Bandiere israeliane bruciate a Tripoli, Washington infuriata: Tajani e il disastro dell'incontro "segreto" di Roma
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Bandiere israeliane bruciate a Tripoli, Washington infuriata: Tajani e il disastro dell'incontro "segreto" di Roma

La Farnesina spiazzata, visto che l’incontro era avvenuto a Roma su iniziativa del ministro degli Esteri e vice premier Antonio Tajani, Washington infuriato, bandiere israeliane bruciate a Tripoli e a Bengasi.

Bandiere israeliane bruciate a Tripoli, Washington infuriata: Tajani e il disastro dell'incontro "segreto" di Roma
Antonio Tajani
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Agosto 2023 - 10.21


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Globalist ha già raccontato dei disastrosi risultati di un incontro che doveva restare segreto e che invece è stato pubblicizzato da uno dei protagonisti, scatenando effetti a catena che definire inquietanti è un eufemismo. Una ex ministra costretta a scappare all’estero per non essere arrestata o peggio ancora fatta fuori. La Farnesina spiazzata, visto che l’incontro era avvenuto a Roma su iniziativa del ministro degli Esteri e vice premier Antonio Tajani, Washington infuriato, bandiere israeliane bruciate a Tripoli e a Bengasi.

Cronaca di un disastro diplomatico

A darne conto sono tre analisti di politica estera tra i più preparati e non certo tacciabili di sinistrismo.

Annota Lucio Gambardella su Il Foglio: “Un vertice fra i ministri degli Esteri di Israele e Libia, che sarebbe dovuto restare segreto e che si era tenuto a Roma la scorsa settimana, ha innescato una rivolta  in Libia, una polemica politica in Israele e  imbarazzo in Italia. Domenica, il sito del ministero degli Esteri israeliano, a sorpresa, ha reso pubblica la notizia dell’incontro fra il ministro israeliano Eli Cohen e la collega libica Najla el Mangoush. I due si erano stretti la mano grazie alla mediazione della Farnesina, come primo passo verso una storica normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra i due paesi. E’ finita invece che in poche ore migliaia di persone sono scese in strada in varie città della Libia  bruciando le bandiere di Israele e sventolando quelle palestinesi….”.  

Ricostruisce Roberto Bongiorni su il Sole24Ore: “L’incontro non doveva esser rivelato pubblicamente, almeno non ora. E se proprio doveva esser annunciato, sicuramente non in queste forme. Quello di Eli Cohen, il ministro israeliano degli Esteri ad interim, il cui mandato, peraltro, scade tra quattro mesi, pare l’ennesima gaffe, l’ultima. Un pasticcio diplomatico ancora poco chiaro, potenzialmente foriero di conseguenze per ora imprevedibili, ma certamente non positive per i piani israeliani di portare avanti gli accordi di Abramo, il grande e ambizioso piano di normalizzazione dei rapporti tra Israele ed i Paesi arabi. 

Il giallo sulla rilevazione del colloquio

È stata sua, pare, l’idea di rivelare il colloquio avuto a Roma lo scorso 23 agosto con la ministra libica degli Esteri, Nabla Mangoush, donna di punta nella squadra del primo ministro libico Hamid Dbeibah. A sua volta, pur tra molte difficoltà, ancora capo del Governo di accordo nazionale (formalmente in stato di guerra con le autorità della Cirenaica) che ha più che buoni rapporti con il suo vicino oltre mare, ovvero l’Italia. La vicenda è davvero confusa. Almeno finora.

Fonti israeliane, riportate dai media locali, sostengono invece che la notizia dell’incontro sia stata diffusa sul canale Whatsapp del ministero israeliano – al quale sono iscritti i giornalisti stranieri in Israele e israeliani – alle 17.59 (ora locale) di domenica scorsa. Altre che sia stato Cohen o il suo entourage. Ma la Libia è un Paese riottoso, focoso, accesamente propalestinese.

