Iran, dove l’inferno come l’eroica resistenza è donna.
Una storia di orgoglio e di lotta per diritti umani negati
Zaynab Kazemi, attivista che si tolse il velo durante un evento pubblico contestando l’obbligo sull’hijab nella Repubblica islamica, è stata condannata a 74 frustate da un tribunale di Teheran che ha ritenuto il gesto “un’offesa alla pubblica decenza”.
Lo riferisce Hrana, l’agenzia degli attivisti dei diritti umani iraniani, e vari media dissidenti con sede all’estero facendo sapere che la sentenza è sospesa per cinque anni ma sarà eseguita se Kazemi, ingegnera iraniana, commetterà un altro crimine durante questo periodo. “Non mi sono mai pentita di avere alzato la voce per la giustizia contro l’oppressione e ancora non mi sento pentita”, ha scritto la donna su Instagram dopo essere stata condannata.
A febbraio, la donna si era tolta il velo sul palco durante un’evento dell’Assemblea degli ingegneri di Teheran e aveva criticato l’obbligo per le donne di indossare il velo in pubblico in Iran. “Non riconosco un’assemblea che non permette alle donne di essere candidate se non portano il velo”, aveva detto Kazemi dal palco togliendosi l’hijab durante l’evento e lanciandolo a terra, come si può vedere in un video diffuso, e diventato virale, on-line all’epoca. E che presto è diventato un esempio di coraggio per tutte le giovani donne iraniane.
Violentatori di Stato
“Hanno abusato di me, nelle peggiori condizioni, mentre venivo arrestata a casa mia”. È Dal carcere di Evin, Teheran, che la giornalista NazilaMaroufian ha condiviso il suo racconto. È stata privata della libertà con contestazione di reati quali “propaganda contro il sistema islamico iraniano”, la “diffusione di notizie false” e il non rispetto dell’obbligo di indossare il velo. L’arresto però, il quarto, è collegato anche allo scorso 30 agosto, quando intervistò il padre di Mahsa Amini, la 22enne di origine curda che morì il 16 settembre dopo essere stata messa in custodia dalla polizia morale per non aver indossato il velo in modo corretto; la ragazza, aveva dato il via alla stagione di ribellione e repressione nella Repubblica Islamica insieme allo zio Safa Aeli, 30 anni, recentemente prelevato senza alcun mandato legale a Saqqez.
L’audio della testimonianza di Nazila Maroufiandal carcere è disturbato. La voce trema, lunghe pause. È in stato di shock tra singhiozzi e parole che faticano a descrivere quanto accaduto. La registrazione è quella di una chiamata alla sua famiglia, condivisa dagli attivisti sui social media. Durante il colloquio la giornalista ha annunciato il suo sciopero della fame per protestare contro la sua situazione e quella di tutte le donne che subiscono violenza nelle stazioni di polizia e nelle carceri: “Questo sciopero è per me, ma è anche per tutte le donne in condizioni terribili in Iran. Quella della violenza è una realtà e chiunque non ne parli ha le sue ragioni per avere paura, ma durante gli interrogatori e nelle stazioni di polizia, le persone vengono aggredite verbalmente e sessualmente”.
Detenuta nelle condizioni più disumane, in una delle prigioni più temute d’Iran, dove sono rinchiusi migliaia di dissidenti politici, giornalisti e artisti, i fatti accaduti a Maroufian confermano le peggiori paure delle donne e delle famiglie iraniane dopoché varie testimonianze avevano riferito che nelle prigioni iraniane seguaci degli ayatollah erano soliti violentare uomini e donne come forma di tortura.
Le denunce di Amnesty International
Da un Rapprto di AI: “Le autorità iraniane devono consentire che, in occasione del primo anniversario delle proteste “Donna Vita Libertà” del 2022, le famiglie delle vittime possano svolgere le loro commemorazioni senza rappresaglie.
In vista dell’anniversario, come documenta una nostra ricerca, le autorità iraniane stanno intensificando la campagna di minacce e intimidazioni contro le famiglie delle vittime, con l’obiettivo di rafforzare il clima di silenzio e d’impunità.
