Amici di tutti. Basta che siano autocrati, o aspiranti tali, in grado di fare il lavoro sporco al posto nostro. E chissenefrega se tra di loro si destino, si combattono, l’importante è che siano alla “bassezza” del compito che i securisti che governano l’Italia gli hanno affidato: “gendarmi” del Mare della Morte: il Mediterraneo. Il problema, e che problema, sorge quando il “gendarme” di turno non solo non rispetta i patti ma fa il doppio gioco. Un gioco sporchissimo.
Autocrati contro
Da un documentato report di Agenzia Nova: “Il comandante in capo dell’autoproclamato Esercito nazionale della Libia (Lna), generale Khalifa Haftar, e l’Egitto sembrano essere sempre più distanti. Le forze dell’Lna, infatti, hanno recentemente espulso via terra circa 4.000 cittadini migranti egiziani dalla Cirenaica, la regione libica orientale che confina con l’Egitto. Almeno 2.000 di questi erano entrati nel Paese legalmente e fornivano alle famiglie rimaste in Egitto rimesse e valuta estera. Si tratta, a ben vedere, di un problema non solo di sicurezza, ma anche economico dal momento che l’Egitto sta affrontando una carenza di liquidità. Oltre a questo, bisogna menzionare il presunto sostegno fornito dall’Lna alle forze del generale Mohamed Hamdan Dagalo, comandante delle Forze di supporto rapido (Rsf), le milizie sudanesi che stanno cercando di prendere il potere a Khartum. La stabilità del Sudan, infatti, rappresenta una questione di sicurezza nazionale per l’Egitto, tanto è vero che lo scoppio della guerra civile ha causato una considerevole ondata di sfollati che si è riversata nel territorio egiziano, seppur ancora senza gravi conseguenze. Inoltre, è opportuno menzionare il rapporto sempre più stretto tra il clan di Haftar e le autorità al potere a Tripoli, a loro volta invise al Cairo che ritengono il Governo di unità nazionale libico “scaduto” e avallano l’insediamento di un nuovo esecutivo tramite l’azione del presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh. “Agenzia Nova” ha parlato di questo fascicolo con Jalel Harchaoui, associate fellow presso il Royal United Services Institute.
Il 13 giugno, Haftar e Saleh si sono incontrati a Bengasi insieme a 90 deputati. Il sito web d’informazione “Al Wasat” precisa che l’incontro si è tenuto dopo le sessioni del parlamento, svolte lunedì e martedì a Bengasi, per discutere dei risultati del Comitato misto 6+6 per la preparazione delle leggi elettorali. “Dopo gli incontri a Bouznika, in Marocco, il capo dei servizi segreti egiziani, il generale Abbas Kamel, si è recato a Benina, a est di Bengasi, per dire ad Haftar di considerare di non candidarsi, ma soprattutto di non esercitare ulteriori pressioni su Saleh e non essere aggressivo nei confronti del Comitato 6+6”, ha detto Harchaoui. Secondo l’analista, Saddam Haftar, figlio del “feldmaresciallo” al comando della brigata Tariq Bin Ziyad, ha provato a rimuovere Saleh dal suo incarico per due motivi. Innanzitutto, perché Saleh sostiene fortemente l’idea secondo cui il primo ministro del Governo di unità nazionale della Libia (Gun), Abdulhamid Dabaiba, “dovrebbe rinunciare al suo incarico prima delle elezioni e, se così fosse, il dialogo di Saddam Haftar con Dabaiba finirebbe”, ha affermato Harchaoui, aggiungendo che “nonostante non ne sia pienamente soddisfatto, il figlio di Haftar vuole mantenere il suo rapporto con il premier del Gun”. In secondo luogo, Haftar vuole rimuovere Saleh perché “non si fida di lui come supervisore della preparazione delle leggi elettorali”, in quanto nei nuovi disegni di legge vi è un articolo che complicherebbe la candidatura del comandante dell’Lna.
