Migranti, cartoline dall'inferno e la semantica della crudeltà
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Migranti, cartoline dall'inferno e la semantica della crudeltà

Al porto di Civitavecchia sono sbarcate d le 156 persone soccorse dalla nave “Life Support” della Ong Emergency. Tra i naufraghi due donne e 28 minori non accompagnati. Molti di loro denunciano violenze in Libia

Migranti, cartoline dall'inferno e la semantica della crudeltà
Life Support, la nave di Emergency
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12 Maggio 2023 - 12.40


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Per non dimenticare. Nuda, appesa a un gancio e torturata. A raccontare gli orrori vissuti in Libia è una delle naufraghe soccorse lo scorso 15 aprile nel Mediterraneo centrale dal team di Life Support. Una minore non accompagnata che insieme ad altre 54 persone è partita da Zwara, in Libia, e in mare, prima di essere tratta in salvo, è rimasta per 12 ore.

“Sono orfana di entrambi i genitori e ho lasciato il mio Paese perché in guerra – ha raccontato ai soccorritori di Emergency, che con la Life Support dallo scorso dicembre hanno tratto in salvo 619 persone – Mi avevano detto la Libia era un passaggio molto semplice per raggiungere l’Europa, invece ci sono rimasta per tre anni. Lì sono stata imprigionata, sia da parte delle milizie che dei trafficanti”. Volevano che pagasse più soldi per il viaggio in mare. “Mi spogliavano, mi appendevano a un gancio e mi torturavano. Intanto mi filmavano affinché io mandassi il video ai miei familiari, ma io non avevo nessuno al mondo a cui chiedere soldi e aiuto”. Così quando è arrivato il momento di affrontare il Mediterraneo a bordo di una carretta del mare insicura e sovraccarica la giovane migrante non ha temuto per la sua vita. “Quando ho visto il gommone con cui avremmo attraversato il mare, non ho avuto paura: mi interessava solo lasciare la Libia – ha detto al team di Life Support – Quando siamo rimasti senza motore in mezzo al mare, completamente alla deriva, tutti a bordo pensavano che sarebbero morti ed erano angosciati, io ero pronta a qualsiasi destino, mi bastava sapere di non essere più in quel luogo maledetto”.

Testimonianze dall’inferno

«In prigione in Libia mi hanno picchiato: ogni sera sceglievano una donna da violentare, ma per fortuna a me non è mai toccato». «Ho passato tre giorni in mare, senza mangiare ne bere, senza poter usare un bagno, cosparsa di benzina: non riuscivo a reggermi in piedi». «In mare abbiamo incontrato tanti pescherecci ma non ci hanno aiutato, dicendoci che rischiavano una denuncia». Le testimonianze dei migranti soccorsi da Emergency sono terribili e raccontano sia i pericoli e i timori delle traversate in mare, sia il dramma di quelli che sono veri e propri lager, dove chi vuole partire alla volta dell’Europa viene costretto per lunghi mesi, a volte anni. 

Gli stranieri che hanno vissuto o transitato in Libia riportano di episodi di violenza. «Io e la mia nipotina di 4 anni, che accudivo all’epoca – riferisce una donna – siamo rimaste in prigione in Libia per un anno. Mi hanno picchiata in qualsiasi parte del corpo. Ho ancora le cicatrici. Ogni sera sceglievano una donna da violentare. Per fortuna a me non è mai toccato. Mentre ci picchiavano, fumavano come se fosse un gioco». Le persone provenienti dalla Tunisia hanno passato più di tre giorni in mare navigando alla deriva. «Ho 45 anni e soffro di ipertensione – spiega una donna delle Costa d’Avorio, tra i superstiti -. Ho passato tre giorni in mare, senza bere, né mangiare, senza avere la possibilità di usare un bagno, sotto il sole cocente e nel freddo notturno. Quando ci avete soccorsi, avevo ovunque sul corpo la benzina che si era rovesciata dalle taniche. Non riuscivo a camminare, a reggermi in piedi. Mi hanno dovuta portare di peso». E ancora: «Appena ho visto peggiorare la situazione in Tunisia ho deciso di far partire subito mia moglie con la nostra bimba. Non vedo l’ora di ristringerle tra le mie braccia – racconta un uomo della Costa d’Avorio -. Io sono rimasto in mare tre giorni. Abbiamo incontrato tanti pescherecci, ma i pescatori ci dicevano che non potevano farci imbarcare sulle loro navi perché rischiavano denunce penali. Avrebbero chiamato i soccorsi. Quando abbiamo visto la vostra nave abbiamo capito che non ci avreste lasciato morire».

