Perché rioccupare Gaza può diventare un incubo per Israele

"Per la prima volta da decenni stiamo combattendo nel cuore di Gaza City": lo ha detto Yaron Filkelman, comandante del fronte sud di Israele.

Perché rioccupare Gaza può diventare un incubo per Israele
Sfollati a Gaza
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Novembre 2023 - 17.27


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“Per la prima volta da decenni stiamo combattendo nel cuore di Gaza City”: lo ha detto Yaron Filkelman, comandante del fronte sud di Israele. “Nel cuore del terrore. Questa è una guerra complessa e difficile e sfortunatamente ha i suoi costi”, ha aggiunto.

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Costi che potrebbero rivelarsi altissimi per Israele, in termini di vite umane spezzate e di altro ancora, se Benjamin Netanyahu deciderà di rioccupare la Striscia di Gaza.

A darne conto è uno dei più accreditati analisti militari italiani: Pietro Batacchi, direttore di Rid (Rivista italiana difesa).

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Spiega Batacchi: “Dopo 11 giorni dall’avvio delle operazioni terrestri, le forze israeliane hanno completato la manovra per tagliare in 2 la Striscia di Gaza, raggiungendo la costa a sud del sobborgo meridionale di Gaza City di Zeitoun. 

In questo modo le Idf hanno separato il “quadrilatero” Gaza City, Beit Lahia, Beit Hanoun, Jabaliya dal resto della Striscia. Parallelamente, stanno cercando di accerchiare Beit Hanoun, entrando nel “vuoto” tra questa e Beit Lahia,e di stringere il cerchio sulla stessa Gaza City attraverso 2 assi principali: il primo, lungo la costa, in direzione sud verso il campo di Al Shati e in direzione est verso l’agglomerato urbano di Gaza City provando a prendere piede nei quartieri di Al Moqaisi e Sheikh Radwan. Il secondo asse è quello a sud di Gaza City, dove le IDF stanno cercando di consolidarsi nei sobborghi meridionali di Zeitoun e Tal El Hawa. Qui al momento si registrano i combattimenti più duri con i gruppi palestinesi che sfruttano ampiamente il sistema dei tunnel e le macerie provocate da 4 settimane di intensi attacchi aerei – che hanno provocato a Gaza una distruzione mai vista prima – per condurre imboscate e azioni mordi e fuggi con lanciagranate e armi leggere.

Una strategia efficace che sta imponendo un certo attrito, con una quarantina di caduti e oltre 300 feriti tra le fila dell’Esercito Israeliano. In taluni casi, le forze israeliane sono state costrette a “interrarsi” creando con il Genio apprestamenti difensivi e punti di fuoco per proteggersi dal tiro dei mortai e dei missili controcarro dei miliziani. In pratica, le IDF sono ancora impegnate a consolidarsi nei “vuoti” e nelle cinture non urbane e si limitano ad una serie di azioni nelle periferie, agendo in maniera molto lenta e metodica per preservare il più possibile le forze. Chiaramente stiamo parlando delle operazioni convenzionali, poiché forze speciali, commandos e Shin Bet agiscono sin dall’inizio dell’Operazione Spade di Ferro nella profondità delle aree urbane con raid mirati: si cercano gli ostaggi, si guidano gli attacchi aerei e si eliminano i caporioni di Hamas e Jihad Islamica.

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Se l’offensiva terrestre a Gaza procede lentamente e il secondo fronte con il Libano per ora mantiene i crismi di conflitto a bassa intensità, il terzo fronte in Cisgiordania è sempre più caldo. Qui tutti i giorni si combattono battaglie tra miliziani palestinesi e Polizia ed Esercito israeliani: l’epicentro è il “triangolo” Jenin, tradizionale roccaforte della militanza palestinese, Tulkarem, assediata da 3 giorni, Nablus, ma le violenze stanno interessando la gran parte delle città della Cisgiordania. Violenze che sono di un’entità tale da costringere gli Israeliani a impiegare su larga scala l’Esercito e a ricorrere a strike aerei e con droni, e pure all’artiglieria e alle loitering munitions: secondo fonti del Ministero della Sanità palestinese, dal 7 ottobre in Cisgiordania sono state uccise 163 persone. La “resistenza” palestinese è affidata solo in parte alle diramazioni locali di Jihad Islamica e Hamas mentre il grosso “grava” su sigle e gruppi spontanei proliferati a partire dal 2021 in barba ad un controllo del territorio che Al Fatah, con il suo braccio armato delle Brigate Martiri di Al Aqsa, e l’Anp non esercitano sostanzialmente più. Ecco, dunque, le giovani generazioni arrabbiate e senza prospettive che hanno dato vita a nuove realtà come la Tana dei Leoni, la Brigata Jenin e la Brigata Balata. Una galassia “spontaneista” che però nell’ultimo anno ha visto aumentare il proprio consenso e infoltirei propri ranghi, drenando importanti risorse agli Israeliani.

