Dodici anni cancellati. Dodici anni di guerra. Centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati. Un Paese ridotto in macerie, un popolo martoriato, ridotto a una moltitudine di disperati che vagano tra le macerie di città rase al suolo o costretti a trovare rifugio in giganteschi campi profughi. Tutto cancellato. E il principale responsabile di questo immane crimine contro l’umanità viene riammesso a corte, o per meglio dire, a lega. La Lega Araba. Ma il vero vincitore di questa funerea partita diplomatica non è il “macellaio di Damasco”, al secolo Bashar al-Assad, bensì il suo sponsor russo: Vladimir Putin.
La svolta della vergogna
La decisione della Lega Araba di riammettere la Siria tra i propri ranghi, dopo essere stata sospesa per oltre un decennio, è stata criticata da Stati Uniti, Regno Unito e siriani ribelli.
Secondo i ministri degli Esteri di 13 dei 22 Paesi membri della Lega Araba – presenti all’incontro al Cairo in cui la Siria è stata riammessa nel gruppo – la riapertura delle porte ad Assad è motivata dalla necessità di porre fine alla guerra civile siriana e alla conseguente crisi dei rifugiati e del traffico di droga.
I siriani che vivono nella provincia settentrionale di Idlib, controllata dai ribelli, hanno manifestato la loro contrarietà, accusando i Paesi arabi di sdoganare il regime del presidente Bashar al-Assad e di compromettere il loro futuro.
Abdul Salam Yousef, sfollato siriano, dice di essere sconvolto: “È stato un duro colpo per noi siriani che viviamo nei campi del nord. Invece di aiutarci a lasciare queste ‘riserve’, dove soffriamo e viviamo nel dolore, i leader arabi hanno ripulito le mani dei criminali e degli assassini dal nostro sangue”.
Anche Rashad al-Deek è sfollato: “Non abbiamo beneficiato del fatto che il regime non fosse nella Lega Araba, quindi cosa succederà se ne farà parte? – ci dice – Per noi non significa nulla perché siamo sfollati e costretti a lasciare le nostre città”.
L’adesione della Siria alla Lega Araba era stata revocata nel 2011 quando il presidente Bashar al-Assad aveva ordinato una rbrutale epressione dei manifestanti: una crisi che ha fatto precipitare il Paese nella guerra civile che da allora ha ucciso quasi mezzo milione di persone. Gli sfollati sono circa 23 milioni.
Ménage a tre
Ne scrive Giuseppe Didonna in un documentato report per l’Agi, nel marzo scorso: “ Il presidente russo Vladimir Putin ha ospitato in questi giorni il leader del governo siriano, Bashar al-Assad a Mosca. Una due giorni di incontri mirati a spingere Damasco verso Ankara, con l’obiettivo di favorire una riconciliazione con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, con cui i rapporti sono fermi al 2011, inizio della guerra in Siria. Alla due giorni di incontri hanno partecipato anche delegazioni di Turchia e Iran. In programma anche un incontro tra viceministri degli Esteri di Turchia e Siria, un passo in avanti nei rapporti tra i due Paesi, in continuità con il faccia a faccia tra ministri della Difesa avvenuto a fine dicembre, primo e unico incontro interministeriale dal 2011, sempre con la mediazione di Mosca. I colloqui di questi giorni mirano a preparare il terreno per un incontro tra ministri degli Esteri di Siria e Turchia, da pianificare alla presenza dei capi della diplomazia di Russia e Iran. Assad chiede in cambio il sostegno di Putin per spingere fuori dal Paese tutti i contingenti militari stranieri, con l’eccezione della forza russe e siriane, da sempre schierate con Damasco.
Una condizione che si scontra con i piani degli Usa. La scorsa settimana l’ambasciatore americano in Turchia è stato convocato presso il ministero degli Esteri turco, infastidito non poco dal viaggio nel nord est della Siria effettuato dai vertici dell’esercito Usa, che hanno incontrato esponenti dell’organizzazione separatista curda Ypg.
Proprio questi ultimi rappresentano il nodo da sciogliere con Ankara. Per la Turchia si tratta di terroristi che minacciano la sicurezza e i confini. L’alleanza tra gli americani e i curdi di Ypg è però indigesta non solo a Damasco, ma anche a Mosca e ad Ankara. Erdogan ha insistito nei mesi scorsi per la costituzione di una zona cuscinetto profonda 30 km all’interno del territorio siriano. Un obiettivo per il quale il governo turco è stato più di una volta pronto a sferrare un attacco con l’esercito, salvo scontrarsi con il veto di Mosca e Washington.
