Israele, libertà per Khaled El Qaisi cittadino italo-palestinese: Tajani quando interviene?
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Israele, libertà per Khaled El Qaisi cittadino italo-palestinese: Tajani quando interviene?

Globalist ha acceso i riflettori su un caso che la stampa mainstream ha colpevolmente ignorato. 

Israele, libertà per Khaled El Qaisi cittadino italo-palestinese: Tajani quando interviene?
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

15 Settembre 2023 - 19.07


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Globalist ha acceso i riflettori su un caso che la stampa mainstream ha colpevolmente ignorato. 

Il caso Khaled El Qaisi

Ci torniamo con la preziosa newsletter dell’Ambasciata di Palestina in Italia. “Lo scorso 31 agosto, Khaled El Qaisi, cittadino italo-palestinese, è stato arrestato dalle forze di occupazione israeliane al valico di frontiera di Allenby, tra la Palestina e la Giordania. Tuttora in prigione, nessuno sa la ragione per cui si trovi in regime di custodia cautelare. Traduttore e studente di Lingue e Civiltà Orientali a La Sapienza di Roma e fondatore del Centro di Documentazione Palestinese, che promuove la cultura palestinese in Italia, Khaled è anche membro dei Giovani Palestinesi d’Italia, che per primi hanno pubblicato un comunicato in cui chiedono al governo italiano di mobilitarsi per il suo rilascio, in ottemperanza al diritto internazionale.  Khaled era di ritorno dalle vacanze a Betlemme, dove era andato a trovare i parenti insieme alla moglie, Francesca Antinucci, e al figlio di 4 anni. Secondo quanto riportato da Antinucci, gli agenti di frontiera – dopo aver controllato e ricontrollato bagagli a mano ed effetti personali – hanno cominciato a fare domande su diversi aspetti della loro vita privata e lavorativa, concentrandosi sull’orientamento politico di Khaled.

Come emerge dalla lettera aperta scritta dalla moglie e dalla madre di Khaled, Lucia Marchetti, dopo una lunga attesa Khaled è stato ammanettato, sotto lo sguardo incredulo del figlio, della moglie, e di tutti i presenti che erano in attesa di poter riprendere il proprio percorso. Alle richieste della moglie per avere chiarimenti ed elucidazioni non è seguita alcuna risposta; al contrario, lei stessa, insieme al figlio, è stata è stata privata di telefono e contanti e allontanata in territorio giordano. Solo qualche ora dopo, grazie all’aiuto di alcune donne che hanno offerto loro 40 dinari giordani, la moglie e il figlio di Khaled sono riusciti a raggiungere l’Ambasciata  italiana in Giordania, Paese straniero sia per Khaled che per la sua famiglia. La preoccupazione della famiglia è grande. “Immaginiamo Khaled in completo isolamento, senza contatti col mondo esterno, senza una percezione reale dello scorrere del tempo, sotto la pressione di continui interrogatori, in pensiero angoscioso per la sorte del proprio figlio e di sua moglie lasciati allo sbaraglio, con una sola immagine negli occhi: quella della propria deportazione in manette”, si legge nella lettera.


Il 7 settembre, si è tenuta un’udienza davanti al tribunale di Rishon Lezion, durante la quale i giudici israeliani hanno deciso di prolungare la detenzione di Khaled di una settimana senza rendere noti i capi di accusa a suo carico – sempre che ve ne siano. A quanto pare, per ordine dei giudici non può essere rivelato alcun particolare del procedimento in corso, ha spiegato l’avvocato di Khaled, Ahmed Khalifa, a cui è stato proibito di vedere il suo assistito fino all’udienza successiva, che si è tenuta il 14 settembre – dopo un’irruzione notturna che ha portato all’arresto del fratello di Khaled e dei suoi cugini, a Betlemme – ed ha confermato lo stato d’arresto del giovane ricercatore per un’altra settimana.

