Migranti e Gaza, tragedia scaccia tragedia: ma nel Mediterraneo si continua a morire
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Migranti e Gaza, tragedia scaccia tragedia: ma nel Mediterraneo si continua a morire

E’ una “legge” non scritta ma che, salvo sempre più rare eccezioni, regna sovrana sulla stampa, soprattutto quella mainstream: una tragedia  - oggi quella della guerra a Gaza - ne oscura un’altra: quella dei migranti.

Migranti e Gaza, tragedia scaccia tragedia: ma nel Mediterraneo si continua a morire
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

5 Novembre 2023 - 17.34


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E’ una “legge” non scritta ma che, salvo sempre più rare eccezioni, regna sovrana sulla stampa, soprattutto quella mainstream: una tragedia  – oggi quella della guerra a Gaza – ne oscura un’altra: quella dei migranti. Una tragedia che continua, nonostante la scomparsa dalle prima pagine e anche da quelle interne. 

Quella tragedia dimenticata

Per fortuna esistono giornalisti che non abbassano la guardia, che continuano a indagare, a denunciare le brutture che si consumano nel Mediterraneo. Giornalisti come Nello Scavo.

Che su Avvenire scrive: “Due ragazze tigrine e un adolescente, picchiati e seviziati dalle organizzazioni dei trafficanti di uomini in Libia. Le immagini ricevute dai familiari sono quelle di sempre. Le donne vengono spogliate e colpite decine di volte sulla schiena con un pesante tubo di gomma. Non sappiamo cos’altro gli succederà. Il minorenne viene inquadrato dal telefono del torturatore prima di venire picchiato. Al collo una croce di legno, quella dei cristiani del Corno d’Africa. Parla nel suo dialetto. Implorano pietà e denaro per la propria libertà. Il ragazzino, Kidaneh Zemichael Kidane, a un certo punto indica una presa elettrica, e spiega cosa gli hanno fatto e cos’altro stanno per fargli. 

I filmati attraverso la rete di familiari e conoscenti sono arrivati a “Refugees in Libya”. Il 2 novembre sarebbero stati girati i video delle torture sulle donne, tre giorni prima quello del minorenne. Luam Addis Beyene, la prima nel filmato, è nata a Shire Inda Selassie, che significa “Casa della Trinità”, un centro abitato nella regione del Tigray, in Etiopia. Come migliaia di altri è scappata dal conflitto con l’Eritrea. «Abbiamo pagato 8.000 dollari per arrivare in Libia, ma siamo stati catturati dai ladri sulla strada per il mare e ci hanno messo in un magazzino a Bani Walid per la seconda volta e ora stiamo soffrendo di fame e bastonate notte e giorno». Poi implora chiunque ascolti il suo appello: «Per favore, fratelli e sorelle, questi 12.000 dollari che ci hanno detto di pagare sono al di là delle nostre possibilità». Poco dopo toccherà a Mercy Zeru Debas, anche lei spogliata e bastonata. Di entrambe ci sono giunte le foto in primo piano scattate quando si trovavano nei loro villaggi. Truccate e in posa come ogni loro coetanea, mesi dopo vediamo invece la schiena coperta di cicatrici e lividi. Sentiamo appena i loro lamenti, e più trattengono il dolore più l’aguzzino colpisce forte. 

Un anno fa l’Ufficio Onu per i diritti umani aveva indicato la zona di Bani Walid e le prigioni dei migranti, come «centri di detenzione della Direzione per la lotta alla migrazione illegale” del governo di Tripoli, aggiungendo che “vi sono ragionevoli motivi per ritenere che i migranti siano stati ridotti in schiavitù». In particolare era stato rilevato che «la schiavitù sessuale è commessa a Sabratah e Bani Walid». Da allora nulla è cambiato. Gli attivisti di “Refugee Libya” hanno contattato le autorità di Tripoli perché soccorrano i profughi torturati e hanno trasmesso alla polizia anche i filmati. «Ma fino ad ora – spiegano – nessuno ci ha risposto».  Nel terzo video, l’adolescenter parla in dialetto e, come hanno confermato fonti di “Avvenire”, racconta di essere prigioniero in Libia da 4 mesi. Dice di essere stato ridotto alla fame. Il suo aspetto lo conferma, mentre a mani giunte tenendo la piccola croce, dice che carcerieri chiedono 7.500 dollari per liberarlo. Poi porta la mano a una presa elettrica, lasciando intendere quale genere di torture deve subire. 

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L’area di Bani Walid è sotto il controllo della “Brigata 444”, ufficialmente sotto l’autorità del Ministro della Difesa. I trafficanti di uomini, grazie alle coperture e alle connessioni dirette con le autorità centrali, nell’area continuano a macchiarsi dei peggiori crimini. Come aveva rivelato un’inchiesta di Avvenire firmata da Paolo Lambruschi, diversi profughi sono stati usati dalla rete internazionale di trafficanti per il mercato degli organi umani. 