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Il muro dell’indifferenza copre l’orrore. 

Sulla pellei segni dei pestaggi e dei maltrattamenti. Al porto di Civitavecchia sono sbarcate d le 156 persone soccorse dalla nave “Life Support” della Ong Emergency. Tra i naufraghi due donne e 28 minori non accompagnati. Molti di loro denunciano violenze in Libia. Emanuele Nannini è il capo della missione Sar. “Entrambe le imbarcazioni avevano evidenti problemi alla navigazione. La vita di queste persone ara a rischio se non le avessimo trovate in tempo”. Sono state necessarie due diverse operazioni di salvataggio. Le 156 persone soccorse provengo no da Bangladesh, Pakistan, Sudan, Eritrea, Egitto. Gambia, Chad, Camerun, Senegal Mali, Nigeria, Costa d’Avorio e Guinea Konakri. Tra di loro ci sonodue donne(di cui una madre di tre bambini tra i 7 e i 10 anni) e 28 minori non accompagnati. Molti naufraghi raccontano di essere statireclusi arbitrariamente in Libia dove hanno subìto violenze. 

 “Oggi è il primo giorno della mia vita – commentaIusef, uno degli uomini soccorsi, che sul corpo riposta i segni delle violenze subito in Libia –. Non volevo passare la mia vita a fare il soldato. E fare la guerra. Per cui ho lasciato il mio Paese dopo aver terminato le scuole superiori. Mio fratello minore ha deciso di partire con me. Ma purtroppo in Libia siamo stati divisi. E adesso non ho idea di dove sia. É dura sentirmi ora al sicuro sapendo che lui in questo esatto momento è probabilmente ancora in qualche carcere libico. Ho 26 anni. Però ho deciso di non contare i tre anni passati in Libia. Come se la mia vita li si fosse interrottae fosse ripresa solo oggi”.

“Per due anni ho viaggiato solo. Sapendo che non c’era nessuno ad aiutarmi. E che ero l’unico che si sarebbe preso cura di me. Molte volte ho pensato ai miei genitori, rimasti in Nigeria– racconta Keda, uno dei 28 minori non accompagnati a bordo della Life Support –. Adesso mi sento addosso un’enorme responsabilità. La mia famiglia ha fatto pesanti sacrifici per farmi arrivare fin qui. E io ora farò altrettanto per loro”. Le operazioni di salvataggio della Life Support si sono svolte in due momenti diversi. La prima ha riguardato una piccola imbarcazione di legno in difficoltà in acque internazionali. Individuata poco dopo le ore 12 della notte del 16 febbraio.Avvisate le autorità competenti, il team di Emergency ha iniziato le operazioni di salvataggio. Il trasferimento a bordo ha riguardato 46 naufraghi. Tutti uomini provenienti da Bangladesh, Pakistan, Sudan, Eritrea ed Egitto. Dopo aver concluso le operazioni di salvataggio e aver informato le autorità, la Life Support ha chiesto un “porto sicuro” (o place of safety, “pos). Dove sbarcare i naufraghi. Mentre attendeva una risposta, ha ricominciato le attività di ricerca di una imbarcazionein condizioni precarie. A segnalarla erano state proprio le persone soccorse durante la notte.

