Migranti, deportati, stuprati, derubati al confine tunisino-libico: crimini di Stato

Un crimine di Stato. Pianificato ai vertici, continuato nel tempo. Con la complicità dell’Europa. E in essa dell’Italia che sostiene l’autocrate razzista di Tunisi. 

Migranti, deportati, stuprati, derubati al confine tunisino-libico: crimini di Stato
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Luglio 2023 - 20.11


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Un crimine di Stato. Pianificato ai vertici, continuato nel tempo. Con la complicità dell’Europa. E in essa dell’Italia che sostiene l’autocrate razzista di Tunisi. 

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Inferno in terra

“Centinaia di migranti sono stati deportati al confine tunisino-libico questa settimana dalle autorità tunisine. Sono soli nel deserto, feriti, aggrediti, senza cibo e acqua”. Lo denuncia Human Rights Watch in una nota nella quale viene deplorato il fatto che” le forze di sicurezza tunisine avrebbero deportato diverse centinaia di migranti e richiedenti asilo africani, compresi bambini e donne incinte, dal 2 luglio 2023 in una zona cuscinetto remota e militarizzata al confine tunisino”. Secondo Human Rights Watch si tratta di persone in situazione regolare e irregolare in Tunisia, espulse senza alcun procedimento legale. 

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Hrw ha raccolto telefonicamente diverse testimonianze di migranti espulsi tra il 2 e il 6 luglio. Si tratta di un richiedente asilo ivoriano e quattro migranti: due uomini ivoriani, un uomo camerunese e una ragazza camerunese di sedici anni, si legge in una nota. Secondo le testimonianze, dal 2 luglio le autorità tunisine avrebbero deportato tra le 500 e le 700 persone in un’area a circa 35 chilometri a est della città di Ben Guerdane. Secondo la stessa fonte, i deportati sono di nazionalità ivoriana, camerunese, maliana, guineana, ciadiana, sudanese, senegalese e di altre nazionalità. Fanno parte del gruppo almeno 29 bambini, tre donne incinte, sei richiedenti asilo registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e almeno due titolari di documenti d’identità adulti.  Nelle loro testimonianze, le persone intervistate affermano di essere state arrestate durante i raid della polizia, della guardia nazionale o dell’esercito a Sfax e dintorni. Quasi tutti i loro telefoni sono stati distrutti dalle forze di sicurezza”. 


Hrw ha assicurato di essere riuscita, però, ad ottenere la posizione Gps dei deportati, oltre a video e foto di telefoni rotti, di persone ferite a seguito di attacchi inflitti dalle forze di sicurezza. Secondo la stessa fonte, diverse persone sono morte o sono state uccise alla frontiera tra il 2 e il 5 luglio da soldati tunisini o agenti della Guardia Nazionale. 


Libici armati di machete o altre armi hanno derubato alcune persone e stuprato diverse donne, sia nella zona cuscinetto sia dopo aver attraversato la Libia in cerca di cibo. Human Rights Watch ha riferito che nessuna Ong è riuscita finora ad accedere all’area in questione, rilevando di non poter confermare la versione degli intervistati. Hrw ha affermato di avere un video inviato dai migranti di una donna che descrive un’aggressione sessuale apparentemente commessa dalle forze di sicurezza tunisine. In un altro video, una donna racconta di aver avuto un aborto spontaneo dopo essere stata espulsa. Un’altra è morta mentre dava alla luce il suo bambino. Anche il bambino è morto, secondo Human Rights Watch. Hrw afferma di aver tentato di contattare telefonicamente rappresentanti dei Ministeri dell’Interno, della Difesa e degli Esteri tunisini, ma non è riuscita ad ottenere informazioni. 

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Se questo è un Paese sicuro

Di grande interesse è il reportage da Sfax di Francesca Ghirardelli per Avvenire: “Davvero questo non sembra un Paese sicuro. Di certo non lo è stato nell’ultima settimana, non qui a Sfax, per le migliaia di migranti subsahariani che ci vivono, lavorando nel settore informale o aspettando il momento giusto per occupare il proprio posto su imbarcazioni malandate, stretti tra decine di corpi e di speranze in arrivo da mezza Africa, rischiando tutto pur di arrivare di là. Messi da parte al momento i piani di prendere il mare, quelle di non dare nell’occhio o di andarsene da Sfax via terra sono ora le priorità. Lontano dai raid delle bande locali, dagli arresti e dalle deportazioni della polizia. 

