Dopo 86 giorni di sciopero della fame lasciato morire in un carcere israeliano: chi è il terrorista?
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Dopo 86 giorni di sciopero della fame lasciato morire in un carcere israeliano: chi è il terrorista?

Un leader della Jihad islamica palestinese, Khader Adnan, è morto questa mattina nel carcere di Nitzan, nella città di Ramle in Israele, dove era detenuto e dove 86 giorni fa aveva iniziato lo sciopero della fame.

Dopo 86 giorni di sciopero della fame lasciato morire in un carcere israeliano: chi è il terrorista?
Khader Adnan leader della jihad islamica palestinese
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

2 Maggio 2023 - 14.33


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E’ morto dopo 86 giorni di sciopero della fame. In un carcere di massima sicurezza israeliano. E’ stato lasciato morire nonostante le autorità israeliane erano state messe in guardia sul rischio imminente di vita. 

Lasciato morire

Un leader della Jihad islamica palestinese, Khader Adnan, è morto questa mattina nel carcere di Nitzan, nella città di Ramle in Israele, dove era detenuto e dove 86 giorni fa aveva iniziato lo sciopero della fame. Come spiega il Servizio penitenziario israeliano, Adnan è stato trovato nella sua cella privo di sensi dopo aver rifiutato l’assistenza medica durante lo sciopero della fame. Adnan, che aveva 44 anni, è stato quindi trasferito all’Assaf Harofeh Hospital dove è stato constatato il decesso. Adnan era stato arrestato lo scorso febbraio con l’accusa di far parte di una organizzazione terroristica e di incitamento. Ieri il Palestinian Prisoners Club aveva messo in guardia sulle salute di Adnan affermando che avrebbe potuto morire in qualsiasi momento. La Jihad islamica aveva minacciato una dura rappresaglia se questo fosse accaduto. Adnan era già stato in carcere per otto anni come membro della Jihad Islamica palestinese. Alla notizia della morte di Adnan, la Jihad islamica ha lanciato tre razzi verso il sud di Israele. Subito dopo l’annuncio, le sirene sono suonate vicino al Kibbutz di Sa’ad. Le forze di difesa israeliane hanno riferito di tre razzi lanciati dalla Striscia di Gaza e atterrati in aree aperte, senza causare danni o feriti. Israele ”pagherà il prezzo della morte” di Adnan, l’avvertimento lanciato dalla Jihad Islamica, che ha rivolto un appello per uno sciopero generale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. “La sua morte rappresenterà una lezione per varie generazioni, non abbandoneremo questo impegno finché la Palestina rimarrà sotto occupazione”, ha detto il gruppo islamico palestinese in una nota. Israele ha ”la piena responsabilità della morte di Khader Adnan”. Così il portavoce di Hamas Hazem Kassem ha messo in guardia da una prossima escalation. ”E’ stata una esecuzione a sangue freddo commessa dai servizi di sicurezza israeliani”, ha detto Kassem. ”Il popolo palestinese non lascerà passare questo crimine sotto silenzio e risponderà in modo adeguato. Il cammino della rivoluzione e della resistenza si intensificherà”, ha avvertito. Kassem ha anche punto il dito contro la comunità internazionale, affermando che “sta a guardare e non sostiene i prigionieri palestinesi, incoraggiando così l’occupazione a continuare i suoi crimini”.

L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto che venga aperta una inchiesta internazionale. Si tratta di ”un omicidio volontario”, ha affermato il primo ministro dell’Anp Mohammad Shtayyeh, annunciando che avrebbe presentato una denuncia alla Corte penale internazionale (Cpi).

Un popolo imprigionato

Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 % del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

Le autorità israeliane devono essere chiamate a rendere conto del crimine di apartheid contro i palestinesi. È quanto ha dichiarato Amnesty International in un rapporto di 278 pagine nel quale descrive dettagliatamente il sistema di oppressione e dominazione di Israele nei confronti della popolazione palestinese, ovunque eserciti controllo sui loro diritti: i palestinesi residenti in Israele, quelli dei Territori palestinesi occupati e i rifugiati che vivono in altri stati.

Nel rapporto si legge che le massicce requisizioni di terre e proprietà, le uccisioni illegali, i trasferimenti forzati, le drastiche limitazioni al movimento e il diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi fanno parte di un sistema che, secondo il diritto internazionale, costituisce apartheid. Questo sistema si basa su violazioni dei diritti umani che, secondo Amnesty International, qualificano l’apartheid come crimine contro l’umanità così come definito dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e dalla Convenzione sull’apartheid.

