Israele, l'insensibilità della destra per la vita degli ostaggi
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Israele, l'insensibilità della destra per la vita degli ostaggi

Il viaggio in due parti di Globalist nell’insensibilità della destra per le sorti degli ostaggi ancora in mano ad Hamas e al Jihad islamico, si avvale dei preziosi contributi di analisti politici e studiosi talmudic

Israele, l'insensibilità della destra per la vita degli ostaggi
Proteste in Israele per chiedere la liberazione degli ostaggi in mano ad Hamas
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

17 Marzo 2024 - 15.04


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Calcoli politici. Discrimini religiosi. Perché alla destra che governa Israele l’interesse sugli ostaggi è pari a zero. Se non peggio.

Insensibilità e calcoli

Il viaggio in due parti di Globalist nell’insensibilità della destra per le sorti degli ostaggi ancora in mano ad Hamas e al Jihad islamico, si avvale dei preziosi contributi di analisti politici e studiosi talmudici che impreziosiscono Haaretz. Partendo dall’allarme rosso lanciato in un editoriale dal quotidiano progressista di Tel Aviv.

“Gli ostaggi detenuti da Hamas non hanno più tempo. Alcuni sono stati uccisi da quando è stato concluso il precedente accordo a novembre. Non c’è modo di conoscere lo stato fisico o mentale degli altri. Ogni secondo che passa mette in pericolo le loro vite, che in ogni caso sono cambiate in modo irriconoscibile. Pertanto, prima di ogni altra cosa, bisogna dire al governo che deve accettare l’accordo offerto da Hamas e riportare a casa gli ostaggi.

Secondo la bozza dell’accordo, come riportato da Reuters, la proposta di Hamas prevede due fasi: Nella prima fase, donne, bambini, soldatesse, anziani e malati saranno rilasciati in cambio della liberazione di 700-1.000 prigionieri palestinesi, tra cui 100 ergastolani.

Nella seconda fase, Hamas chiede un accordo di “tutti gli ostaggi per tutti i prigionieri palestinesi”. La data esatta del ritiro delle Forze di Difesa Israeliane dalla Striscia di Gaza sarà definita solo dopo il rilascio delle donne e degli anziani ostaggi.

Come previsto, l’Ufficio del Primo Ministro si è affrettato a dichiarare che Hamas “continua a insistere con le sue richieste infondate”. Tuttavia, l’unica cosa infondata sono le misere promesse fatte dal governo per oltre cinque mesi, in cui si afferma che i continui combattimenti indeboliranno la posizione di Hamas nei negoziati e favoriranno il rilascio degli ostaggi.

Secondo gli Stati Uniti, le richieste di Hamas non sono irragionevoli. John Kirby, consigliere della Casa Bianca per le comunicazioni sulla sicurezza nazionale, ha dichiarato che l’ultima risposta di Hamas rientra sicuramente “nei limiti dell’accordo su cui stiamo lavorando da diversi mesi”.

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Israele non può permettersi il lusso di continuare a temporeggiare. Se il governo rifiuta l’offerta, ovvero se avanza nuovamente richieste volte a sventare l’accordo e a continuare la guerra, ciò significherà solo una cosa: che il governo, e la persona che lo guida, ha deciso di abbandonare gli ostaggi, di lasciarli continuare a soffrire o a morire in cattività.

Gli Stati Uniti devono fare pressione sul Primo Ministro Benjamin Netanyahu affinché accetti questo accordo. Come gli americani hanno ben compreso, Netanyahu ha legato il suo destino politico alla destra estremista, che è interessata a continuare la guerra, a conquistare la Striscia di Gaza e a reinsediarvi gli ebrei, anche a costo di abbandonare gli ostaggi.

Gli americani devono esercitare una contropressione sull’ala destra di Israele per ottenere un accordo, altrimenti, in un modo o nell’altro, l’accordo non si farà mai.

Non sono solo gli americani a dover fare pressione. In un’intervista a Channel 12, il membro del gabinetto Gadi Eisenkot ha dichiarato di essere favorevole a continuare a implementare il precedente accordo anche se Hamas lo aveva violato.

L’abbandono di quell’accordo è costato la vita a molti ostaggi e ha rovinato la vita delle loro famiglie e dei loro cari. Questa volta, Eisenkot non deve tirarsi indietro.