La mediazione di Putin, che può contare anche sulla benedizione della Cina, punta a eliminare la presenza americana in nord Siria, dove i marines hanno un contingente da 8 anni che al momento conta circa 900 uomini. Scartata l’opzione militare, Erdogan si è trovato costretto a riaprire la porta ad Assad per poter eliminare Ypg dai propri confini. Tuttavia sulla riconciliazione con il regime di Damasco continuano a pesare seri interrogativi.
Il primo riguarda il sostegno che la Turchia garantisce dall’inizio del conflitto a gruppi ribelli che combattono contro Assad. Gruppi nelle cui mani Erdogan ha messo intere porzioni di territorio nel nord del Paese o che controllano parte della regione di Idlib, al confine turco. Altro interrogativo riguarda le garanzie che Erdogan chiede per il ritorno dei profughi siriani in patria.
Con le elezioni alle porte e un’opposizione che punta sull’intolleranza della popolazione nei confronti dei siriani, Erdogan ha ribadito che non caccerà via nessuno (come promette il suo sfidante) ma promesso un “ritorno volontario” di almeno 1 milione di profughi. Obiettivo difficilissimo, ma che sarebbe del tutto impossibile senza il via libera di Assad.
Il dittatore di Damasco e le sue famigerate prigioni costituiscono il motivo principale per cui i siriani non tornano in patria e solo un accordo di pace renderebbe possibile il “ritorno volontario” che Erdogan auspica in vista delle elezioni e che altrimenti non sarebbe neanche ipotizzabile”.
Un possente j’accuse
E’ quello lanciato, nel suo blog su il Fatto Quotidiano, lo scrittore siriano Shady Hamadi: “La Siria è lo scheletro nell’armadio di Occidente e Oriente. Proprio per questo motivo, la Siria non esiste. Non può avere una voce nel dibattito mondiale. Non può far sentire la sua voce, quella dei suoi morti e dei figli e figlie che l’abbandonano, perché, altrimenti, questo significherebbe riconoscerla. E il riconoscimento si trasformerebbe in una ammissione di colpa per quello che non è stato fatto.
Il 15 marzo di dodici anni fa dei ragazzini, a Dara’a, città sperduta della Siria del sud, scrivevano su di un muro ‘il popolo vuole la caduta del regime’. Subito vennero arrestati e torturati, nonostante fossero appena adolescenti. Ma si sa, in Siria insultare il presidente, padre della patria e di tutti i sudditi, significa mettere a rischio la propria vita. Per questo motivo la gente scese in piazza, chiedendo la fine della dittatura e la conseguente apertura del paese alla democrazia. A queste richieste, il regime rispose con una violenza inaudita che scatenò la guerra civile. Guerra alla quale presero parte anche potenze internazionali, finanziando o intervenendo con scarponi da una e dall’altra parte. In questo marasma è avvenuto poi che si sia buttato fango su quei giovani ragazzi e ragazze che erano scesi a chiedere il cambiamento in una maniera pacifica.
E siamo ad oggi, dove un paese dilaniato dalla morte non riesce ad ottenere attenzione. Anzi, sembra percorrere la strada della normalizzazione e cioè il ripristino dei rapporti diplomatici con Bashar al-Assad, dittatore sanguinario. Non è sull’agenda di nessuno stato quella di portare il macellaio di Damasco, il torturatore di una nazione, davanti ad un gran giurì. Se ciò accadesse, bisognerebbe chiedere come mai ci sia voluto cosi tanto e perché gli si sia lasciato adoperare armi chimiche e bombe a grappolo ininterrottamente per anni. E questa sarebbe una domanda scomoda per tutte quelle nazioni e governi che dicono di aver a cuore la Siria ma che, in verità, preferiscono scegliere di lasciar fare e osservare gli avvenimenti.
In nome di questa colpa – quella di non aver fatto nulla – lasciamo la Siria morire o ci dovremmo ritenere responsabili. Dodici anni sono stati un lungo tempo per scegliere cosa fare. Ma rimane ancora oggi evidente che scegliamo di nascondere ogni cosa sotto il tappeto. E della Siria? Chissenefrega”.