Un rapporto diffuso dall’emittente britannica Bbc ha reso noto che il capo del parlamento libico ha accusato la ministra Mangoush di tradimento, chiedendo una riunione d’emergenza del Parlamento. L’incontro tra i due ministri «non riflette in alcun modo la politica estera dello Stato libico», ha poi precisato il Consiglio presidenziale della Libia, aggiungendo si è trattato «una violazione della legge libica che considera la normalizzazione con l’entità sionista un reato penale».

Come se non bastasse, la rabbia è stata tale che un gruppo di facinorosi ha appiccato il fuoco anche a una residenza del primo ministro Dbeibah. Il quale, al pari di tutte le altre parti coinvolte, presumibilmente, non poteva non sapere. Quasi a voler gettare acqua su quelle fiamme che rischiavano di divampare in tutto il Paese, ieri mattina – precisa il sito del quotidiano laburista israeliano Haaretz – il ministero degli Affari esteri della Libia ha enfatizzato di aver rifiutato un invito a partecipare a un meeting con controparti israeliane, aggiungendo che l’incontro poi avvenuto tra le due parti era «non pianificato e del tutto casuale».

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Tripoli precisa: niente discussioni o accordi 

Il Ministero di Tripoli ha poi precisato che l’incontro non ha contemplato «discussioni, accordi o consultazioni». Tripoli, ha infino chiarito di rigettare con fermezza ogni normalizzazione dei rapporti con Israele. A smentirla ci ha pensato un’altra fonte israeliana, precisando come i ministri degli Esteri di Israele e Libia abbiano conversato per oltre due ore il giorno 23 agosto scorso nel corso di un incontro che era stato approvato “ai più alti livelli”. Anzi il quotidiano The Times of Israel si spinge ancora più in là: il comunicato con la notizia dell’incontro a Roma del 23 agosto tra il ministro degli Esteri israeliano e la ministra degli Esteri libica era «concordato».

«Erano d’accordo sulla pubblicazione – ha detto un’altra fonte citata dal quotidiano – Lo sapevano. L’unica sorpresa è stata il momento della pubblicazione (che doveva comunque avvenire questa settimana, Ndr».Nulla sembra dunque esser avvenuto per caso. Non suona altrettanto casuale il fatto che l’incontro sia avvenuto presso il Ministero degli Esteri del Paese occidentale che ha storicamente le relazioni più forti con Tripoli. L’Italia era stata scelta come mediatore proprio per i suoi profondi legami storici, commerciali e politici con la controparte libica. Anche gli Stati Uniti, peraltro, sarebbero stati informati dell’incontro già da tempo.

Un altro pezzo del puzzle suggerisce come Tripoli abbia cercato di tirarsi fuori goffamente da una difficile situazione sul fronte interno. Sempre secondo fonti israeliane, era da tempo che le discussioni su una normalizzazione dei rapporti tra Libia ed Israele andavano avanti. È ragionevole ipotizzare siano iniziate già in gennaio, durante un incontro tra Dbeibah ed il capo della Cia, William Burns, in visita a Tripoli.

Il rischio di ricadute sugli accordi di Abramo 

Anche sul fronte interno israeliano, gli oppositori del governo hanno mossa durissime critiche nei confronti di Choen, accusandolo di dilettantismo. Ora si teme che questo presunto e controverso passo falso possa rallentare il cammino degli accordi di Abramo. Per cui alla fine era stati concepiti: la normalizzazione dei rapporti traIsraele e Arabia Saudita, la potenza regionale 

Perché uno dei punti di forza della politica estera di Benjamin Netanyhau, il premier più longevo della storia di Israele, sono proprio gli accordi di Abramo, il cui primo atto è stata la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, con tanto di dichiarazione congiunta, il 13 agosto 2020. Poi è stata la volta del Bahrein. Marocco e Sudan erano a buon punto. Così, era circolata notizia, anche l’Oman.

Ma la grande ossessione di Bibi Netanyahu, il grande obiettivo che cambierebbe radicalmente la politica estera israeliana sarebbe l’Arabia Saudita. Il potente principe reggente saudita Mohammed Bin Salman non parrebbe contrario. Da tempo circolano altre voci sulla possibile adesione di Riad. Ma la Corona saudita si è spesso presentata al mondo musulmano in generale, ed a quello arabo in particolare, come paladina della causa palestinese.

