L'Europa alla sbarra in una "Norimberga del Mediterraneo"
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L'Europa alla sbarra in una "Norimberga del Mediterraneo"

Non smetteranno di denunciare. Non smetteranno di proporre alternative umane. E Globalist con loro.

L'Europa alla sbarra in una "Norimberga del Mediterraneo"
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

17 Giugno 2023 - 19.44


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Non smetteranno di denunciare. Non smetteranno di proporre alternative umane. E Globalist con loro.

La denuncia, la proposta

“Di fronte all’ennesima perdita di vite umane a causa dell’incapacità dell’Unione Europea di permettere alle persone in cerca di protezione di raggiungere l’Europa in modo sicuro Save the Children, Amnesty International, Danish Refugee Council, Hias Europe, Human Rights Watch, International Rescue Committee, Medici senza Frontiere, Missing Children Europe, Oxfam e Sos Villaggi dei Bambini in una nota ricordano ancora una volta che “centinaia di persone sono disperse e si teme siano morte dopo l’ultima tragedia avvenuta vicino alle coste greche, ma anche che le autorità di diversi Stati membri sono state informate dell’imbarcazione in difficoltà molte ore prima del suo rovesciamento e anche un aereo di Frontex era presente sulla scena.

Ma sono innumerevoli le tragedie umane si consumano quotidianamente alle frontiere terrestri e marittime dell’Europa. Il primo trimestre di quest’anno è stato il più letale nel Mediterraneo centrale degli ultimi sei anni.
Del resto, difensori dei diritti umani, organizzazioni della società civile, le Nazioni Unite e innumerevoli giornalisti investigativi, nonché i principali media, hanno documentato le violazioni dei diritti umani, i respingimenti e le sistematiche carenze nella ricerca e nel salvataggio che sono ormai diventate, di fatto, la politica di gestione delle migrazioni dell’Ue. Sono stati pubblicati – si ricorda da parte delle organizzazioni – centinaia di rapporti e documenti, compresi quelli basati direttamente sui racconti dei sopravvissuti Le ong stanno chiedendo senza sosta alla Commissione europea, agli Stati membri e ai responsabili politici europei di adottare misure per porre fine alle violazioni dei diritti umani e alle morti insensate alle frontiere dell’Ue.

Ciononostante – continua la nota – , gli Stati dell’Ue hanno ridotto drasticamente la capacità di ricerca e soccorso -Sar in mare e diversi hanno limitato le operazioni Sar della società civile, il che significa che non è possibile fornire un’assistenza tempestiva ed efficace alle persone in difficoltà, in palese violazione degli obblighi internazionali. Inoltre – si ricorda – la scorsa settimana gli Stati membri hanno concordato una riforma del sistema europeo di asilo e migrazione basata sulla deterrenza e sulla detenzione sistematica alle frontiere dell’Ue, che molto probabilmente incentiverà un maggior numero di respingimenti e di morti in mare, mentre i meccanismi di monitoraggio delle frontiere finora istituiti non sono né indipendenti né efficaci. Questo non farà altro che spingere le persone in fuga da guerre e violenze verso rotte ancora più pericolose e causerà altre morti evitabili. Nel frattempo, gli Stati membri dell’Ue continuano a fare affidamento su accordi poco trasparenti del valore di miliardi con Paesi terzi, nel tentativo di liberarsi dalle proprie responsabilità in materia di asilo.

Ed è per tutte queste considerazioni che Save the Childre, Amnesty International, Danish Danish Refugee Council, Hias Europe, Human Rights Watch, International Rescue Committee, Medici Senza Frontiere,Missing Children Europe, Oxfam e Sos Villaggi dei Bambini chiedono «un’indagine completa su queste morti, in particolare sul ruolo degli Stati membri dell’Ue e sul coinvolgimento di Frontex. Esortiamo la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ad assumere finalmente una posizione chiara rispetto al cimitero a cielo aperto alle frontiere terrestri e marittime dell’Europa e a richiamare gli Stati membri alle proprie responsabilità. Chiediamo un sistema di asilo europeo che garantisca alle persone il pieno rispetto del diritto di chiedere protezione. L’Ue dovrebbe abbandonare la narrativa che attribuisce la colpa dei naufragi ai trafficanti e cessare di vedere soluzioni solo nello smantellamento delle reti criminali. Esortiamo l’Ue e gli Stati membri a istituire nel Mar Mediterraneo operazioni di ricerca e salvataggio proattive e guidate dagli Stati».