L’accusa di Hamadi è rivolta all’Occidente, agli Stati Uniti, all’Europa, a quanti potevano agire e non l’hanno fatto quando Bashar al-Assad, dodici anni fa, decise di dichiarare guerra al popolo siriano “reo” di essere sceso nelle strade, sull’onda delle “Primavere arabe”, per reclamare giustizia, diritti, libere elezioni. L’Occidente che non ha mosso foglia, se non dichiarazioni di condanna mai seguite da atti conseguenti, quando l’esercito di Assad utilizzava armi chimiche contro la popolazione civile. L’Occidente che ora non arrossisce di vergogna quando licenzia un comunicato che parla di pace e detta le condizioni per normalizzare le relazioni con Damasco.
Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito hanno ribadito che non normalizzeranno le relazioni con la Siria fino a quando non vi saranno “progressi autentici e duraturi verso una soluzione politica al conflitto”. È quanto emerso in una dichiarazione congiunta rilasciata in occasione del 12esimo anniversario dello scoppio del conflitto siriano. “Mentre assistiamo al 12esimo anniversario dell’inizio di questo orrendo conflitto da parte del regime di Bashar al-Assad, e mentre affrontiamo conflitti in altre parti del mondo, la difficile situazione del popolo siriano deve rimanere in primo piano”, hanno ribadito i quattro Paesi, evidenziando come circa 250 mila civili siriani siano stati uccisi nel corso della guerra, “la stragrande maggioranza da parte dal regime di Assad”. “Il conflitto in corso ha creato un ambiente favorevole per terroristi e trafficanti di sostanze stupefacenti, minacciando ulteriormente la stabilità regionale”, si aggiunge nella dichiarazione ripresa dal sito del governo britannico.
“Mentre ci concentriamo sull’affrontare i bisogni umanitari immediati a seguito dei tragici terremoti, ricordiamo i nostri obiettivi comuni di far avanzare un processo politico facilitato dalle Nazioni Unite e guidato dalla Siria, in linea con la risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e di migliorare la situazione sul campo per milioni di siriani, compresa la situazione degli sfollati interni e dei rifugiati. Rimaniamo impegnati a sostenere la società civile siriana e a porre fine alle violazioni dei diritti umani e agli abusi che il popolo siriano ha subito – a causa del regime di Assad e di altri – molto prima che i terremoti colpissero il Paese”, si legge nel testo.
Si sono lavati la coscienza. Vergogna.
Al-Assad ha vinto la guerra. A gestire le sorti del paese saranno Russia, Iran e Turchia, con gli Usa aggrappati alle ambiguità di Ankara. L’Occidente non conta più nulla, anzi subirà l’aumento della pressione migratoria. Pure l’arma economica è spuntata.
E’ il sommario dell’analisi di Fabrice Balanche su Limes. Il titolo è: “In Siria l’Occidente ha perso”. L’articolo è del 2 maggio 2018. Sembra scritto oggi. Tanto più alla luce della decisione della Lega Araba.
Un bilancio terrificante
In occasione dell’Human Rights Council Ginevra, l’United Nations Human Rights Office (Unhr) ha pubblicato il “Report of the Working Group on the Universal Periodic Review – Syrian Arab Republic” che, a seguito di una rigorosa valutazione e analisi statistica dei dati disponibili sulle vittime civili, stima che «Tra il 1 marzo 2011 e il 31 marzo 2021, siano stati uccisi in Siria 306.887 civili a causa di il conflitto. Questa è la stima più alta finora delle morti civili legate al conflitto in Siria». L’Unhr avverte che «Di conseguenza, il totale delle vittime civili è stimato in 306.887 con un intervallo credibile di circa il 95%. Questo intervallo credibile del 95% implica che, dati i dati osservati e supponendo che il modello sia corretto, c’è una probabilità del 95% che il numero reale di morti tra i civili sia compreso tra 281.443 e 337.971».
Il rapporto faceva riferimento a 143.350 morti di civili che sono state documentate da varie fonti con informazioni dettagliate, tra le quali almeno il nome completo, la data e il luogo della morte. Inoltre, sono state utilizzate tecniche di stima statistica per collegare i punti dove mancavano elementi di informazione e l’Unhr stima che «Si siano verificati altri 163.537 civili morti, portando il bilancio totale stimato delle vittime civili a 306.887».