La ricerca di Amnesty International denuncia arresti arbitrari e detenzioni di parenti delle vittime, crudeli limitazioni ai raduni dove queste sono state sepolte, danneggiamenti e distruzioni di lapidi. Nel frattempo, nessun funzionario dello stato iraniano è stato chiamato a rispondere della brutale repressione della rivolta popolare scattata alla morte in custodia, il 16 settembre 2022, di Mahsa Jina Amini.
Amnesty International ritiene che la sofferenza mentale e l’angoscia inflitte alle famiglie delle vittime dai comportamenti delle autorità costituiscano una violazione del divieto assoluto di tortura e di altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
La ricerca riguarda 36 famiglie di altrettante vittime che negli ultimi mesi hanno subito violazioni dei diritti umani in dieci diverse province iraniane: 33 uccise durante le proteste, due messe a morte e una torturata e suicidatasi dopo la scarcerazione.
Queste famiglie sono state sottoposte ad arresti arbitrari e successive detenzioni, procedimenti giudiziari per accuse non circostanziate di minaccia alla sicurezza nazionale, interrogatori coercitivi, in alcuni casi periodi di carcere e frustate e, infine, a sorveglianza illegale. I luoghi dove erano stati sepolti i loro cari sono stati danneggiati o distrutti.
“Le autorità della Repubblica islamica mi hanno ucciso un figlio innocente, hanno imprigionato mio fratello e i suoi familiari e poi mi hanno convocata per il ‘reato’ di aver chiesto giustizia per mio figlio. I cittadini iraniani non hanno alcun diritto di protestare e ogni tentativo di chiedere libertà viene soppresso con estrema violenza”, ha scritto su Twitter la madre del 16enne Artin Rahmani, ucciso dalle forze di sicurezza il 16 novembre 2022 a Izeh, nella provincia del Khuzestan.
Le autorità iraniane hanno anche cercato d’impedire commemorazioni nei luoghi dove sono state sepolte le vittime, come ad esempio in occasione dei compleanni. Le famiglie che hanno sfidato il divieto hanno denunciato la presenza di ingenti forze di sicurezza, che hanno brutalmente interrotto le cerimonie, fotografato le persone presenti e arrestato familiari delle vittime.
Amnesty International ha anche documentato e pubblicato immagini del danneggiamento o della distruzione delle tombe di 20 vittime in 17 diverse città. Le tombe sono state ricoperte di catrame o vernice e date alle fiamme; sono state divelte le lapidi e sono state cancellate le frasi su queste riportate, in cui si definiva la vittima come un “martire” o si affermava che era morta per la causa della libertà. Alcune delle tombe sono state danneggiate di fronte ai familiari delle vittime, altre di notte.
Le autorità iraniane non hanno preso alcuna iniziativa per impedire queste azioni, anzi le hanno rivendicate minacciando più volte la distruzione delle tombe dove erano state poste opere d’arte a sostegno delle proteste “Donna Vita Libertà” o poesie sull’oppressione politica che aveva causato la morte innaturale della vittima.
“A coloro che, in occasione del compleanno di mio fratello, mi hanno tirato per i capelli e torturato con un manganello e che si sono accaniti sulla sua tomba davanti ai miei occhi, chiedo: Qual è la condanna che vi siete dati per tutto questo? Io so chi ha assassinato mio fratello. Non abbiamo presentato denuncia, perché in Iran è inutile andare dall’assassino per denunciare un assassinio”, ha scritto su Instagram la sorella di Milad Saeedianjoo, ucciso a Izeh, nella provincia del Khuzestan, il 15 novembre 2022.
Dopo che la famiglia di Mahsa Jina Amini ha condannato i ripetuti danneggiamenti delle tombe delle vittime della repressione, le autorità iraniane hanno annunciato che sposteranno la sua tomba, che si trova nel cimitero di Saqqez, nella provincia del Kurdistan, per rendere più difficile l’accesso al pubblico.
Nell’ultimo anno la sua tomba è diventata un luogo di raccolta delle famiglie dei manifestanti uccisi, per trovare un conforto collettivo e ribadire la loro volontà di chiedere giustizia.