Difficilmente Riad, dunque, potrebbe intraprendere un passo simile se la popolazione libica, e quelli di altri importanti Paesi arabi, come per esempio, l’Iraq, insorgessero appiccando il fuoco per le strade. D’altronde la legge libica è molto severe in proposito: intrattenere comunicazioni con Israele è un reato penale che prevede la pena fino a nove anni di reclusione”.

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Processo alterato

Altro contributo di qualità è quello di Emanuele Rossi per formiche.net. Scrive Rossi: “La reazione è stata tra lo stupito e l’imbarazzato: quando la notizia dell’incontro romano con la ministra degli Esteri libica, Najla Mangoush, e l’omologo israelianoEli Cohen, è stata fatta uscire dallo stesso Cohen, a Roma, Tripoli e Tel Aviv c’è stato un sussulto. Anche a Washington. Tutto doveva restare coperto dal riserbo, perché quell’incontro era informale, e propedeutico alla coltivazione di un processo: la Libia in futuro poteva diventare uno dei Paesi arabi/islamici che hanno normalizzato le relazioni con Israele (e forse non solo: l’incontro poteva trattare anche di qualcosa riguardo al futuro stesso della Libia).

Processo alterato

L’annuncio del ministro Cohen sul vertice nella capitale italiana ha alterato questo percorso. Sono gli americani a dirlo, grandi sponsor di queste rinnovate relazioni israeliane diventate esplicite con gli Accordi di Abramo. Su Walla!, media israeliano sempre molto informato, l’altrettanto informatissimo Barak Ravid,  giornalista con ottime entrature nel mondo del segretario Antony Blinken e del consigliere Jake Sullivan, raccoglie per esempio le critiche feroci di anonimi funzionari statunitensi. 

Il rapporto tra l’amministrazione Biden e il governo di Benajamin Netanyahu è tutt’altro che smooth, e circostanze come quella avvenuta a Roma coi libici sono ottimi inneschi per scatenare i dissapori. Washington ha usato i canali diplomatici per protestare duramente e direttamente (il ministro degli Esteri israeliano ha però minimizzato). E poi gli americani hanno risposto a Cohen col contrappasso dei media. “Ha ucciso il canale dei colloqui con la Libia, e ha reso molto più difficili i nostri sforzi per promuovere la normalizzazione con altri Paesi”, dice un funzionario a Walla!.

Per gli Stati Uniti, quella normalizzazione è altamente strategica: serve a dare ordine al costantemente caotico Medio Oriente, ad alleviare tensioni intrinseche, a guadagnare vantaggio operativo e diplomatico contro i rivali (l’Iran, ma anche la Russia con le sue operazioni ibride, e la Cina, che con l’accordo Riad-Teheran ha dimostrato di essere anch’essa interessata ad attività di normalizzazione regionale). Questi contatti per distendere le relazioni, che — come nel caso della Libia — spesso sono da decenni interrotte e basata su forme di ritrosia ideologica, sono processi lenti. Serve diplomazia e riservatezza. Ora Washington teme che la sparata di Cohen metta l’attuale governo Netanyahu in una percezione di inaffidabilità.

E un’ulteriore percezione negativa sul governo israeliano non serve certo. Netanyahu guida un esecutivo che è visto come estremista e anti-palestinese in modo eccessivo. Tanto che la super-strategica distensione con l’Arabia Saudita — la distensione delle distensioni,  –  su cui Washington lavora da anni e con maggiore intensità negli ultimi mesi — non sta arrivando anche per questo. Riad non vuole essere esposta, il Paese protettore dei luoghi sacri dell’Islam non vuole mostrarsi accondiscendente e debole con chi maltratta i “fratelli” palestinesi.

È vero che sono “fratelli” fin tanto che serve nella narrazione e negli interessi generali, ma le leadership — che probabilmente potrebbero con facilità mollare la causa — sanno che serve mantenere presa e consenso sulle collettività ed evitare pretesto per scatenare ire e proteste. E ancora, in qualche modo, le collettività  sentono la questione palestinese come propria (chi si ricorda quante bandiere palestinesi c’erano ai Mondiali del Qatar?).

