Cimitero-Mediterraneo. Il “Mare della morte” dove si consuma il “Grande ricatto” da parte di autocrati razzisti, signori della guerra spesso in combutta con i trafficanti di esseri umani, che una Europa imbelle e collusa asseconda, finanzia, addestra, arma, perché, come documentato in più articoli da Globalist, facciano il lavoro sporco a posto nostro.
Il “Grande ricatto”
Rimarca su Internazionale Khalifa Abo Khraisse, regista, profondo conoscitore della realtà libica: “Le visite della prima ministra italiana Giorgia Meloni in Nordafrica vanno inquadrate nel più ampio tentativo di discutere “con i paesi della regione come finanziare e trovare soluzioni strutturali” alle migrazioni, ha affermato lei stessa. Nel cercare soluzioni strutturali insieme ai paesi del Nordafrica, però, i migranti sono diventati delle pedine nelle mani di forze politiche senza scrupoli. Quest’anno è aumentato il numero di persone in arrivo dalla Tunisia e dalla Libia, ma anche quello di persone morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, raggiungendo secondo le Nazioni Unite livelli che non si vedevano dal 2017.
Nel febbraio del 2017 il governo italiano aveva stretto un accordo con Tripoli per gestire le migrazioni irregolari, contrastare il traffico di esseri umani e migliorare la sicurezza alle frontiere. In base all’accordo, l’Italia ha ampliato il suo sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica, offrendo risorse finanziarie e le competenze tecniche per migliorare la sua capacità di pattugliamento e per intercettare i migranti.
Le organizzazioni che difendono i diritti umani hanno criticato l’accordo perché di fatto intrappola i migranti nei centri di detenzione libici, dove la tortura è una pratica frequente. I governi italiani che si sono succeduti da allora hanno continuato, tuttavia, a concentrarsi sulla necessità di bloccare l’arrivo di migranti a tutti i costi.
Arresti in Libia
Alla fine di gennaio di quest’anno, Meloni è andata a Tripoli, accompagnata dal ministro degli esteri Antonio Tajani e dal ministro dell’interno Matteo Piantedosi, per incontrare il primo ministro del governo di unità nazionale Abdul Hamid Dbeibeh. Lo scorso maggio, inoltre, il generale libico Khalifa Haftar, che da anni ha il controllo effettivo della regione orientale della Cirenaica, è stato in visita a Roma.
Questi andirivieni diplomatici tra Italia e Nordafrica sono importanti per comprendere gli ultimi sviluppi in Libia. Entrambe le visite sono significative perché, in contemporanea, nelle regioni orientali e occidentali della Libia sono state lanciate campagne di repressione contro i migranti.
Nelle ultime operazioni le autorità della regione orientale, sotto il comando di Haftar, hanno fatto delle incursioni all’interno di magazzini usati dai trafficanti e situati nella città di Musaid e in altre zone. Secondo le stime di attivisti e ong locali, sono stati rastrellati e posti in detenzione oltre seimila migranti siriani, sudanesi, pachistani e bangladesi.
Circa duemila migranti egiziani, arrestati dalle autorità libiche, sono stati radunati e costretti a camminare per oltre due chilometri nel deserto, fino al confine con l’Egitto. I video che li riprendono sono stati postati sui social network, accompagnati dal racconto degli attacchi e delle intimidazioni della polizia, che durante le incursioni ha usato anche i cani.
A Tripoli invece il governo di unità nazionale ha usato i droni per attaccare presunte “bande di contrabbandieri”, attive in alcune città della costa nella Libia occidentale. Il parlamento libico, insediato nell’est del paese, ha condannato gli attacchi, descrivendoli come un tentativo di raggiungere degli obiettivi politici, prendendo di mira le fazioni legate alle forze che si oppongono al primo ministro Dbeibeh. Tra gli obiettivi degli attacchi con i droni c’è stata anche la residenza di un parlamentare a Zawya. Con la sua raffineria e i suoi terminali per l’importazione di petrolio, Zawya è da tempo nota per essere uno dei centri del traffico di esseri umani e del contrabbando di carburante. Negli ultimi anni diverse fazioni rivali si sono contese il controllo della città.
Meloni ha fatto dei viaggi diplomatici anche in Tunisia, oltre che in Libia. Nella capitale ha incontrato il presidente Kais Saied, una visita che aveva l’obiettivo di sciogliere l’impasse su un prestito da due miliardi di dollari che il Fondo monetario internazionale (Fmi) dovrebbe concedere alla Tunisia. Il prestito è congelato da diversi mesi, perché il presidente Saied si rifiuta di sottoscrivere l’impegno a fare delle importanti riforme, condizione necessaria alla concessione dei fondi.