In definitiva, ciò che si sta profilando davanti ad Israele è uno scenario con un triplice fronte: la guerra totale a Gaza, il conflitto strisciante a bassa intensità a nord con Hezbollah (quest’ultimo dissuaso dal giocare la carta dell’escalation per via del massiccio dispiegamento americano nell’area…) e la guerra di guerriglia in Cisgiordania. Uno scenario molto costoso e che potrebbe richiedere molto tempo prima di un riassestamento. E le 2 variabili sono intimamente collegate: mantenere a lungo oltre 300.000 riservisti mobilitati, togliendoli alle normali attività economiche, costa molto, così come costa molto il consumo di munizionamento, e il consumo e l’usura dei mezzi, e pure il supporto delle unità impegnate in combattimento. Insomma, ad un certo punto per Israele potrebbe diventare insostenibile proseguire con un impegno militare così gravoso, considerando che l’alleato americano deve continuare anche a supportare l’Ucraina e a non abbassare l’attenzione in Asia-Pacifico, per evitare spiacevoli sorprese, senza dimenticare la profonda spaccatura nel Partito Repubblicano e l’enorme questione del debt ceiling”.

L’ultimo azzardo di Netanyahu può trasformarsi in un incubo per Israele

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Scrive David Frattini, corrispondente da Tel Aviv per il Corriere della Sera: “Prima lo dice in ebraico e come «fonte anonima di alto livello»: «Dobbiamo denazificare la Striscia e non possiamo affidarla all’Autorità palestinese dove è presente un’ideologia simile». Due giorni dopo Benjamin Netanyahu ci mette il nome e la faccia in un’intervista all’emittente Abc: «Israele manterrà la responsabilità della sicurezza a Gaza per un tempo indefinito alla fine della guerra». Washington – a partire dal presidente Joe Biden – preme perché i 363 chilometri quadrati ritornino sotto il controllo del presidente Abu Mazen o del suo successore, all’interno di una soluzione di pace complessiva che comprenda la Cisgiordania: i territori palestinesi divisi politicamente dal 2007, da quando i fondamentalisti hanno preso il potere nella Striscia con le armi, sarebbero di nuovo amministrati da una sola entità.

Il punto è capire che cosa intenda Netanyahu con le dichiarazioni rilasciate alla tv americana, in inglese per orecchie americane. Nella prima fase si tratterebbe di una zona cuscinetto profonda un chilometro – in quello che è già uno stretto corridoio di sabbia – lungo tutto il perimetro di Gaza. Una fascia considerata zona militare: i palestinesi che vi entrano sarebbero considerati ostili. In seguito potrebbe essere instaurato un modello simile all’area B in Cisgiordania, uno dei tre settori definiti dagli accordi di Oslo, che avrebbero dovuto essere transitori: la gestione civile è palestinese, ma le truppe di Tsahal possono intervenire quando e come vogliono, con raid e arresti. 


I ministri oltranzisti e messianici parlano invece di un ritorno a Gaza, di ritirate su le colonie evacuate nel 2005, per i rappresentati delle frange più estreme la guerra è un’occasione per portare avanti i progetti di annessione, compresa la Cisgiordania. Anche qualche politico più moderato nella destra proclama che i palestinesi di Gaza vadano puniti con la perdita di territori, in quello che è già uno dei luoghi con la più alta densità di popolazione, gli abitanti sono oltre 2 milioni. Insediamenti o basi militari potrebbero essere costruiti a nord dove c’erano le tre colonie Elai Sinai, Dugit e Nisanit, che non facevano parte del grande blocco religioso di Gush Katif. Tutti questi piani sono in contrasto – soprattutto se come ha dichiarato Netanyahu a «tempo indefinito» – con la volontà di Biden e dei Paesi arabi di far ripartire i negoziati che portino alla nascita di uno Stato palestinese”.

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Lorenzo Cremonesi, storico inviato di guerra del Corriere, Israele lo conosce meglio delle proprie tasche, avendo fatto per anni il corrispondente del giornale di Via Solferino. 

Da Tel Aviv annota: “La formula di Netanyahu all’apparenza è semplice: riprendere il controllo militare di Gaza. In realtà nasconde un’infinità di insidie e incognite. Ariel Aharon, un ex generale diventato il politico «falco» per eccellenza, nel 2005 da premier volle fortemente smantellare le colonie ebraiche di Gaza e portare fuori tutti i militari. «Ora chiudiamo i cancelli e buttiamo le chiavi in mare», disse allora. In verità le chiavi non sono mai state gettate in mare e i cancelli mai stati ermeticamente chiusi”.

Controllare Gaza sarà un incubo. 

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Spiega Cremonesi: “Dal 2006 Hamas ha addestrato i suoi uomini a resistere con le tattiche di Hezbollah. La forte densità della popolazione civile aiuterà i guerriglieri a muoversi come «pesci nell’acqua». Sarà necessario l’aiuto dell’Egitto di Al Sisi, che da una parte teme Hamas come il diavolo, ma dall’altra non vuole apparire come collaborazionista di Israele nell’opprimere i palestinesi. Con il crescere della repressione, Hamas potrebbe guadagnare seguaci in Cisgiordania e in Giordania. Tutto lascia credere che, dopo quello in corso, si aprirà un nuovo capitolo sanguinoso nella ormai secolare storia del conflitto arabo-israeliano..”.

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