La Libia in questo fa da paradigma come spesso accade nelle faccende dell’area Mena: il primo ministro Abdelhamid Dabaiba, lunedì 28 agosto mentre le notizie sull’incontro Cohen-Mangoush riempievano i giornali di mezzo mondo, è andato in visita all’ambasciata palestinese di Tripoli a rassicurare che il suo Paese non ha intenzione di normalizzare le relazioni con “l’entità sionista”.

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Lo ha fatto perché centinaia di libici sono scesi in strada e hanno manifestato davanti al ministero degli Esteri e alla casa privata del premier, per protestare sull’incontro tra ministri. Non sono stati soltanto sentimenti puri e spontanei a muovere quelle proteste, c’è stata una serie di pretesti che passano da critiche precedenti contro Mangoush a una serie di rimescolamenti che potrebbero interessare presto il governo libico. Ma la questione israeliana è stata usata come simbolo, e il successivo gesto di Dabaiba è stato simbolico quanto dovuto.

Altrettanto lo è stata la sospensione di Mangoush, che ha fatto da parafulmine su una vicenda che invece, stando alle fonti libiche, era assolutamente condivisa da Dabaiba stesso. Da tempo, come ammettono gli americani, si parla di un contatto tra Tripoli e Israele: forse il premier si era già visto in Giordania col capo del Mossad lo scorso anno, ma quella vicenda — ufficialmente smentita — fu gestita in modo molto più discreto e garbato. Caratteristiche che sono mancate in questo caso, mettendo in difficoltà tutti.

Cui prodest? 

Se si considera che Cohen ha i mesi contati, forse sì può supporre che potrebbe essere un suo diretto interesse raccontarsi come un super ministro in prima linea su passaggi “storici” (sua definizione dell’incontro con Mangoush) per Israele. A fine anno, il governo israeliano avrà un classico rimpasto, turnazione di ministri nella coalizione, e Cohen lascerà vuota una casella importante. La quale nel suo caso però è sempre stata di valore minore. Tutti sanno che Netanyahu lo ha scelto perché con lui avrebbe potuto più facilmente gestire direttamente parte della politica internazionale. L’altra parte la gestisce il ministro degli Affari strategici, Ron Dermer.

Cohen ha provato a rivendicare un ruolo a tre mesi dal suo addio pensando di fare cosa buona per un suo potenziale ripescaggio di qualche genere? Ha voluto provare a lasciare una sua eredità pensando agli elettori? Possibile, visto che dichiara: “Voglio fare cose mai fatte prima, il mio motto come ministro degli Esteri è di far fare quanti più progressi possibile”. Oppure qualcuno lo ha usato per mandare un messaggio incrociato a Netanyahu? Una potenziale ricostruzione che arriva da ambienti israeliani si lega al ruolo che il ministero vuole riacquisire in futuro, anche nell’ottica di quel rimpasto. Ministero che sta iniziando a muoversi col passo dettato da alcune nuove, importanti caselle.

 Sotto quest’ottica, rimarca ancora Rossi,  “quasi non contano le conseguenze. In questo caso, i danni collaterali della spifferata orgogliosa ai media non sarebbero stati ignorati ingenuamente, ma sarebbero stati accettati come elementi di ordine inferiore. Tesi che conferma come in molti casi, anche nella strategico-centrica Israele, ormai le necessità di politica interna dettano il passo con le azioni in politica estera. 

Fatto sta che due governi ne escono sorpresi e irritati, l’Italia e gli Stati Uniti, uno abbozzato — la Libia. In Italia c’era preoccupazione che il ruolo della Farnesina, limitato ad aver fornito un’opportunità di incontro per un dossier strategico per gli interessi di stabilizzazione del Mediterraneo allargato, potesse uscire sui giornali ed essere mal assorbito dai protagonisti. Invece è stato uno dei protagonisti a rendere tutto pubblico, e senza avvisare gli altri: “Non si fa”, è il commento più educato tra quelli che escono da Roma, Tripoli e Washington. Da Tel Aviv arrivano invece considerazioni più personali”.

Disastro compiuto. Complimenti agli autori. 

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