Queste riforme hanno l’obiettivo di rispondere nel lungo periodo alla grave crisi economica in cui versa il paese. Il presidente Saied le ha però respinte definendole dei “diktat”. Meloni ha annunciato di voler proseguire con le trattative durante il suo secondo viaggio a Tunisi, l’11 giugno, quando era accompagnata dal primo ministro olandese e dalla presidente della Commissione europea.
I paesi europei temono che in assenza di un sostegno finanziario la Tunisia possa scivolare in una crisi economica su vasta scala che, a sua volta, determinerebbe un numero ancora più alto di migranti che attraversano il Mediterraneo.
Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite, su 51.215 migranti arrivati quest’anno in Italia a bordo di imbarcazioni, circa 26.555 sono salpati dalla Tunisia, contro i 3.658 dello stesso periodo nel 2022. Vale la pena osservare che l’Italia fornisce già veicoli di terra e addestramento alla guardia costiera tunisina, con l’obiettivo di migliorare la sua capacità di fermare i migranti alla partenza. Anche se la crisi economica tunisina ha un ruolo nell’aumento del flusso di migranti, ci sono in campo altre forze di cui non si è discusso abbastanza.
Nel 2021 il presidente Saied ha consolidato il suo potere accentrando su di sé quasi tutti i poteri, con la sospensione del parlamento e la prassi di governare attraverso dei decreti. Questi sviluppi hanno compromesso la condizione della Tunisia, considerata l’unica democrazia sopravvissuta alle rivolte delle primavere arabe. In un discorso del 21 febbraio scorso, il presidente Saiede ha riecheggiato la teoria della “sostituzione etnica”, molto amata dalle organizzazioni di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti.
Nel suo discorso, il presidente Saied ha ordinato alle forze di sicurezza di espellere tutti i migranti irregolari, citando la teoria del complotto della “sostituzione etnica”, un piano per modificare la demografia della Tunisia, renderla meno araba e più africana. Ha poi accusato i migranti di essere la causa dell’aumento dei tassi di criminalità e delle violenze nel paese. Questi commenti sono coerenti con un pregiudizio ben radicato in Tunisia, dove i neri sono comunemente discriminati. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno successivamente riferito di numerosi casi in cui impiegati o studenti originari dell’Africa subsahariana sono stati licenziati, cacciati dalle loro case, banditi dai mezzi pubblici e aggrediti fisicamente. Questa repressione non ha fatto che aumentare il tasso di criminalità.
È sconfortante che la necessità di fermare le migrazioni abbia la precedenza sulla denuncia di un preoccupante aumento del numero di migranti morti in mare quest’anno. L’Italia persegue con coerenza una politica volta alla repressione delle migrazioni con qualsiasi mezzo, dimostrando disprezzo per le sofferenze dei migranti e dei profughi. Nel farlo – conclude Abo Khraisse – ha dato priorità ad accordi economici redditizi, scaricando la responsabilità su altri governi per le orrende violazioni dei diritti umani”.
Quell’appello irrisolto
“Da tempo la Libia non è un luogo sicuro per rifugiati e migranti.
Attori statali e non statali li sottopongono a una serie di violazioni dei diritti umani e abusi, tra cui uccisioni illegali, torture e altri maltrattamenti, stupro e altre violenze sessuali, detenzione arbitraria a tempo indefinito in condizioni crudeli e inumane e lavoro forzato.
Nonostante i continui e ben documentati raccapriccianti abusi perpetrati nell’impunità per oltre un decennio, stati e istituzioni europee continuano a fornire supporto materiale e perseguire politiche migratorie che permettono ai guardacoste libici di intercettare uomini, donne e bambini che cercano di scappare alla ricerca di salvezza attraversando il mar Mediterraneo, e ne consentono il ritorno forzato in Libia, dove vengono trasferiti per essere sottoposti a detenzione illegittima e affrontano ulteriori cicli di violazioni dei diritti umani.
Nei primi mesi del 2021 i guardacoste libici hanno intercettato in mare e rimpatriato in Libia circa 15.000 persone, un numero maggiore rispetto all’intero 2020. Alle persone sbarcate nei porti libici è stato consentito solo un accesso sommario alle organizzazioni umanitarie in circostanze tese e caotiche che non consentono un’adeguata valutazione dei loro bisogni e delle loro difficoltà, per non parlare dell’individuazione di persone che richiedono protezione internazionale. Migliaia di persone sbarcate sono finite in centri di detenzione, un numero calcolato in 6.100 persone alla fine di giugno 2021.
Cambiare questo sistema non è impossibile.
L’Unione europea e i suoi stati membri devono sospendere la cooperazione con la Libia in tema di controllo delle frontiere e delle migrazioni, fino alla creazione di meccanismi di due diligence, monitoraggio e accertamento delle responsabilità e fino a quando le autorità libiche non adotteranno misure concrete e comprovabili per proteggere i diritti di rifugiati e migranti, anche chiudendo i centri di detenzione e rilasciando tutte le persone detenute sulla base del proprio status di migranti”.