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Khaled resta sotto indagine. Dopo aver trascorso qualche giorno nella prigione di Ashkelon, è stato infatti trasferito di nuovo nel Centro di detenzione di Petah Tikwa, dove sono portati i palestinesi dei Territori Occupati per essere interrogati dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano. Si tratta di una struttura su cui numerose Ong per i diritti umani, tra cui B’Tselem e HaMoked, hanno scritto rapporti per denunciare i metodi di interrogatorio e gli abusi subiti dai detenuti palestinesi. Temendo questi maltrattamenti e il prolungarsi della pena sotto forma di “detenzione amministrativa”, di fatto ingiustificata, la famiglia richiede ovviamente l’immediato rilascio di Khaled, come lo richiedono diverse associazioni e forze politiche, che si sono attivate per fare pressione su Israele anche attraverso il Ministero degli Affari Esteri italiano, lanciando petizioni e campagne che culmineranno nell’assemblea unitaria voluta dalla famiglia di Khaled, proprio alla Sapienza, il pomeriggio del 15 settembre. 

In particolare, l’Intergruppo Parlamentare per la Pace tra Palestina e Israele si è appellato al Ministro Antonio Tajani e a tutte le autorità competenti, con un’interrogazione con cui si richiede che “siano rapidamente accertate le condizioni di salute di Khaled e sia garantito il pieno rispetto del diritto a un processo equo e alla propria difesa”. “Chiediamo inoltre che si esercitino tutte le pressioni necessarie per la sua liberazione immediata. È doveroso che le autorità italiane si attivino per tutelare i diritti di un proprio cittadino. No a un altro caso Zaki”, ha spiegato Stefania Ascari, deputata del Movimento 5 Stelle. Si tratta di “un arresto incomprensibile su cui chiediamo che il governo italiano si attivi a tutela del nostro concittadino”, ha sottolineato Nicola Fratoianni, primo firmatario, di Alleanza Verdi Sinistra. Per quanto riguarda il Parlamento Europeo, sarà l’eurodeputato Massimiliano Smeriglio a depositare a Bruxelles una richiesta urgente alla Commissione Europea per avere elucidazioni sul caso di Khaled. Nel suo ultimo Rapporto, presentato al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a luglio e da lei stessa definito utilissimo per capire cosa sia successo a Khaled El Qaisi e a un altro milione di palestinesi dal 1967 ad oggi, la Relatrice Speciale sulla Situazione dei Diritti Umani nel Territorio Palestinese Occupato dal 1967, Francesca Albanese, evidenzia i gravi abusi inflitti ai palestinesi da Israele a partire dal 1967. Questi abusi non si limitano a un sistema di arresti e detenzioni arbitrarie, ma costituiscono un complesso “continuum carcerario” che comprende varie forme di confinamento, sia fisiche che burocratiche, nonché una sovrastante sorveglianza digitale. Il tutto equivale a una serie di crimini internazionali, soggetti alla giurisdizione dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. La verità, sostiene Albanese, è che l’occupazione militare che va avanti da oltre mezzo secolo è diventata un vero e proprio “strumento di colonizzazione”, che ha comportato “l’intensificarsi delle restrizioni imposte alla popolazione palestinese”. Non può sorprendere che “i palestinesi, come qualsiasi popolo oppresso, perseverino nella loro opposizione ai propri carcerieri”. 

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In un Rapporto pubblicato all’inizio di settembre, l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha denunciato che lo scorso 10 luglio, nel cuore della notte, decine di soldati mascherati e muniti di cani addestrati hanno fatto irruzione nella casa di una famiglia di Hebron costringendo le cinque donne che vi abitano a spogliarsi nude davanti agli occhi dei loro bambini terrorizzati. Ed è solo un altro esempio tra tanti”. 

Nuovo piano israeliano per un milione di coloni di Cisgiordania 

Il Ministero degli Affari Esteri e degli Espatriati della Palestina ha condannato con la massima fermezza quanto riportato dai media israeliani riguardo a un piano di insediamento volto ad aumentare il numero dei coloni fino a un milione nella Cisgiordania Occupata. Il progetto verrebbe attuato attraverso un’ampia rete di strade che divorerebbero le terre palestinesi, legalizzando di fatto decine di avamposti illegali ed incoraggiando il trasferimento in territorio palestinese di migliaia di cittadini israeliani. A quanto pare, sono diversi i ministeri israeliani pronti a dare il proprio sostegno, soprattutto economico, a questa impresa scellerata. 