Mercoledì notte, seduti nell’androne della stazione ferroviaria di Sfax, erano rimasti in una trentina. Soprattutto ragazzi, ma anche alcune donne e alcuni bambini, in arrivo da Guinea, Sierra Leone, Sudan, Angola, gli ultimi ad aspettare il treno delle tre o quello delle cinque del mattino, per seguire le centinaia di migranti che nell’arco della giornata si erano ammassati sui binari per salire sui convogli diretti nella capitale. «Alcuni si vogliono mettere in salvo a Tunisi e restare lì, altri dicono di voler raggiungere gli uffici dell’Oim per chiedere il rimpatrio, tornare a casa loro, sono spaventati. Ero qui anch’io oggi (mercoledì, ndr) ho visto la massa di persone, erano tanti anche i poliziotti» racconta Oumar, originario della Guinea Conakry (non il suo nome vero, come gli altri menzionati). « Io però alla fine ho deciso di non salire sul treno. Ho cominciato a pensare che avrebbero potuto portarci tutti verso qualche altra destinazione. A Tunisi ci vado ora, con il treno della notte». 

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Non si è fidato Oumar, e ha fatto bene. Non tutti quelli partiti per la capitale ci sono arrivati davvero. Ieri mattina nei giardini all’ingresso della medina, uno dei quartieri simbolo di Sfax, un gruppo di ragazzi ci ha confermato che molti sono invece stati prelevati dai convogli e condotti sul confine con la Libia. «So per certo che sono stati fatti scendere giù dal treno, caricati su tre autobus e portati in Libia» dice Ibrahima della Sierra Leone. «Sono sicuro al 100%, perché ho parlato questa mattina con un amico che era a bordo e mi ha detto di trovarsi a Ben Gardane, sulla frontiera. Anche altri amici che erano a Sfax appena due giorni fa sono là. In Libia noi non abbiamo mai messo piede, qui il mio gruppo era arrivato partendo dal Marocco e attraversando l’Algeria, però sappiamo che quello non è un posto sicuro, tante vite sono andate perdute laggiù».

Più vicina in linea d’aria a Lampedusa che a Tunisi, Sfax è diventata il punto di partenza del maggior numero di viaggi verso l’Italia. Le violenze ora giungono nel mezzo delle trattative per formalizzare, con un tanto atteso memorandum, l’intesa abbozzata durante la missione tunisina dell’11 giugno della premier italiana Giorgia Meloni, dell’omologo olandese Marc Rutte e della presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen. Ancora non c’è accordo sui meccanismi (e i finanziamenti europei) « per spezzare il modello di business dei trafficanti » come recita la dichiarazione Ue congiunta di giugno, che porta la firma anche del presidente tunisino Kais Saied. Il testo parla di «supporto alla Tunisia nella gestione dei confini (…). L’obiettivo è di sostenere una politica migratoria olistica radicata nel rispetto dei diritti umani». 

Si chiedono, però, dove siano questi diritti, i ragazzi che abbiamo incontrato nel giardino di fronte alla medina. Nell’ospedale di Sfax è ricoverato Foudi, amico fraterno di Ibrahima, che racconta: « È in coma, non può respirare da solo, lo hanno colpito al collo, dietro la testa, due giorni fa. È stato un gruppo di tunisini per strada. L’altra notte, invece, un’altra banda di locali è piombata a casa nostra con grandi coltelli. Con quelli e con pietre hanno iniziato a battere contro la porta. Allora noi abbiamo chiamato la polizia, che però quando è arrivata ha iniziato a spargere gas lacrimogeni. I poliziotti dicevano di voler mettere al sicuro alcuni di noi e le donne, che sono state caricate su un’auto. Però sono finite direttamente sul confine con la Libia». Gli altri ragazzi, qui da due, otto o più mesi, riferiscono che «la situazione è precipitata di recente, ma fino a qualche settimana fa la vita sembrava normale in città. Ci hanno cacciato dalle case, lo vedi siamo riuniti qui. Non ci possiamo lavare, non ci sono bagni, restiamo insieme». 

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All’origine dello sdoganamento degli atti violenti contro i cittadini subsahariani era stato, a febbraio, un discorso durissimo contro le «orde di migranti clandestini» che il presidente Saied indicava come responsabili di « violenza, crimini e atti inaccettabili», in un piano criminale per cambiare «la composizione demografica della Tunisia». La morte per accoltellamento di un uomo tunisino per mano di alcuni migranti ha infuocato gli animi. Ora di Oumar, incontrato alla stazione, di Janette, di Moussa e degli altri che aspettavano il treno delle 3 non sappiamo più nulla. Né se si trovino a Tunisi e neppure se siano già approdati in Libia”.