Di fronte a tutto questo e dato il clima di sistematica impunità vigente in Iran, Amnesty International chiede a tutti gli stati di esercitare la giurisdizione universale ed emettere mandati d’arresto nei confronti dei funzionari iraniani, compresi quelli che hanno responsabilità di comando, ritenuti ragionevolmente sospetti di crimini di diritto internazionale commessi durante e dopo la rivolta iniziata nel settembre 2022.
Un altro Rapporto di Amnesty International dettaglia i metodi di controllo fortemente oppressivi, utilizzati e intensificati dalle autorità iraniane, nei confronti di donne e ragazze che osano sfidare le degradanti leggi obbligatorie sul velo, decidendo di non indossarlo in pubblico.
Nell’ultima escalation risalente al 16 luglio, il portavoce della polizia iraniana Saeed Montazer-Almahdi, ha annunciato il ritorno delle pattuglie di polizia al fine di imporre il velo obbligatorio e ha minacciato di intraprendere azioni legali contro donne e ragazze che rifiutino l’obbligo di indossare il velo.
Questo è avvenuto in concomitanza con la circolazione sui social media di video che mostrano donne violentemente aggrediteda agenti di polizia a Teheran e Rasht e forze di sicurezza che sparano gas lacrimogeni contro persone che cercano di aiutare le donne a evitare l’arresto a Rasht.
Secondo fonti ufficiali, dal 15 aprile 2023 più di un milione di donne hanno ricevuto messaggi di avviso di confisca delle loro autovetture, qualora fossero state fotografate senza velo. Inoltre, numerose donne sono state sospese o espulse dalle università, è stato impedito loro di sostenere gli esami finali e negato l’accesso ai servizi bancari e ai mezzi di trasporto pubblico. Centinaia di attività commerciali sono state forzatamente chiuseper non aver fatto rispettare l’obbligo del velo. Il rafforzamento dell’azione repressiva mette in luce la natura ambigua delle precedenti dichiarazioni delle autorità iraniane riguardo allo scioglimento della “polizia morale”.
“I controlli di polizia in nome della morale sono tornati. Le autorità possono anche far rimuovere gli stemmi della ‘polizia morale’ dalle uniformi e dai veicoli di pattuglia, ma autorizzano gli esecutori dell’oppressione e della subordinazione delle donne e delle ragazze della Repubblica islamica a perpetuare la stessa violenza che ha portato alla morte impunita di Mahsa Zhina Amini. L’azione repressiva di oggi è intensificata dalle tecnologie di sorveglianza di massa in grado di identificare le donne senza velo all’interno delle loro automobili e negli spazi pubblici”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
“L’inasprimento della repressione contro chi non indossa il velo riflette il deprecabile disprezzo delle autorità iraniane per la dignità umana e per i diritti delle donne e delle ragazze all’autonomia, alla privacy e alla libertà di espressione, religione e credo. Mette in luce, inoltre, il disperato tentativo delle autorità di riaffermare il loro dominio e potere su coloro che hanno opporsi a decenni di oppressione e disuguaglianza durante la rivolta “Donna. Vita. Libertà.”, ha proseguito Callamard.
Una donna della provincia di Esfahan, che ha ricevuto un sms che le ordinava un fermo di 15 giorni della propria auto per essersi tolta il velo mentre guidava, ha raccontato ad Amnesty International:
“Emotivamente e psicologicamente, tutte queste minacce hanno un impatto molto negativo su di noi. La Repubblica islamica vuole dimostrare di poter arrivare a qualsiasi estremo quando si tratta di imporre l’utilizzo del velo obbligatorio. Si atteggiano, di fronte alla comunità internazionale, come se stessero prendendo le distanze dalla violenza ma in realtà stanno compiendo queste azioni violente senza dare nell’occhio”.
Il 14 giugno 2023 il portavoce della polizia iraniana ha annunciato che dal 15 aprile la polizia ha inviato circa un milione di sms di avvertimento a donne fotografate senza velo mentre erano in auto, ha mandato 133.175 sms richiedendo il fermo dei veicoli per una durata di tempo specifica, ha confiscato 2.000 automobili e segnalato più di 4.000 “recidive” alla magistratura di tutto il paese.