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Per troppi anni- è l’amara conclusione della nota – abbiamo ascoltato parole vuote da parte della Commissione europea e degli Stati membri dell’Ue, che si sono detti “preoccupati”, “rattristati” e “sgomenti” per la perdita di vite umane senza agire. Questa volta deve essere diverso. È ora di proteggere finalmente le vite e i diritti delle persone che cercano sicurezza in Europa”.

Quella lugubre ipocrisia

Ne scrive, su La Stampa, Giorgia Linardi, portavoce della ong Sea Watch in Italia: “Il governo greco ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale però incolpa i naufraghi. Intanto, Atene ha subito chiarito che la Grecia non intende cambiare la linea dura sull’immigrazione. D’altronde, la Commissaria europea Von der Leyen – in visita nel 2020 per la consegna di 700 milioni di euro per il contrasto all’immigrazione – aveva orgogliosamente definito il Paese «scudo d’Europa», con un richiamo bellico alla difesa della fortezza Ue dalle persone migranti a caccia del riconoscimento dei loro diritti. 

«Non volevano essere soccorsi». Così le autorità greche hanno commentato prontamente il naufragio davanti alle coste di Pylos. Questo non risulta dalle testimonianze dei sopravvissuti né dalle ricostruzioni di Alarmphone che vi era in contatto. Anche spostandosi su un piano giuridico, l’unica vera certezza è che, a prescindere dalle intenzioni dei naufraghi, vi era l’obbligo da parte delle autorità di soccorrerli, imposto dal diritto del mare. 

L’analisi potrebbe fermarsi qui, sulla base del fatto che per almeno 24 ore le oltre 700 persone stipate sul peschereccio fossero note alle autorità di Italia, Grecia e Malta e avvistate da un aereo Frontex. Insomma, tutta Europa sapeva. 

Nell’intervenire in una situazione di pericolo in mare, la guardia costiera deve valutare l’esistenza di fattori riconducibili alla definizione di “distress”. Tra questi, le condizioni di sicurezza e il numero di persone a bordo, elementi palesemente non rispondenti ad alcuno standard di navigazione accettabile nel caso in questione. 

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Dunque, non importa quale fosse la volontà dei naufraghi: sulle autorità di soccorso competenti e informate del fatto incombeva il dovere di intervenire. Lo ha ricordato l’ammiraglio greco Christos Karadimas: «La Grecia aveva l’obbligo di assistere il peschereccio». 

E tuttavia la prassi ormai affermata di rimbalzo di responsabilità tra Stati membri, pur di non ammettere persone migranti sul proprio territorio, non sorprende più, nemmeno davanti a quella che si configura come una delle più letali tragedie del Mediterraneo. 

La verità è che i greci avevano tutto l’interesse che le persone proseguissero la rotta verso l’Italia, come tradito dalle parole di un altro ammiraglio della marina greca, Kostas Kyranakis, secondo cui «la Grecia non aveva alcun obbligo di occuparsi di un incidente che coinvolgeva la Libia e l’Italia». 

Inoltre, senza motore, dove avrebbero dovuto andare? Secondo quanto dichiarato dal portavoce della guardia costiera ellenica, infatti, il peschereccio avrebbe «perso» il motore. 

Ma c’è di più. I sopravvissuti hanno raccontato all’ex eurodeputato socialdemocratico Kriton Arsenis, recatosi a Kalamata, che la guardia costiera greca stesse trainando il peschereccio con una cima quando si è ribaltato. «Mentre la guardia costiera li tirava – li aveva legati con una corda – improvvisamente la nave si è rovesciata, senza capire come». 

Ancora impossibile ricostruire la dinamica, ma i sopravvissuti aggiungono che il mare era piatto e che la nave era stracolma di persone, per cui non avrebbero potuto spostarsi provocando uno spostamento del baricentro tale da essere all’origine del ribaltamento. Inoltre, se confermata, la prassi del rimorchio non potrebbe ritenersi una modalità d’intervento sicura e tantomeno consona a un’autorità preposta al soccorso in mare. 