Lui e Benny Gantz devono alzarsi in piedi e dire a Netanyahu, al gabinetto di guerra e all’intero governo che non daranno il loro contributo al continuo abbandono degli ostaggi. Il governo e l’IDF stanno parlando in termini di continuazione della battaglia per mesi o addirittura più a lungo. Non possiamo aspettare la restituzione degli ostaggi fino al raggiungimento di una “vittoria totale”. L’accordo proposto deve essere adottato immediatamente”.

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La religione impietosa

Di straordinario interesse è l’analisi di Ishay Rosen-Zvi,  presidente del Dipartimento di Filosofia Ebraica e Talmud dell’Università di Tel-Aviv e ricercatore presso l’Istituto Shalom Hartman.

“Perché – annota su Haaretz Rosen-Zvi – la destra israeliana è assente, nel complesso, dalle manifestazioni per gli ostaggi? Cosa c’è di più sacro e urgente che salvare le vite di altri israeliani? La risposta sembra ingannevolmente semplice: queste attività sono concepite come una continuazione delle proteste contro il governo di Netanyahu e il suo tentativo di revisionare il sistema giudiziario, da prima del 7 ottobre.

Un’altra ragione spesso citata è che gli ostaggi provengono per lo più da kibbutzim, considerati di sinistra e quindi in contrasto con la destra israeliana. Anche il ritiro unilaterale del Primo Ministro israeliano Ariel Sharon da Gaza nel 2005 è stato citato in questo contesto. In effetti, recentemente un membro della famiglia di un ostaggio ha detto a un membro della Knesset del Likud: “Se il disimpegno non fosse avvenuto, non saresti seduto qui adesso”.

Ma queste spiegazioni, basate su agende politiche e politiche identitarie, non vanno abbastanza in profondità.

In questo caso è all’opera un’ideologia fondamentale, secondo la quale la guerra a Gaza è l’ultimo dramma nazionale, una rara opportunità per recuperare l’orgoglio nazionale e il senso di invincibilità. In questa narrazione, gli ostaggi sono una fonte di debolezza collettiva. Sostenere la loro causa significa elevare la causa dell’individuo al di sopra di quella dello Stato.

Non si tratta solo di una questione di priorità immediate, ma di un intero sistema di valori. Diversi oratori di destra hanno presentato la guerra come una rara opportunità per recuperare un senso di onore e di unità. Yinon Magal, un importante giornalista di destra, ha descritto in un’intervista questo periodo come una “grande epoca che fa bene a Israele”.

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Poi c’è la religione. Secondo un recente sondaggio, il 73% della popolazione ebraica laica è favorevole a un accordo con Hamas per il rilascio degli ostaggi, rispetto al 52% di coloro che si definiscono “masorati”, al 41% di coloro che si identificano come religiosi e solo al 24% della comunità Haredi.

Esiste quindi una correlazione inequivocabile tra il livello di religiosità e l’ostilità verso i negoziati con Hamas. Questa correlazione non può essere spiegata dalla sensibilità religiosa in sé, dal momento che la tradizione halakhica in generale sposa un profondo impegno e la compassione per gli ostaggi.

Nel corso della storia, le comunità ebraiche si sono impegnate a fondo e hanno pagato ingenti somme di denaro per il riscatto di ostaggi di tutto il mondo. Sebbene la Mishnah stabilisca che “I prigionieri non devono essere riscattati per un valore superiore al loro valore”, gli halakhisti (esperti di legge ebraica) di tutte le generazioni si sono preoccupati di aggirare questa restrizione, dai Tosafisti del XII secolo (vedi Tosafot su Bavli Gittin 45a; 58a) a Rabbi Ovadia Yosef che nel 1976, in occasione del rapimento di un aereo dell’Air France in Uganda, stabilì che è giustificato rilasciare i terroristi in cambio di prigionieri, anche per un prezzo estremamente alto (Yabia Omer parte 10).

Non è quindi la tradizione a essere in gioco, ma piuttosto un nuovo tipo di religiosità nazionalistica. La correlazione tra identità religiosa e politica di destra è più forte che mai e la questione dell’orgoglio nazionale contro la debolezza percepita gioca un ruolo cruciale in questa atmosfera.

Mafdal, il primo partito che rappresentava i sionisti religiosi in Israele, era centrista. Tuttavia, ha gradualmente perso consensi ed 

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