Nel rapporto degli ispettori Onu approvato due settimane fa dal Consiglio di sicurezza, si legge che «il gruppo di esperti ha individuato diciannove sedi di centri operativi gestiti da reti di trafficanti di esseri umani e di migranti nel sud, nell’ovest e nell’est della Libia: Ajaylat, Ajdabiya, Al-Khums, Bani Walid, Bardiyah, Bengasi, Kufra, Misrata, Musaid, Sabrathah, deserto di Shuwayrif, Sirte, Tazirbu, Tripoli, Tajoura, Tobruk, Umm-Sa’ad, Zawiyah e Zuwarah». I campi di raccolta e detenzione sono stati utilizzati come «punti di coordinamento da cui i leader della rete coordinano le fasi operative della tratta utilizzando elementi della rete in diverse località all’interno e all’esterno della Libia», ma sono anche «basi logistiche in cui gli autisti cambiava i veicoli di trasporto necessari per proseguire il viaggio». In generale si tratta di «luoghi di detenzione a breve e lungo termine in cui i migranti vengono illegalmente privati della libertà e sottoposti ad atti di tortura e altri maltrattamenti a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo, estorsione di denaro e/o controllo disciplinare sui detenuti”.

Deportazioni continue.

Da un report di Italpress/Mna: “L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha rivelato che 430 migranti, tra cui 10 donne e 20 bambini, sono stati intercettati in mare e successivamente riportati in Libia. Inoltre, l’Oim ha segnalato la tragica scoperta di un migrante deceduto la scorsa settimana.


Nel corso dì quest’anno, l’Oim ha documentato che 13.065 migranti sono stati salvati e riportati sulle coste libiche. Altri 933 migranti hanno perso la vita e 1.233 sono stati dichiarati dispersi durante il loro viaggio sulla pericolosa rotta del Mediterraneo centrale, vicino alla Libia. L’anno scorso, l’Oim ha registrato che 24.684 migranti sono stati salvati e riportati in Libia, mentre 529 hanno perso la vita e 848 sono stati dichiarati dispersi lungo la stessa insidiosa rotta. 


Dopo il crollo del regime del defunto leader Muammar Gheddafi nel 2011, la Libia si è trasformata in un importante snodo di transito per i migranti, prevalentemente africani, che aspirano a raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo. Molti migranti e rifugiati provengono dall’Africa sub-sahariana, in fuga dalla povertà, conflitti e persecuzioni, con la speranza di trovare una vita migliore in Europa. La posizione geografica strategica della Libia, con la sua lunga costa mediterranea, la rende un punto di partenza attraente per questi viaggi disperati. L’Unione Europea è stata criticata per la sua cooperazione con le autorità libiche nell’intercettazione e nel rimpatrio dei migranti, dove sono spesso esposti a condizioni terribili. I centri di detenzione in Libia sono noti per il sovraffollamento, gli abusi e la mancanza di beni di prima necessità. Le organizzazioni internazionali, tra cui l’Oim e l’Unhcr, si sono espresse apertamente sulla necessità di un trattamento umano dei migranti e sull’importanza di fornire percorsi sicuri e legali per la migrazione. Nonostante i rischi, i migranti continuano a intraprendere questi viaggi pericolosi e la rotta del Mediterraneo centrale rimane una delle rotte migratorie più mortali al mondo.

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“Ci ordinano di deportare le persone in Libia.” Mediterranea porta il Governo in Tribunale

“È stato depositato al Tribunale di Trapani il ricorso contro i ministeri degli Interni, delle Infrastrutture e Trasporti, e dell’Economia e Finanze finalizzato a ottenere la cancellazione del verbale di “fermo amministrativo nave”, notificato al Comandante e all’armatore della Mare Jonio lo scorso 18 ottobre.