Resta tutto da accertare ma al momento non si può escludere che sia stata proprio questa la causa del naufragio o che vi abbia contribuito. 

Tuttavia, le indagini sembrano ancora una volta rivolgersi innanzitutto e con particolare urgenza e zelo alla caccia agli scafisti. Sei persone di nazionalità egiziana sono state fermate con l’accusa di favoreggiamento, senza nemmeno il tempo di riprendersi dallo choc dell’ecatombe a cui sono sopravvissuti. 

Infine, perché così a est? Il peschereccio partito da Tobruk avrebbe assunto una rotta piuttosto insolita, quasi a disegnare una L che punta alla Grecia per arrivare in Italia. Forse casuale, ma è un fatto che dall’incontro di Meloni con il generale libico Khalifa Haftar a inizio maggio, almeno due volte sia stata riscontrata dalle Ong la presenza di una nave appartenente alla milizia Tareq Ben Zeyad, capitanata dal figlio del generale e nota per i gravi crimini commessi nelle aree sotto il suo controllo. Un «catalogo di orrori, tra cui esecuzioni, torture e altri maltrattamenti, sparizioni forzate, stupri e altre violenze sessuali e sfollamenti», commessi contro libici e persone migranti, secondo un recentissimo rapporto di Amnesty International. 

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Che questa tragedia sia l’ennesimo segnale di come le politiche di contenimento portino solo a rotte più pericolose, al caro prezzo di più morti e accettando di svendere la dignità delle democrazie europee per scendere a patto con autocrati e criminali?”. 

Chi erano

Lo racconta, magistralmente, Annalisa Camilli per Internazionale

Moshin Shazad, 32 anni, era un uomo con l’espressione seria, due figli piccoli, la moglie e la madre da mantenere. Per questo aveva deciso di partire da Lalamusa, una città nel Punjab, in Pakistan. Non riusciva a trovare un lavoro stabile e le bocche da sfamare erano diventate troppe, dopo la nascita del secondo figlio. Voleva raggiungere il cugino, Waheed Ali, che dal 2019 vive in Norvegia. 

È partito con altri quattro ragazzi, quattro amici, tra cui Abdul Khaliq e Sami Ullah. Ha telefonato al cugino poco dopo essere salito sul peschereccio stracarico che è partito da Tobruk, in Libia, ed è naufragato il 14 giugno, a 47 miglia da Pylos, in Grecia. “Diceva che sarebbe arrivato in Italia”, racconta Waheed Ali, che ora sta cercando il cugino tra i 108 sopravvissuti, di cui molti sono stati sistemati in un magazzino abbandonato di Kalamata, in Grecia, mentre una trentina sono stati trasferiti in ospedale. Molti erano in ipotermia. Ma Shazad potrebbe anche essere tra i dispersi. 

Shawq Muhammad al Ghazali, 22 anni, era uno studente originario di Daraa, in Siria, ed era rifugiato in Giordania, dove al momento vivono la sua famiglia e suo zio Ibhraim al Ghazali. Il ragazzo era partito da Amman per la Libia, e da lì, da Tobruk, si era imbarcato per raggiungere l’Europa. “Non ho sue notizie dall’8 giugno, il giorno della partenza dalla Libia”, dice lo zio. Secondo molti familiari, le autorità greche non stanno aiutando le famiglie ad avere notizie dei parenti o a capire se sono tra i vivi o tra i dispersi. 

I superstiti sono per lo più siriani (47) ed egiziani (43), poi ci sono dodici pachistani e due palestinesi, secondo le autorità greche. Tutti uomini. “Non riesco a sapere se è sopravvissuto, sono io che sto dando notizie alla famiglia in Pakistan, ma sono disperato, non riesco a capire e a sapere nulla. Del naufragio ho saputo dalla televisione”, afferma Waheed Ali. 

L’imbarcazione su cui viaggiavano Moshin Shazad e gli altri era partita da Tobruk il 9 giugno, era diretta in Italia, lungo una rotta da cui sono arrivati nel 2023 la metà dei migranti partiti dalla Libia…”. 

Così li racconta Annalisi Camilli.

E noi li piangiamo.

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