Presentando il rapporto, la Alto Commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha ricordato che «Le cifre delle vittime legate al conflitto in questo rapporto non sono semplicemente un insieme di numeri astratti, ma rappresentano singoli esseri umani. L’impatto dell’uccisione di ciascuno di questi 306.887 civili ha avuto un impatto profondo e riverberante sulla famiglia e sulla comunità a cui appartenevano. Il lavoro delle organizzazioni della società civile e delle Nazioni Unite nel monitoraggio e nella documentazione dei decessi legati ai conflitti è fondamentale per aiutare queste famiglie e comunità a stabilire la verità, cercare la responsabilità e perseguire risarcimenti efficaci. Questa analisi darà anche un senso più chiaro della gravità e della portata del conflitto. E voglio essere chiara: queste sono le persone uccise come risultato diretto delle operazioni di guerra. Questo non include i moltissimi altri civili che sono morti a causa della perdita dell’accesso all’assistenza sanitaria, al cibo, all’acqua potabile e ad altri diritti umani essenziali, che restano da valutare».
Il rapporto contiene anche dati disaggregati per le morti documentate, inclusi quelli per età, sesso, anno, governatorato, presunti responsabili e causa della morte per tipo di arma. L’Unhr fa notare che «La stima di 306.887 significa che in media, ogni singolo giorno, negli ultimi 10 anni, 83 civili hanno subito morti violente a causa del conflitto».
Il rapporto rileva che «L’entità delle vittime civili negli ultimi 10 anni rappresenta uno sbalorditivo 1,5% della popolazione totale della Repubblica araba siriana all’inizio del conflitto, sollevando serie preoccupazioni per il fallimento delle parti in conflitto nel rispettare le norme del diritto internazionale umanitario sulla protezione dei civili».
Questo terrificante lavoro statistico si basa sugli sforzi precedenti per valutare le morti legate ai conflitti diretti. Nel 2013 e nel 2014, l’Unhr ha commissionato tre analisi statistiche sugli omicidi documentati in Siria, ma questo lavoro è stato interrotto perché la situazione nel Paese è diventata sempre più complessa e pericolosa, compromettendo la capacità dell’Ufficio Unhr di mantenere gli standard di qualità e verifica richiesti. Nel 2019 l’Ufficio ha ripreso la raccolta di informazioni e l’analisi sulle vittime, compresa la Siria, nella sua relazione globale sull’indicatore degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu sulle morti legate ai conflitti.
Il rapporto illustra i problemi per la registrazione delle vittime durante una guerra: «Laddove gli attori della società civile intraprendono la registrazione delle vittime, gli sforzi… possono mettere a rischio gli stessi registratori. Inoltre, devono affrontare molteplici sfide nei loro sforzi di documentazione, incluso il collasso delle loro solite reti di informazioni quando le persone sono in movimento, sfollate o in aree in cui vi è una chiusura generale delle informazioni; il limitato o il mancato accesso a dati mobili, Internet ed elettricità per raccogliere e trasmettere informazioni; limitazioni ai loro movimenti; e sorveglianza». Nonostante queste difficolta, «Da oltre un decennio c’è stato un lavoro coerente e sistematico nella documentazione delle vittime sul campo. I dati utilizzati per il rapporto si basano sul lavoro coraggioso di tali individui e gruppi».
Per produrre la relazione, l’Ufficio Unhr ha utilizzato 8 fonti di informazione: Damascus Center for Human Rights Studies; Center for Statistics and Research–Syria; Syrian Network for Human Rights; Syrian Observatory for Human Rights; Violations Documentation Center; Syria Shuhada; Governo siriano; dati dello stesso UN Human Rights Office. E il rapporto sottolinea che «Il lavoro svolto dai registratori di scontri nel documentare informazioni verificabili individualmente su ogni scontro è fondamentale. Il processo è incentrato sulla vittima, mettendo al centro gli individui, le loro famiglie e le comunità, assicurando che le persone uccise non vengano dimenticate e che le informazioni siano disponibili per i processi relativi alla responsabilità e per accedere a una serie di diritti umani. Fino alla fine del conflitto, persiste il rischio di morte di civili. E’ quindi fondamentale che tutti gli Stati, le Nazioni Unite e la società civile utilizzino tutti i mezzi disponibili per porre fine al conflitto e sostenere una transizione verso la pace».
Il rapporto è datato giugno 2022. D’allora la situazione è ulteriormente peggiorata. Ma per la Lega Araba tutto questo non conta. Porte aperte al “macellaio di Damasco”.