Nel ricorso, redatto dalle avvocate Cristina Laura Cecchini, Giulia Crescini e Lucia Gennari, si ricostruisce con estrema precisione l’operazione di soccorso condotta dalla Mare Jonio in acque internazionali nella serata di lunedì 16 ottobre: la nave aveva ricevuto via mail la segnalazione, inviata da Sea Watch Airborne a tutte le autorità dei paesi costieri del Mediterraneo centrale, proveniente dall’aereo civile di osservazione Sea Bird 2 che comunicava l’ultima posizione conosciuta di un gommone in pericolo. Su quella posizione la Mare Jonio faceva immediatamente rotta, comunicando la propria disponibilità ad assistere le persone a rischio a tutte le autorità, senza ottenere alcuna risposta. Individuata l’imbarcazione in distress, la Mare Jonio contattava il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma (It Mrcc), che è anche il riferimento di bandiera della nave, per chiedere istruzioni. Prima al telefono, poi via mail, le Autorità Italiane intimavano alla Mare Jonio di far riferimento al centro “competente per la zona SAR” cioè al comando della cosiddetta “guardia costiera libica.” In mare intanto la situazione si deteriorava: si era fatto buio, il motore dell’imbarcazione era in avaria, i tubolari si erano sgonfiati e il gommone imbarcava acqua, le persone a bordo, tra cui donne e bambini, erano in panico, una persona era già caduta in acqua. Per l’equipaggio della Mare Jonio non c’era scelta: soccorrere subito le persone in pericolo, prima che il gommone affondasse e rischiassero di affogare. Così 69 persone sono state tratte in salvo a bordo della nave di Mediterranea, messe al sicuro e assistite con le prime cure mediche. Mentre la Mare Jonio proseguiva nella notte la ricerca di un secondo gommone in difficoltà (che si è poi scoperto, la mattina successiva, essere stato intercettato dalle motovedette libiche), le Autorità Italiane assegnavano Trapani come porto sicuro di sbarco per i naufraghi soccorsi. La nave arrivava là la mattina del 18 ottobre e, subito dopo lo sbarco e l’accoglienza a terra delle 69 persone, al Comandante e all’armatore della Mare Jonio venivano notificati i due verbali di sanzione pecuniaria e fermo amministrativo per 20 giorni della nave, per violazione del Decreto Legge “Piantedosi” del gennaio 2023.

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Le motivazioni dei provvedimenti che hanno colpito la Mare Jonio sono dimostrate “illegittime” nel ricorso presentato ai giudici di Trapani: a Comandante e armatore viene infatti contestato il fatto di “non aver informato” il centro di coordinamento libico e, soprattutto, di non aver chiesto alla Libia il porto di sbarco.

In sostanza il Governo italiano voleva ci rendessimo complici della deportazione dei naufraghi in Libia, proprio il paese da cui le 69 donne, uomini e bambini, stavano fuggendo. 

Il ricorso riporta infatti gli stralci più significativi dei rapporti di organismi ed agenzie delle Nazioni Unite che descrivono e documentano “le condizioni cui sono costretti i migranti nei centri di detenzione libici, che costituiscono tortura e trattamento inumano e degradante” e le provate complicità della cosiddetta “guardia costiera” e di altre autorità statali libiche con i trafficanti di esseri umani e i responsabili di abusi e violenze contro i migranti, detenuti e costretti a lavori forzati e riduzione in schiavitù.

Per questa ragione il ricorso insiste sul fatto che la Libia non può essere considerata un luogo sicuro dove sbarcare i naufraghi e le sue autorità pertanto non possono essere considerate interlocutrici legittime al momento in cui sia necessario ricevere istruzioni in merito allo sbarco di naufraghi.”

Il Comandante della Mare Jonio ha invece fatto fino in fondo il suo dovere, nel pieno rispetto del diritto italiano e internazionale, obbedendo non solo a solidi principi etici e morali, ma anche alle Convenzioni SAR di Amburgo e sul diritto d’asilo di Ginevra, rifiutando invece di sottostare a istruzioni che avrebbero rappresentato gravissime violazioni della Convenzione Europea per i Diritti Umani (Cedu) e della Carta Fondamentale dell’Unione Europea, oltre che dei nostri principi costituzionali. Le nostre Legali ricordano anche i numerosi pronunciamenti, ormai definitivi, della Giustizia italiana in merito: dai casi della stessa Mare Jonio del marzo e maggio 2019, alla sentenza della Cassazione per la Comandante Carola Rackete del giugno 2019 fino alla condanna del Capitano della Asso 28 per aver riportato a Tripoli un gruppo di naufraghi.

Illegittima è dunque la pretesa del Governo Italiano che la Mare Jonio consegnasse alle “autorità libiche” le 69 persone soccorse a bordo e illegittime sono la sanzione e il fermo che ha colpito la nave. Ancora più grave è il tentativo – evidente nei simili provvedimenti che hanno colpito Aurora e, più recentemente, Sea-Eye 4 – di imporre Libia e Tunisia come “porti sicuri” quando è sotto gli occhi di tutti come consegnare le persone soccorse in mare alle milizie e ai militari di quei paesi significa condannare a un destino tragico donne, uomini e bambini che sono alla ricerca di protezione in Europa.

Mediterranea non ci sta, e il procedimento contro il fermo della Mare Jonio che si aprirà davanti al Tribunale di Trapani sarà per noi occasione per ottenere non solo la cancellazione dei provvedimenti che hanno colpito la nostra nave, ma anche una condanna inequivocabile delle violazioni dei diritti fondamentali che avvengono, con la complicità del Governo Italiano, nel Mediterraneo”.

Salvare vite umane è un imperativo morale. Nel Mediterraneo. A Gaza. 

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