Amnesty International chiede al Tribunale penale internazionale di includere il crimine di apartheid nella sua indagine riguardante i Territori palestinesi occupati e a tutti gli stati di esercitare la giurisdizione universale per portare di fronte alla giustizia i responsabili del crimine di apartheid.

“Il nostro rapporto rivela la reale dimensione del regime di apartheid di Israele. Che vivano a Gaza, a Gerusalemme Est, a Hebron o in Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti. Abbiamo riscontrato che le crudeli politiche delle autorità israeliane di segregazione, spossessamento ed esclusione in tutti i territori sotto il loro controllo costituiscono chiaramente apartheid. La comunità internazionale ha l’obbligo di agire”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

“Non è possibile giustificare in alcun modo un sistema edificato sull’oppressione razzista, istituzionalizzata e prolungata, di milioni di persone. L’apartheid non ha posto nel nostro mondo e gli stati che scelgono di essere indulgenti verso Israele si troveranno a loro volta dal lato sbagliato della storia. I governi che continuano a fornire armi a Israele e lo proteggono dai meccanismi di accertamento delle responsabilità delle Nazioni Unite stanno sostenendo un sistema di apartheid, compromettendo l’ordine giuridico internazionale ed esacerbando la sofferenza della popolazione palestinese. La comunità internazionale deve affrontare la realtà dell’apartheid israeliano e dare seguito alle molte opportunità di cercare giustizia che rimangono vergognosamente inesplorate, ha aggiunto Callamard.

Le conclusioni di Amnesty International sono rafforzate da un crescente lavoro di organizzazioni non governative palestinesi, israeliane e internazionali che sempre più spesso applicano la definizione di apartheid alla situazione in Israele e/o nei Territori palestinesi occupati. 

Una donna coraggiosa

Che non si fa intimidire da accuse pretestuose e infamanti orchestrate contro di lei e il suo operato. E’ Francesca Albanese, Special Rapporteur dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori occupati. Albanese è anche Research Fellow all’International Institute of Social Studies of Erasmus University Rotterdam.  Delle tematiche che sono al centro delle documentate denunce della Special Rapporteur dell’Onu, non c’è traccia alcuna nelle parole del ministro degli Esteri Antonio Tajani nella sua recente missione in Israele e a Ramallah. Per il titolare della Farnesina la tragedia palestinese semplicemente non esiste. se non in termini di generica riproposizione di un indefinibile impegno per rilanciare un  inesistente processo di pace, o, comunque, non è tale da poter perturbare il “roseo” futuro nelle relazioni Italia-Israele.

Di seguito riportiamo una intervista che Francesca Albanese ha concesso a chi scrive.

Come definirebbe oggi la situazione nei Territori palestinesi. Da più parti, e non solo quella palestinese, si denuncia il regime di apartheid che Israele avrebbe instaurato.

La situazione nel territorio palestinese – invito a usare il singolare per preservare l’importanza dell’unità territoriale della Palestina, o ciò che ne resta – è estremamente complessa, volatile e violenta. È il frutto dell’incancrenirsi di un’occupazione che da quasi 56 anni opprime un intero popolo con mezzi sempre più sofisticati, in violazione dei trattati internazionali e nell’impunità più totale. A Gaza, due milioni di persone vivono sotto assedio e spesso sotto attacco militare di Israele. In Cisgiordania, alla presenza dei militari israeliani si aggiunge quella di 750 mila coloni e per garantire la loro sicurezza i diritti fondamentali dei palestinesi sono violati sistematicamente. Gerusalemme è illegalmente considerata ‘annessa’ allo stato di Israele contro la stessa Carta dell’Onu. Le risorse del territorio occupato sono utilizzate a beneficio esclusivo di Israele, non esistono diritti civili e politici perché non c’è attività politica che non sia passata al vaglio o che non venga soppressa da Israele e, spesso, anche dalle autorità palestinesi. Persino esporre in pubblico la bandiera palestinese è proibito perché, nella logica dell’occupante e del colonizzatore, l’identità nazionale palestinese è una minaccia per quella di Israele. Questo regime é incontrovertibilmente apartheid: adesso la comunità internazionale comincia a prenderne consapevolezza, anche se i paesi occidentali fanno fatica anche solo a considerare l’utilizzo del termine nei confronti dello stato di Israele. Eppure non si può chiamare in altro modo il regime di discriminazione istituzionalizzata e violenta che da oltre mezzo secolo Israele mantiene sulla popolazione palestinese sotto occupazione, al fine di sottometterla e depredarla (senza considerare quello che é accaduto alla Palestina dall’epoca del Mandato Britannico e soprattutto dal 1947/9). Io sostengo che il crimine di apartheid costituisca un elemento analitico necessario ma non sufficiente, giacché chiede l’uguaglianza, ma non mette in discussione la mancanza di sovranità di Israele sul territorio che occupa dal 1967. Chiedere uguaglianza tra coloni e palestinesi, tra occupanti e occupati, non ha senso dal punto di vista legale. Il concetto che a mio parere meglio si adatta alla situazione è quello di colonialismo d’insediamento (settler-colonialism). Un termine che descrive il controllo da parte di un popolo su di un altro a mezzo di presenza fisica del colonizzatore, con intento acquisitivo, segregante e repressivo. É quello che è successo in Algeria, in Sudafrica, in Canada, negli Stati Uniti e in Australia, con il trasferimento massiccio di coloni europei e la sottomissione delle popolazioni indigene locali. Ed è quello che sta succedendo in Cisgiordania e a Gerusalemme Est: si cacciano i palestinesi per sostituirli con una minoranza di israeliani, spesso originari dell’America o dell’Europa, che arrivano con la missione ideologico-colonizzatrice di ‘riprendersi la terra che Dio ha promesso loro.’ Anche Gaza rientra in questa logica come riserva, parte del territorio dove ammassare e rinchiudere i nativi sgraditi, invisi al colonizzatore. 