Si tratta dell’articolo 85 delle “leggi elettorali per il presidente”, secondo cui “un nuovo governo dovrebbe essere instaurato ancora prima delle elezioni con la funzione di supervisionarle”, ha detto Harchaoui. Nonostante si tratti di un articolo che accelererebbe il ritiro di Dabaiba dalla presidenza, soddisfacendo il desiderio di Saleh e del presidente dell’Alto Consiglio di Stato, Khaled al Mishri, questi ultimi non hanno ancora firmato i nuovi disegni per le leggi elettorali, “a causa delle pressioni di Haftar”, ha detto l’analista. Secondo Harchaoui, “Saleh è il leader della fazione che sostiene il ritiro di Dabaiba, di cui fanno parte l’Egitto, la Francia, l’Arabia Saudita, parti di Ankara e di Washington”. Gli Emirati Arabi Uniti, invece, “oramai sostengono Dabaiba molto più della Turchia”, secondo l’analista”.
Il generale pigliatutto
Un passo indietro nel tempo. 6 marzo 2023. Sempre dalla Nova. Sempre Khalifa Haftar: “Il Comitato congiunto 6+6, formato da sei parlamentari della Camera dei rappresentanti basata nell’est e sei membri dell’Alto consiglio di Stato con sede nell’ovest, ha recentemente raggiunto in Marocco un accordo su due disegni di legge: uno per l’elezione del capo dello Stato e un altro per l’elezione della futura Assemblea nazionale, che sarà formata da Camera e Senato. I testi sono stati deferiti alla Camera dei rappresentanti, che dovrà ora emanare le due leggi e trasmetterle all’Alta commissione elettorale (Hnec). Tuttavia, ad oggi, non risulta alcun testo scritto e la maggior parte degli osservatori e analisti libici sospettano che la Camera dei rappresentanti voglia solo prendere tempo e prolungare “sine die” la fase transitoria di un Paese già diviso in amministrazioni rivali.
Il nodo principale riguarda la doppia cittadinanza del futuro presidente: l’Alto Consiglio di Stato di Tripoli (un “Senato” con funzioni prevalentemente consultive ma comunque indispensabili per le nomine e le decisioni più rilevanti) è fermamente contrario al doppio passaporto, mentre la Camera dei rappresentanti è favorevole. Un altro nodo riguarda gli incarichi militari: per il Consiglio di Stato i potenziali candidati non dovrebbero provenire dalle Forze armate, mentre per il Parlamento dell’est del Paese, regione dominata dal generale Haftar, la questione non sarebbe un problema. Secondo quanto riferito da Saleh alla stampa egiziana, “abbiamo trovato una soluzione alla questione della candidatura dei militari”, che dovrebbero semplicemente dimettersi prima di concorrere al voto per poi tornare ai loro incarichi in caso di mancata elezione.
Altro motivo di discordia è la divisione dei poteri tra il premier e il presidente, così come sull’imposizione della Shari’a, la legge islamica. Inoltre, bisogna tenere conto che il cosiddetto 13esimo emendamento costituzionale approvato dalle due camere, oltre ad essere di dubbia legittimità, è strutturato in modo da far saltare il banco. Basti pensare, ad esempio, che le elezioni parlamentari posso essere annullate se non si riesce a portare a termine le presidenziali. Da parte sua, l’inviato delle Nazioni Unite in Libia, Abdoulaye Bathily, ha più volte dichiarato pubblicamente che tutti devono potersi candidare in Libia, inclusi quindi personaggi divisivi come Saif al Islam Gheddafi, figlio del defunto colonnello libico Muammar, il generale Haftar a capo dell’Esercito nazionale libico (Lna) e il premier di Tripoli, Abdulhamid Dabaiba. L’ulteriore passaggio alla Camera dei rappresentanti guidata da Saleh, politico dell’est fermamente contrario alla discesa in campo del misuratino Dabaiba nelle elezioni presidenziali, potrebbe impedire il successo dell’iniziativa e rimandare “sine die” le elezioni quantomeno presidenziali.