Hanno visto morire di fame e di sete sei compagni di viaggio i 26 naufraghi, siriani e afghani, arrivati a Pozzallo lo scorso 12 settembre ai quali un team di Medici senza frontiere, formato da due infermiere, una psicologa e tre mediatori interculturali, ha fornito in questi giorni supporto psicologico. Sono partiti dalla Turchia il 28 agosto e sono rimasti in mare in balia delle onde per 15 giorni a causa di un guasto al motore dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano, senza bere nè mangiare per oltre una settimana. Sono morti tre bambini, tra cui un undicenne in viaggio senza genitori, e tre adulti. «Quando siamo arrivati nell’hotspot di Pozzallo molti dei sopravvissuti erano ancora in stato confusionale, sotto shock, altri non riuscivano ancora a realizzare di non essere più in mare» racconta Mara Tunno, psicologa di Msf. «La prima cosa che abbiamo fatto è stato fargli realizzare di essere sulla terra ferma, di essere salvi, di essere vivi. Abbiamo chiesto loro di scegliere cinque cose da toccare, quattro da vedere, tre da sentire, due da odorare e una da percepire in bocca. Ci hanno risposto che sentivano soltanto il sapore dell’acqua del motore della barca».

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Dopo tutto questo orrore, ho il terrore che sarò respinto indietro e che tutta questa sofferenza sia stata un viaggio inutile», ha detto un ragazzo di 17 anni. A bordo, dopo aver visto morire diverse persone, «ci chiedevamo tutti quando sarebbe arrivato il nostro turno» racconta una delle persone sopravvissute. «Abbiamo iniziato a pregare aspettando la morte. Uno di noi si è coperto il viso con quello che ha trovato. Si preparava a morire. Ci ha dato i pochi soldi che aveva in tasca, chiedendoci di donarli sulla terraferma a chi ne avesse avuto davvero bisogno. Gli abbiamo scoperto il volto e gli abbiamo detto: ‘Tu ce la farai, non moriremo». Cercare di non morire «A bordo con noi c’era un signore con due bambini molto piccoli, che erano sul punto di morire per la fame. Così ho offerto loro il mio cibo per farli rimanere in vita» ha raccontato un altro dei superstiti. «Nonostante il cibo, i bambini non ce l’hanno fatta. A un certo punto anche mia moglie si è sentita male ed ero convinto che sarebbe morta. Ho pensato al cibo che avevo dato a quei bambini, non aveva salvato loro e non avrebbe più potuto sfamare mia moglie. Non mi sono pentito del mio gesto, ma ho pensato che forse con quel cibo avrei potuto salvare mia moglie. Mi sono coperto il volto con una maglietta per non farmi vedere e ho iniziato a piangere». Il viaggio senz’acqua, nemmeno per deglutire medicine salvavita Completamente esposti al sole, le persone a bordo sono state trasportate dalle onde verso le coste della Libia. Già dopo qualche giorno di navigazione le scorte di cibo e di acqua stavano finendo. «A un certo punto uno di noi ha trovato una mandorla in tasca. Abbiamo deciso di dividercela ma quasi mi soffocavo per quella mezza mandorla che non riuscivo a mandare giù» racconta un ragazzo afghano. «Per la disperazione abbiamo iniziato a bere acqua di mare, provando a filtrarla con i vestiti. L’abbiamo mischiata con il dentifricio per addolcirla e abbiamo bevuto l’acqua del motore pur di cercare di sopravvivere» racconta un ragazzo siriano sopravvissuto. «Ero consapevole che sarei potuto morire bevendo quell’acqua, ma non avevamo altra scelta». Lo sapeva bene perchè questo ragazzo è un meccanico. Ha deciso di andare in Europa per poter dare un futuro migliore a sua moglie e ai suoi figli dopo che le politiche migratorie in Turchia, dove ha vissuto molti anni, sono diventate più severe. A bordo serviva acqua anche per poter deglutire medicine salvavita. «Guarda… Guarda quante pasticche avevo con me» ha raccontato un signore che soffre di epilessia ad Alida Serrachieri, infermiera e referente medico di Msf: «Non le ho potute prendere perchè avevo la gola talmente secca da non poter deglutire».