Un appello disatteso

Amnesty International, Human Rights Watch, International Commission of Jurists e International Service for Human Rights hanno sollecitato il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite,  a occuparsi del deterioramento della situazione dei diritti umani in Tunisia.

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In particolare, le quattro organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite di premere sulle autorità tunisine affinché pongano fine al giro di vite nei confronti del dissenso pacifico e della libertà d’espressione, annullino le accuse nei confronti di coloro che sono sotto processo solo per aver esercitato pacificamente i loro diritti umani e li scarcerino, avviino un’indagine imparziale, esaustiva, indipendente e trasparente sull’ondata di violenza contro migranti, richiedenti asilo e rifugiati dell’Africa subsahariana, processino i presunti responsabili e forniscano riparazione e accesso alla giustizia alle vittime delle violazioni dei diritti umani.

Negli ultimi due anni la situazione dei diritti umani in Tunisia è significativamente peggiorataLe garanzie sull’indipendenza del potere giudiziario sono state annullate, giudici e pubblici ministeri sono stati arbitrariamente licenziati e l’esecutivo ha interferito sempre più nei procedimenti penali. Avvocati vengono processati solo per aver svolto le loro attività professionali e per l’esercizio del loro diritto alla libertà d’espressione.

Dal febbraio 2023 sono almeno 48 le persone arrestate e indagate, in assenza di prove credibili di qualsiasi reato, per la loro opposizione politica o per aver criticato il presidente tunisino Kais Saied. Sono accusati di cospirazione contro lo stato, minaccia alla sicurezza nazionale e, in almeno 17 casi, di reati di terrorismo ai sensi della legge antiterrorismo del 2015.

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Inoltre, col pretesto di “contrastare reati riguardanti i sistemi dell’informazione e della comunicazione”, che il Decreto legge 54 punisce con pene fino a 10 anni di carcere e multe elevate, almeno 13 tra giornalisti, oppositori politici, avvocati, difensori dei diritti umani e attivisti sono sotto indagine e potrebbero essere rinviati a processo.

Il 23 giugno Volker Turk, Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha chiesto alle autorità tunisine di porre fine alle limitazioni alla libertà di stampae alla criminalizzazione dei giornalisti indipendenti.

Niente di tutto questo è avvenuto. 

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Provocazione

 Sulla questione della situazione dei migranti sub-sahariani in Tunisia, il ministro degli Esteri Nabil Ammar, in un’intervista sul Washington Post ha smentito la natura razzista del discorso del presidente Kais Saied del 21 febbraio scorso e ha accusato le Ong che denunciano i vari maltrattamenti subiti dai migranti di “servire agende” (straniere, ndr), assicurando che quando si verificano atti isolati, vengono presi immediatamente provvedimenti e viene “risolto il problema”.

“In alcuni casi ho chiamato i genitori di alcune persone nel loro stesso Paese per dire loro che i loro figli stavano bene”, ha affermato. “Voglio dire che gli attacchi ai migranti sono atti di rivolta. Abbiamo rivolte in Tunisia”. 

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Rivolte fomentate dall’alto. Ma questo il ministro si guarda bene dal dirlo. Quanto a Saied, l’autocrate razzista tunisino ha preso  accordi col presidente del Governo di unità nazionale in Libia, Dabaiba, che proprio sul confine tra Libia e Tunisia ha deciso di schierare una forza militare congiunta, “composta da 450 veicoli armati per controllare la strada costiera che dalla capitale Tripoli arriva fino a Ras Jedir, il valico di frontiera con la Tunisia”, scrive l’Agenzia Nova che riferisce anche di nuove torri di controllo lungo un confine di 1.500 chilometri.

Il deputato tunisino Moez Barkallah ha indicato che “1.200 migranti subsahariani sono già stati espulsi, da fine giugno ad oggi”, e che l’obiettivo è di arrivare a quattromila entro la settimana”. Le espulsioni, ha detto in una dichiarazione all’agenzia Tap, sono state fatte “a partire dalla città di Sfax verso le regioni di confine in Libia e Algeria che supportano questo tipo di operazioni“.

Il Mar della Morte

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Almeno 10 migranti tunisini dispersi e un corpo recuperato. È l’esito del naufragio di una barca salpata dalla costa al largo della città di Zarzis in Tunisia, lo ha detto Faouzi Masmoudi, giudice della città di Sfax. Erano diretti in Italia. L’ultima tragedia ha portato il numero di morti e dispersi al largo delle coste del Paese nordafricano a oltre 600 nella prima metà del 2023.    

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