Il generale Khalifa Haftar ha annunciato che l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) non rinuncerà “mai alla capitale Tripoli, qualunque siano le circostanze”. Parlando questo fine settimana dalla sala operativa principale della 106esima Brigata, comandata dal suo terzogenito Khaled, l’uomo forte della Cirenaica ha parlato di una “nuova minaccia di guerra”, lodando “gli ufficiali della 106esima Brigata che si distinguono dagli altri e non sono per esempio come gli ufficiali della regione occidentale: abbiamo sempre avuto grande fiducia nel nostro esercito”. Citato dal quotidiano panarabo edito a Londra “Asharq al Awsat”, il generale libico ha esortato soldati e ufficiali a tutti i livelli a “tenersi pronti” a tutti gli sviluppi, incluso uno scenario di guerra. Da quasi un anno la Libia è spaccata tra due coalizioni politiche e militari rivali: da una parte il Governo di unità nazionale con sede a Tripoli del premier Abdulhamid Dabaiba, riconosciuto dalla Comunità internazionale e appoggiato dalla Turchia; dall’altra il Governo di stabilità nazionale guidato dal premier designato Fathi Bashagha, di fatto un esecutivo parallelo basato in Cirenaica, inizialmente sostenuto da Egitto e Russia ma ormai sempre più abbandonato a sé stesso. Il generale Haftar, nonostante la retorica bellicosa, da tempo dialoga dietro le quinte con le autorità di Tripoli, scaricando di fatto il governo parallelo con sede a Sirte sostenuto dalla Camera dei rappresentanti dell’est mentre prepara il terreno per la discesa nell’agone politico dei suoi eredi: i figli Saddam, Belcagem e Khaled. Altri attori che contribuiscono allo stallo istituzionale libico sono il presidente del Parlamento, Aguila Saleh, e il capo dell’Alto consiglio di Stato con sede a Tripoli, Khaled al Mishri.
Nel frattempo, l’inviato dell’Onu Abdoulaye Bathily ha criticato la scorsa settimana, parlando al Consiglio di sicurezza, la “mancanza di legittimità” della classe politica libica e ha puntato il dito contro due istituzioni in particolare: la Camera dei rappresentanti dell’est da una parte, il foro legislativo eletto nell’ormai lontano 2014; e l’Alto Consiglio di Stato di Tripoli dall’altra, la “camera alta” della Libia con funzioni quasi prevalentemente consultive, ma comunque indispensabili per le decisioni più rilevanti. Le due camere “non sono state in grado di concordare una base costituzionale per le elezioni”, ha detto Bathily, proponendo quindi l’istituzione di un nuovo “Comitato di alto livello” che dovrà includere i principali “stakeholder” libici per redigere gli emendamenti costituzionali e le leggi elettorali necessarie per tenere elezioni “libere, inclusive e trasparenti” entro il 2023.
Per pronta risposta, l’Alto consiglio di Stato ha approvato il famoso tredicesimo emendamento costituzionale, contenente in teoria alcune delle “regole” per le prossime elezioni, quando ormai era evidentemente tardi. L’emendamento – trasmesso in precedenza dall’organo legislativo che fa da contraltare all’Alto consiglio, la Camera dei rappresentanti con sede nella città orientale di Tobruk – è stato definito “controverso” da Bathily, che intende invece formare un Alto comitato di 30-40 membri con i principali soggetti istituzionali libici: dai protagonisti dell’Accordo di Shkirat del 2015 al Comitato militare 5+5 (formato da 5 alti ufficiali dell’est e altrettanti dell’ovest), dai membri della Camera e del Consiglio di Stato agli esperti e ai rappresentanti della società civile. L’intento dell’inviato Onu è quello di raggiungere un bilanciamento all’interno del Comitato che impedisca ai politici di portare l’ostruzionismo praticato fino ad ora”.
E questo, aggiungiamo noi, sarebbe lo “stabilizzatore” della Libia.
Libia, polveriera Tobruk: il porto dove Haftar non onora il patto stretto con Meloni
E’ il titolo di un documentato report dell’ottimo Daniele Raineri su La Repubblica. Questo l’incipit: “Il disastro nel mare davanti alla costa greca di Pilos è figlio della guerra tra il generale Khalifa Haftar e i trafficanti di uomini dell’est della Libia. O per essere più precisi: è figlio della guerra tra il clan di trafficanti dominante guidato dal generale Haftar e tre clan minori di trafficanti libici che si ostinano a non volergli cedere il monopolio degli affari…”.
E questo, riaggiungiamo, noi, sarebbe il “gendarme”, ricevuto in pompa magna a Palazzo Chigi dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, con il quale “condividiamo un comune interesse nel contrasto all’immigrazione clandestina” (nota di Palazzo Chigi dopo il vertice Meloni-Haftar.
Un solo appunto al titolo di Repubblica: non è solo a Tobruk che l’uomo forte della Cirenaica, amico di Putin e sodale dei mercenari del Gruppo Wagner, non rispetta il “patto”. E’ una pratica che abbraccia l’intera Cirenaica. Anche per questo quello contratto da Meloni è un “patto scellerato”.
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