La legalità internazionale s’invera nelle risoluzioni Onu, nel diritto internazionale, nel diritto umanitario, nelle delibere assunte dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, nella Convenzione di Ginevra sulla guerra. Su queste basi, le chiedo: cosa ne è della legalità internazionale in Palestina?

La giustizia in merito alla Palestina è più vicina agli interessi geopolitici degli Stati occidentali, ma questo deve cambiare e bisogna ri-orientarla verso il diritto internazionale. Non può esserci pace senza libertà e pieno godimento dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti e tutte.

Israele e i suoi sostenitori in Italia l’accusano di essere parziale, “filopalestinese”, e di non avere l’equilibro necessario per ricoprire l’importante incarico che assolve. 

Il mio ruolo mi impone di condurre inchieste in modo imparziale ed indipendente, e di relazionare in modo onesto e trasparente sul contenuto delle mie osservazioni alla luce del diritto internazionale; ed è quello che faccio.  Israele è potenza occupante nel territorio palestinese dal 1967 e opera marcatamente al di fuori di ciò che é permesso dal diritto internazionale. Non è un caso che il mio mandato, creato nel 1993, mi obblighi a relazionare sulle violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Ciò nonostante, io ho chiarito dal principio del mio mandato che intendo esaminare le violazioni commesse da chiunque nel territorio palestinese occupato, incluso le autorità palestinesi. La questione della mia presunta parzialità ha altra matrice…

Leggi anche:  Israele ha il suo ministro dell'apartheid: si chiama Israel Katz

Quale?

Le campagne diffamatorie contro il mio mandato sono solo l’esempio più recente di una campagna globale guidata da Israele e dai suoi sostenitori, con l’obiettivo di distrarre la comunità internazionale dai potenziali crimini di guerra e crimini contro l’umanità che Israele commette ogni giorno e per cui è sotto inchiesta dalla Corte Penale Internazionale. Citando il mio collega Nils Melzer, il precedente Relatore Speciale sulla tortura, “Se un governo si rifiuta di impegnarsi in un dialogo costruttivo e viola ripetutamente i suoi obblighi in modo grave, allora c’è un punto in cui devo rendermi impopolare e mobilitare il pubblico. Qualsiasi altra cosa mi renderebbe un traditore del mio mandato.”

Nel giustificare le azioni condotte in Cisgiordania e a Gaza, Israele invoca il diritto di difesa dalla minaccia terroristica.

Israele è la potenza occupante – in quanto tale, è ossimorico che invochi il diritto all’autodifesa ‘in bianco’ contro il popolo che sta tenendo sotto occupazione da quasi 56 anni. Vorrei ricordare inoltre che la creazione di gruppi ritenuti terroristici, Hamas in primis, è stata sostenuta da Israele stesso – Hamas, per l’appunto, è stato aiutato a crescere e ad inserirsi nella scena politica palestinese da Israele, per contrastare una forza politica (guidata da forze laiche) in grado di unire tutto il popolo palestinese, volutamente frammentato da Israele. Tale unità rappresentava una minaccia per Israele, che invece ha sempre mirato a rompere e prevenire una simile realtà politica, elemento fondante del diritto all’autodeterminazione. Inoltre, dal 22 Novembre 1967, quando il Consiglio di Sicurezza ha ordinato l’immediato ritiro delle forze di occupazione israeliane dal territorio palestinese, in quanto tale occupazione non ha ragion d’essere. Tale ordine, incessantemente rinnovato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu (ultima risoluzione: 2234 del 2016), viene continuamente ignorato da Israele, che rafforza la sua stretta sul territorio palestinese ostentando, ancora una volta, la lettura apologetica di una guerra difensiva, presupponendo equivalenti interessi, poteri e mezzi da entrambe le parti.