Il Ministero degli Esteri palestinese guarda a questa escalation con grande preoccupazione, sottolineando come l’imposizione della legge israeliana sui territori della Cisgiordania che si concretizzerebbe in questo modo vada contro il diritto internazionale e contro tutti gli appelli della comunità internazionale, che chiedono a Israele di porre termine ad azioni unilaterali pericolose come quelle che si verificano di continuo a Gerusalemme Est Occupata. E’ perciò necessario che non ci si limiti più agli appelli e si prendano misure concrete per fare pressione su Israele e costringere questo Paese a rispettare le leggi, così come si fa nel resto del mondo quando il diritto internazionale viene calpestato. 

La tolleranza dimostrata sin qui nei confronti delle azioni illegali di Israele non ha fatto che incoraggiare simili piani espansionistici che, insieme a un sistema di apartheid ormai riconosciuto anche dall’Onu, sono la diretta conseguenza di un’occupazione che dura da più di cinquant’anni, minacciando la stessa esistenza dello Stato di Palestina e della sua legittima capitale, Gerusalemme Est. 

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L’istruzione a rischio 

L’istruzione palestinese si trova in una situazione disastrosa a causa delle politiche ostili e delle pratiche opprimenti che l’occupazione israeliana persegue da più di cinquant’anni. Di fatto, gli insegnanti, le scuole e gli alunni palestinesi sono sistematicamente presi di mira dalle forze israeliane e dal terrorismo dei coloni in tutti i Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est. 

Si pensi che dall’inizio del 2023 gli occupanti hanno già ucciso 38 bambini, mutilandone più di mille. A questo massacro vanno aggiunte le detenzioni arbitrarie, gli ostacoli dei posti di blocco e la distruzione delle scuole, in costante aumento. Con il ritorno a scuola di 1,3 milioni di alunni, la loro sicurezza è a rischio e loro sono in pericolo. Nella prima metà dell’anno ci sono stati almeno 423 incidenti causati da interferenze delle forze di occupazione negli edifici scolastici, a cui si sommano i maltrattamenti e le intimidazioni subite andando e tornando da scuola che, oltre a provocare notevoli dosi di stress, causano anche numerose assenze a lezione, calpestando violentemente il diritto allo studio dei giovani palestinesi. 

L’anno scorso aveva fatto scalpore la distruzione della scuola elementare del villaggio di Isfey Al-Fauqa, a Masafer Yatta, un progetto umanitario finanziato dalla Cooperazione Italiana per far fronte alle incessanti confische israeliane e in grado di accogliere i bambini di quattro comunità della zona. Stando ai dati delle Nazioni Unite, dal 2010 le forze di occupazione hanno demolito 36 scuole in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Al momento, le scuole a rischio demolizione sono 58 e gli studenti che rimarrebbero senza 6.550. 

 E’ proprio a Gerusalemme Est che Israele si industria per colpire l’istruzione palestinese nel modo più subdolo. Allo scopo di modificare unilateralmente lo status giuridico e demografico della città occupata stravolgendone coercitivamente la storia, già nel novembre del 2019 le autorità israeliane hanno chiuso la sede del Ministero dell’Istruzione palestinese, impedendo la costruzione di nuovi edifici scolastici, tartassando di imposte quelli già esistenti e cercando al contempo di imporre al loro interno i programmi previsti dalle scuole israeliane. 

In occasione della Giornata Internazionale per la Tutela dell’Istruzione, che si celebra il 9 settembre di ogni anno, lo Stato di Palestina si è rivolto alla comunità internazionale affinché intervenga per salvaguardare l’impegno di questo Paese nel garantire ai suoi studenti un’istruzione di qualità in un ambiente accogliente e sicuro”.

Palestina, le mille forme di una occupazione che non ha fine. Una occupazione che calpesta diritti, individuali e collettivi, legalizza l’illegalità, fa carta straccia delle risoluzioni Onu e delle norme del diritto internazionale e  della stessa Convenzione di Ginevra sulla guerra. Il tutto nell’inerzia complice della comunità internazionale. E di una informazione compiacente che all’occupante israeliano fa passare tutto. 

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