giusta in Terrasanta.

Scrivono Malekar e Mohar: “Come attivisti israeliani per i diritti umani che lavorano a livello internazionale, consideriamo le proteste contro la guerra di Gaza, per la maggior parte, come appelli legittimi ed essenziali contro una catastrofe in corso che deve finire.

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Siamo preoccupati per i tentativi di delegittimarle e per la repressione, in alcuni casi, da parte delle autorità, sia nei campus che nelle strade delle città di tutto il mondo.

Ma allo stesso tempo siamo stati allarmati dal fatto che alcune fazioni all’interno delle proteste abbiano promosso l’odio, l’antisemitismo e abbiano giustificato e persino negato le atrocità del 7 ottobre. In alcuni casi hanno addirittura invitato a nuove violenze indiscriminate contro israeliani e sionisti.

Come attivisti per i diritti umani chiediamo ai nostri colleghi della comunità dei diritti umani di trovare il coraggio di alzare finalmente la voce contro queste distorsi

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Le voci di odio alimentano anche il già diffuso e preoccupante fenomeno dell’islamofobia e del razzismo antipalestinese in Occidente, in parte animato da attori pro-Israele. Nel frattempo, i crimini d’odio contro entrambe le parti aumentano. Negli Stati Uniti ebrei e palestinesi sono stati feriti e persino uccisi in attacchi legati all’odio, compreso un caso in cui un bambino palestinese di sei anni è stato pugnalato a morte e un neonato palestinese è quasi annegato il mese scorso.

Un comitato delle Nazioni Unite sul razzismo ha riscontrato un “forte aumento dei discorsi razzisti di odio e disumanizzazione” rivolti ai palestinesi da parte di funzionari israeliani dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. I discorsi d’odio sono sempre più diffusi. Eppure, con poche eccezioni, le organizzazioni per i diritti umani hanno raramente affrontato il discorso d’odio che circonda la guerra a Gaza da entrambe le parti.

Quando lo fanno, è spesso con dichiarazioni generiche contro ogni forma di razzismo, accompagnate da vaghi resoconti della posta in gioco e di ciò che deve essere fatto, senza esempi concreti. In questo vuoto alcuni Paesi, in particolare Germania e Francia, hanno usato misure radicali che mettono a repentaglio la libertà di parola per vietare la maggior parte delle proteste contro la guerra a Gaza e per i diritti dei palestinesi.

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E poi ci sono gli esempi in cui l’odio palese contro gli israeliani o gli ebrei viene ignorato . Il gruppo Within Our Lifetime (WOL), ad esempio, ha recentemente denunciato la mostra Nova a New York, che commemorava i giovani israeliani massacrati il 7 ottobre al festival musicale Nova e ha protestato davanti ad essa. Il gruppo ha definito la mostra “propaganda” e ha negato il ruolo di Hamas nelle uccisioni. Il gruppo ha anche dichiarato: “Non condanneremo il 7 ottobre. Non condanneremo le forze di resistenza del nostro popolo”, presentando l’evento come analogo ad altre rivolte storiche che vengono dipinte come ispiratrici, come la rivolta del Ghetto di Varsavia. Ci rimane un messaggio confuso, ma innegabilmente offensivo: non è successo, eppure quello che è successo è giustificato. Eventi come questo sono stati preannunciati già il 9 ottobre, due giorni dopo la carneficina contro gli israeliani, quando un capitolo di Studenti per la Giustizia in Palestina ha invitato a “sostenere tutte le forme di resistenza”, sostenendo inoltre che: “Chiediamo a tutti coloro che si identificano come ‘alleati’ del movimento di liberazione palestinese di intraprendere azioni simili”. Questo non è altro che un incoraggiamento de facto a uccidere e torturare indiscriminatamente e intenzionalmente i civili israeliani. E ci sono state condanne dirette e forti di questo linguaggio da parte dei gruppi per i diritti umani? No.

Le voci estreme all’interno del movimento contro la guerra di Gaza, con messaggi così distorti dal punto di vista morale, stanno mettendo a rischio la giusta causa di porre fine allo spargimento di sangue a Gaza e di smantellare il lungo assedio da parte di Israele e l’occupazione israeliana della Cisgiordania. Mentre alcune voci critiche di alto profilo su Israele, come il giornalista e commentatore Mehdi Hasan, hanno condannato questi elementi estremi all’interno della scena della protesta, praticamente tutte le organizzazioni internazionali e americane per i diritti umani sono rimaste in silenzio. Il loro silenzio è doloroso e sbagliato e va contro le stesse cose che dovrebbero rappresentare. Alzare la voce come organizzazioni per i diritti umani contro i discorsi d’odio di ogni tipo in modo più concreto è importante per tre motivi principali.

In primo luogo, perché il movimento di protesta è diventato un potente attore globale: queste proteste ricevono l’attenzione dei media internazionali, mobilitano i politici e svolgono un ruolo importante nel discorso pubblico. Le voci estreme al suo interno hanno fatto sentire alcuni membri della comunità ebraica profondamente insicuri e hanno contribuito a diffondere la menzogna della negazione delle atrocità del 7 ottobre.

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La loro retorica alimenta la delegittimazione del messaggio di protesta nel suo complesso, distraendo l’attenzione pubblica dalle atrocità di Gaza e dall’urgente necessità di porre fine alla guerra. Non dobbiamo ignorare il danno che questo tipo di linguaggio e di azione di protesta sta causando.

In secondo luogo, sebbene sia difficile per le organizzazioni per i diritti umani criticare coloro che potrebbero altrimenti sostenerle, non c’è motivo per non denunciare coloro che rifiutano i diritti umani fondamentali.

I nostri valori non dovrebbero essere compromessi per questioni di popolarità. Inoltre, le nostre organizzazioni hanno l’obbligo morale di alzare la voce quando individui o gruppi parlano in nome dei diritti umani, ma in realtà promuovono un messaggio diametralmente opposto.

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Infine, le organizzazioni per i diritti umani devono chiedere responsabilità: esigere che le autorità nazionali e locali elaborino politiche ragionevoli che garantiscano la libertà di parola e di associazione, ma che affrontino seriamente i discorsi di odio, l’intimidazione e l’antisemitismo. L’assenza di tali politiche sfumate può portare a una delegittimazione generalizzata delle proteste. A livello globale stiamo assistendo all’erosione dei valori liberali universali. Da un lato assistiamo all’ascesa dell’ultranazionalismo, della xenofobia e del populismo, dall’altro ci concentriamo sulle dinamiche oppressore-oppresso, che a volte rifiutano o ignorano i diritti umani delle comunità associate alla parte “forte”. In questo modo, i diritti universali vengono minati e l’odio e la violenza che ne può derivare vengono considerati giustificati.

Queste sfide richiedono un movimento per i diritti umani credibile, audace e coraggioso che difenda tutte le persone. Non dobbiamo sottrarci alle critiche, né fuggire dalle responsabilità. Le organizzazioni per i diritti umani non possono essere le ultime a rispondere a un pericoloso incoraggiamento delle violazioni dei diritti umani da parte di alcune fazioni del movimento di protesta propalestinese. Se questa tendenza continua. Inoltre, queste organizzazioni prestigiose, alcune delle quali sono state fondate all’indomani dell’Olocausto, rischiano di perdere la loro stessa levatura morale e, in ultima analisi, la loro efficacia nell’apportare il cambiamento di cui c’è disperatamente bisogno quando si tratta del conflitto israelo-palestinese non farà altro che generare altro odio”.

Per quel poco che conta, sottoscriviamo ogni loro parola. 

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