Sul piano umano, cosa l’ha più colpita nell’esperienza che sta conducendo?

Mi colpisce l’ignoranza dei fatti fondanti della questione israelo-palestinese, l’uso arbitrario della legge internazionale – da quest’ultima non sono colpita, ma sbalordita da come gli stati e anche certi funzionari internazionali pensino che il diritto sia sul ‘menù delle opzioni’ o anziché uno strumento essenziale per la risoluzione dei conflitti. E ancora di più, mi colpisce la mancanza di empatia con il popolo palestinese. I palestinesi hanno contro: Israele, USA, i poteri occidentali e la mancanza di solidarietà dei governanti arabi. Sono soli nello scacchiere internazionale in compagnia di un diritto vilipeso per ragioni di geopolitica. Mi colpisce anche la violenza e l’organizzazione capillare di chi cerca di silenziare qualsiasi voce critica solo per “proteggere” Israele dalle condanne che si merita in punto di diritto.  Ma mi colpisce anche la solidarietà di tanti nei confronti del mio mandato e la capacita di essere forza creativa. Io credo nella forza delle leggi e nella potenza della ragione umana.  credo nella solidarietà e spero che tutto questo sinergicamente funzioni prima o poi. 

Questa è l’intervista. Così stanno le cose nella Palestina occupata. 

E’ morto dopo 86 giorni di sciopero della fame. In un carcere di massima sicurezza israeliano. E’ stato lasciato morire nonostante le autorità israeliane erano state messe in guardia sul rischio imminente di vita. 

Lasciato morire

Un leader della Jihad islamica palestinese, Khader Adnan, è morto questa mattina nel carcere di Nitzan, nella città di Ramle in Israele, dove era detenuto e dove 86 giorni fa aveva iniziato lo sciopero della fame. Come spiega il Servizio penitenziario israeliano, Adnan è stato trovato nella sua cella privo di sensi dopo aver rifiutato l’assistenza medica durante lo sciopero della fame. Adnan, che aveva 44 anni, è stato quindi trasferito all’Assaf Harofeh Hospital dove è stato constatato il decesso. Adnan era stato arrestato lo scorso febbraio con l’accusa di far parte di una organizzazione terroristica e di incitamento. Ieri il Palestinian Prisoners Club aveva messo in guardia sulle salute di Adnan affermando che avrebbe potuto morire in qualsiasi momento. La Jihad islamica aveva minacciato una dura rappresaglia se questo fosse accaduto. Adnan era già stato in carcere per otto anni come membro della Jihad Islamica palestinese. Alla notizia della morte di Adnan, la Jihad islamica ha lanciato tre razzi verso il sud di Israele. Subito dopo l’annuncio, le sirene sono suonate vicino al Kibbutz di Sa’ad. Le forze di difesa israeliane hanno riferito di tre razzi lanciati dalla Striscia di Gaza e atterrati in aree aperte, senza causare danni o feriti. Israele ”pagherà il prezzo della morte” di Adnan, l’avvertimento lanciato dalla Jihad Islamica, che ha rivolto un appello per uno sciopero generale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. “La sua morte rappresenterà una lezione per varie generazioni, non abbandoneremo questo impegno finché la Palestina rimarrà sotto occupazione”, ha detto il gruppo islamico palestinese in una nota. Israele ha ”la piena responsabilità della morte di Khader Adnan”. Così il portavoce di Hamas Hazem Kassem ha messo in guardia da una prossima escalation. ”E’ stata una esecuzione a sangue freddo commessa dai servizi di sicurezza israeliani”, ha detto Kassem. ”Il popolo palestinese non lascerà passare questo crimine sotto silenzio e risponderà in modo adeguato. Il cammino della rivoluzione e della resistenza si intensificherà”, ha avvertito. Kassem ha anche punto il dito contro la comunità internazionale, affermando che “sta a guardare e non sostiene i prigionieri palestinesi, incoraggiando così l’occupazione a continuare i suoi crimini”.