L’appello di Amnesty International è datato luglio 2021. Sul testo, in un anno, sono state raccolte oltre 58mila adesioni. Due anni dopo, la situazione già tracica è ulteriormente peggiorata.
Era tutto chiaro da tempo
Scrive Stefano Mauro su Il Manifesto: “Nel loro ultimo rapporto presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra, il gruppo di esperti della missione Indipendent Fact-Finding Mission on Lybia (Iffm) documenta «un’interminabile serie di violazioni dei diritti umani perpetrate sia contro i libici che contro i migranti», che evidenziano una «situazione terribile nel paese».
«Ci sono ragionevoli motivi per ritenere che siano stati commessi crimini contro l’umanità in Libia», ha affermato la commissione d’inchiesta. Dall’inizio del loro mandato nel 2020, gli investigatori hanno raccolto più di 2800 interviste a testimoni e vittime. «In questi tre anni le violenze si sono moltiplicate – ha spiegato Mohamed Auajjar, capo della Iffm – la missione ha documentato casi di detenzione arbitraria, omicidi, torture, stupri, schiavitù sessuale e sparizioni forzate, confermando pratiche diffuse e violenze in tutto il paese».
Per la prima volta la missione aggiunge quello che molti migranti, soprattutto donne, riferiscono nei loro racconti all’arrivo in Italia o in altri paesi europei: la schiavitù sessuale che si aggiunge all’elenco delle violazioni dei diritti umani, praticate in particolare nei centri di detenzione per migranti di Mabani, al-Shwarif, Zuwarah, Sabratha, Sabha e Bani Walid.
«La missione si rammarica che queste vittime di crimini efferati siano state, oltre a uomini e donne, bambini e minorenni che hanno un disperato bisogno di protezione», ha affermato Auajjar. Secondo le testimonianze di numerosi migranti detenuti nei centri di Maya, Ayn Zarah e Gharyan, «la loro preoccupazione non era morire nelle acque del Mediterraneo, ma tornare nella prigione dove profughi e migranti sono oppressi e torturati dalle guardie».
«Le donne migranti vengono regolarmente stuprate come prassi usuale nei centri di detenzione – ha spiegato Tracy Robinson, membro della missione – abbiamo riscontrato anche casi di schiavitù di persone vendute a soggetti esterni per svolgere vari servizi, con un’infinità di segnalazioni che non eravamo stati in grado di stabilire nei nostri precedenti cicli di monitoraggio».
Le Nazioni Unite hanno, inoltre, documentato numerosi casi di collusione fra le autorità libiche, gruppi armati nominalmente integrati nelle forze di sicurezza e organizzazioni criminali perché «lo sfruttamento dei migranti è indubbiamente fra i business più lucrativi dell’economia di guerra della Libia». Un esempio è legato all’attività di Abd al-Rahman Milad (alias Al Bija) – capo della Guardia costiera libica nel settore di Zawiya – che è stato sanzionato dall’Onu «per traffico di migranti» o riguardo a Imad Trabelsi (capo delle milizie di Zintan), attuale ministro dell’interno del Governo di unità nazionale (Gnu) guidato da Abdul Hamid Dbeibah – che lo scorso febbraio ha incontrato a Roma il suo omologo italiano Piantedosi proprio riguardo alla gestione dei migranti.
Presentando il rapporto, Mohamed Auajjar ha affermato che l’assistenza dell’Ue alle autorità libiche, «ha aiutato e incoraggiato la commissione di questi crimini, compresi quelli contro l’umanità», visto che «molti migranti, alcuni dei quali avrebbero potuto ottenere asilo, sono stati fermati, detenuti e sbarcati in Libia con l’unico scopo di impedirne l’ingresso in Europa, a corollario della politica europea sull’immigrazione».
Riguardo alla presentazione del rapporto la Commissione europea ha affermato di aver preso le accuse «molto sul serio», pur sottolineando che il lavoro in Libia è stato svolto in coordinamento con le agenzie delle Nazioni Unite, confutando le accuse secondo cui l’Ue pagherebbe pur di trattenere i migranti in Libia. Da parte sua il governo di Tripoli ha respinto il rapporto e, attraverso il ministero degli esteri, ha invitato «la missione delle Nazioni Unite a presentare alle autorità le sue informazioni sulle vittime di violenza e schiavitù sessuale o sulle accuse di connivenza con i trafficanti».
Nella sua audizione a Ginevra l’Iffm ha indicato che comunicherà all’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani un elenco di «altri possibili autori di questi crimini», affinché le politiche europee – e italiane – in materia di migrazioni irregolari siano ponderate alla luce di queste informazioni e delle loro implicazioni in termini «di mancato rispetto del diritto internazionale».
L’articolo è di due mesi fa. Prima dell’ecatombe sulle coste greche. Tutto si sapeva, ma nulla è stato fatto da una Europa succube e al tempo stesso remuneratrice del “Grande ricatto”.