La stessa fonte ha aggiunto che erano stati raccolti 108.211 rapporti sull’applicazione delle leggi sul velo obbligatorio riguardanti la commissione di “reati” all’interno di esercizi commerciali e che erano stati identificati e segnalati alla magistratura 300 “colpevoli”.
Nel tentativo di codificare e intensificare ulteriormente questa repressione, il 21 maggio la magistratura e il governo hanno presentato al parlamento il “Disegno di legge per sostenere la cultura della castità e dell’hijab”. In base a questa proposta legislativa, le donne e le ragazze che appaiono senza velo negli spazi pubblici e sui social media o che mostrano “nudità di una parte del corpo o indossano abiti sottili o aderenti” andranno incontro a una serie di sanzioni con gravi ripercussioni sui loro diritti umani, compresi quelli sociali ed economici: multe pecuniarie, confisca di auto e dispositivi di comunicazione, divieto di guida, detrazioni dallo stipendio e dai benefici lavorativi, licenziamento dal lavoro e divieto di accesso ai servizi bancari.
Il disegno di legge comprende proposte per condannare le donne e le ragazze riconosciute colpevoli di disobbedire alle leggi sul velo “in modo sistematico o in collusione con servizi di intelligence e sicurezza stranieri” a due o cinque anni di reclusione, nonché divieti di viaggio e residenza forzata in luoghi specifici. I gestori di istituzioni pubbliche e attività commerciali privateche permettano a impiegati e clienti di non indossare il velo all’interno delle loro strutture subiranno sanzioni che vanno dalla chiusura a lunghe pene detentive e divieti di viaggio.
La proposta di legge prevede anche una serie di sanzioni contro gli atleti, gli artisti e altre figure pubbliche che disubbidiscono alle leggi sul velo, compresi divieti di svolgere attività professionali, carcere, frustate e multe.
Il 23 luglio 2023 una commissione parlamentare ha fatto sapere di aver inviato il disegno di legge rivisto, composto da 70 articoli, alla plenaria del parlamento. Il testo riveduto non è stato reso pubblico.
Allo stesso tempo, le autorità applicano il codice penale islamico per perseguitare e infliggere punizioni degradanti alle donne che appaiono in pubblico senza velo.
Amnesty International ha esaminato le sentenze emesse contro sei donne nel giugno o luglio 2023, che prevedono per loro l’obbligo di partecipare a sessioni di consulenza per “disturbo di personalità antisociale”, lavare cadaveri in una camera mortuaria o fare le pulizie in edifici governativi.
Questo attacco ai diritti delle donne e delle ragazze avviene in mezzo a una serie di dichiarazioni d’odio da parte di funzionari e media statali, in cui si fa riferimento al non indossare il velo come a un “virus”, una “malattia sociale” o un “disordine”e si assimila la scelta di apparire senza velo a “depravazione sessuale”.
Le autorità iraniane devono abolire il velo obbligatorio, annullare tutte le condanne e le sentenze per coloro che hanno disobbedito all’obbligo di indossare il velo, revocare tutte le accuse contro coloro che sono sotto processo e scarcerare incondizionatamente chiunque sia detenuto per la disobbedienza al velo obbligatorio. Le autorità devono abbandonare i propositi di punire le donne e le ragazze che esercitano i loro diritti all’uguaglianza, alla privacy e alla libertà di espressione, religione e credo.
“La comunità internazionale non può rimanere inerte mentre le autorità iraniane intensificano la loro oppressione contro donne e ragazze. La risposta degli stati non deve limitarsi a forti dichiarazioni pubbliche e interventi diplomatici, ma deve prevedere anche il perseguimento di vie legaliper chiamare a rispondere le autorità iraniane responsabili di aver ordinato, pianificato e commesso violazioni diffuse e sistematiche dei diritti umani contro le donne e le ragazze attraverso l’uso del velo obbligatorio. Tutti i governi devono impegnarsi al massimo per sostenere le donne e le ragazze che cercano rifugio dalla persecuzione basata sul genere e dalle gravi violazioni dei diritti umani in Iran, assicurando loro un accesso tempestivo e sicuro alle procedure di asilo e, in nessun caso, permettendo il loro rimpatrio forzato in Iran”, ha concluso Agnès Callamard.
Iran, la resistenza continua. Nel nome di Mahsa Zhina Amini