Non si è salvata Nour, invece, una signora anziana che soffriva di ipertensione. La terapia non ha fatto effetto o probabilmente non è riuscita a deglutire le sue medicine. Il suo aspetto ha iniziato a cambiare lentamente, finchè non è morta. A bordo c’era anche una ragazza siriana che viveva in Turchia da diversi anni. Lavorava come interprete in ospedale, anche se ultimamente la vita era diventata particolarmente difficile per i siriani. Il padre aveva bisogno di un intervento medico ma in Turchia non riusciva nemmeno a vedere un medico e così hanno deciso di partire. Lui è morto durante il viaggio. «Dopo tre o quattro ore i corpi delle persone che non ce l’hanno fatta iniziavano a emanare un cattivo odore a causa del sole e del caldo. Abbiamo pregato, abbiamo lavato i loro corpi con l’acqua di mare, cercando di coprirli con quello che avevamo per seguire la tradizione e li abbiamo lasciati andare in mare» racconta un sopravvissuto.
L’indifferenza 

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Alla vista di qualsiasi imbarcazione si accendeva a bordo la speranza di essere soccorsi. «Speranza che si è spenta ogni volta che persone con acqua e cibo a disposizione hanno deciso di non soccorrerci». Solo una nave si è avvicinata per lanciare acqua e cibo, finiti purtroppo distanti dal barchino rendendo così i tentativi di recuperali vani. «Così si è spenta anche l’ennesima speranza di poter sopravvivere». Alla vista di una di queste, un ragazzo si è tuffato cercando di raggiungerla ma era già troppo lontana. La piccola imbarcazione è stata prima soccorsa da un mercantile e poi dalla Guardia costiera che ha portato i superstiti a Pozzallo. «Quando il mercantile era abbastanza vicino a noi mi sono tuffato» racconta uno dei naufraghi. «Non so dove ho trovato le forze, ma mi sono buttato per cercare di raggiungere quella barca. Mentre ero in acqua ho incrociato lo sguardo di una persona a bordo e dai suoi occhi ho capito che aveva un cuore. Era dell’est Europa, credo un ucraino. Ed è stato così, l’imbarcazione è tornata indietro e ci ha soccorsi. Ci hanno offerto uova, patate, verdure e acqua. Eravamo finalmente salvi». 

I più indifesi tra gli indifesi

Da un rapporto di Save The Children: “Tra le tante testimonianze che i nostri operatori hanno raccolto in questi anni sul drammatico viaggio, a volte letale, e sugli orrori della permanenza in Libia, ce ne sono altre recenti di un gruppo di minori non accompagnati sbarcati a Pozzallo qualche giorno fa, la maggior parte dei quali proveniva dalla Somalia. Tra loro ce n’erano alcuni anche di 14 e 15 anni, che hanno riportato di aver trascorso circa 2-3 anni in Libia, in case private o in centri di detenzione nei pressi di Tripoli, di aver trascorso molto tempo in prigione e di essere usciti grazie al pagamento di un riscatto da parte dei propri familiari, che dovevano chiamare di fronte ai trafficanti, subendo violenze, per essere più convincenti mentre chiedevano il pagamento. Molti di questi adolescenti somali hanno riferito di aver provato a imbarcarsi più volte (fino a 4), ma di essere stati intercettati dalla Guardia Costiera Libica e di essere quindi stati trasferiti presso i centri di detenzione governativa”.

La semantica della crudeltà

Potremmo continuare a lungo. Ma questi racconti vanno riproposti per non essere complici, silenti ma complici, della narrazione dell’invasione, della minaccia dei migranti e di tutto l’armamentario di nefandezze, anche semantiche, dei securitaristi al governo, o in redazione, del fu belpaese. Alla logistica della crudeltà si accompagna la crudeltà “semantica”, quella che parla dei migranti in fuga come di “carichi residuali” e criminalizza le Ong definendole “taxi del mare” in combutta affaristica con i trafficanti di esseri umani. Una semantica della crudeltà che nel suo lessico demonizzante non annovera parole come “pietà”, “umanitarismo”, “solidarietà”, “accoglienza”, “inclusione”, “rispetto”. 

Il mondo solidale si distingue dagli odiatori seriali anche in questo. Per il suo vocabolario. Perché le parole hanno un peso, un valore inestimabili. 

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