L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto che venga aperta una inchiesta internazionale. Si tratta di ”un omicidio volontario”, ha affermato il primo ministro dell’Anp Mohammad Shtayyeh, annunciando che avrebbe presentato una denuncia alla Corte penale internazionale (Cpi).

Un popolo imprigionato

Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 % del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

Le autorità israeliane devono essere chiamate a rendere conto del crimine di apartheid contro i palestinesi. È quanto ha dichiarato Amnesty International in un rapporto di 278 pagine nel quale descrive dettagliatamente il sistema di oppressione e dominazione di Israele nei confronti della popolazione palestinese, ovunque eserciti controllo sui loro diritti: i palestinesi residenti in Israele, quelli dei Territori palestinesi occupati e i rifugiati che vivono in altri stati.

Nel rapporto si legge che le massicce requisizioni di terre e proprietà, le uccisioni illegali, i trasferimenti forzati, le drastiche limitazioni al movimento e il diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi fanno parte di un sistema che, secondo il diritto internazionale, costituisce apartheid. Questo sistema si basa su violazioni dei diritti umani che, secondo Amnesty International, qualificano l’apartheid come crimine contro l’umanità così come definito dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e dalla Convenzione sull’apartheid.

Amnesty International chiede al Tribunale penale internazionale di includere il crimine di apartheid nella sua indagine riguardante i Territori palestinesi occupati e a tutti gli stati di esercitare la giurisdizione universale per portare di fronte alla giustizia i responsabili del crimine di apartheid.

“Il nostro rapporto rivela la reale dimensione del regime di apartheid di Israele. Che vivano a Gaza, a Gerusalemme Est, a Hebron o in Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti. Abbiamo riscontrato che le crudeli politiche delle autorità israeliane di segregazione, spossessamento ed esclusione in tutti i territori sotto il loro controllo costituiscono chiaramente apartheid. La comunità internazionale ha l’obbligo di agire”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

“Non è possibile giustificare in alcun modo un sistema edificato sull’oppressione razzista, istituzionalizzata e prolungata, di milioni di persone. L’apartheid non ha posto nel nostro mondo e gli stati che scelgono di essere indulgenti verso Israele si troveranno a loro volta dal lato sbagliato della storia. I governi che continuano a fornire armi a Israele e lo proteggono dai meccanismi di accertamento delle responsabilità delle Nazioni Unite stanno sostenendo un sistema di apartheid, compromettendo l’ordine giuridico internazionale ed esacerbando la sofferenza della popolazione palestinese. La comunità internazionale deve affrontare la realtà dell’apartheid israeliano e dare seguito alle molte opportunità di cercare giustizia che rimangono vergognosamente inesplorate, ha aggiunto Callamard.

Le conclusioni di Amnesty International sono rafforzate da un crescente lavoro di organizzazioni non governative palestinesi, israeliane e internazionali che sempre più spesso applicano la definizione di apartheid alla situazione in Israele e/o nei Territori palestinesi occupati. 

Una donna coraggiosa

Che non si fa intimidire da accuse pretestuose e infamanti orchestrate contro di lei e il suo operato. E’ Francesca Albanese, Special Rapporteur dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori occupati. Albanese è anche Research Fellow all’International Institute of Social Studies of Erasmus University Rotterdam.  Delle tematiche che sono al centro delle documentate denunce della Special Rapporteur dell’Onu, non c’è traccia alcuna nelle parole del ministro degli Esteri Antonio Tajani nella sua recente missione in Israele e a Ramallah. Per il titolare della Farnesina la tragedia palestinese semplicemente non esiste. se non in termini di generica riproposizione di un indefinibile impegno per rilanciare un  inesistente processo di pace, o, comunque, non è tale da poter perturbare il “roseo” futuro nelle relazioni Italia-Israele.

Di seguito riportiamo una intervista che Francesca Albanese ha concesso a chi scrive.

Come definirebbe oggi la situazione nei Territori palestinesi. Da più parti, e non solo quella palestinese, si denuncia il regime di apartheid che Israele avrebbe instaurato.

La situazione nel territorio palestinese – invito a usare il singolare per preservare l’importanza dell’unità territoriale della Palestina, o ciò che ne resta – è estremamente complessa, volatile e violenta. È il frutto dell’incancrenirsi di un’occupazione che da quasi 56 anni opprime un intero popolo con mezzi sempre più sofisticati, in violazione dei trattati internazionali e nell’impunità più totale. A Gaza, due milioni di persone vivono sotto assedio e spesso sotto attacco militare di Israele. In Cisgiordania, alla presenza dei militari israeliani si aggiunge quella di 750 mila coloni e per garantire la loro sicurezza i diritti fondamentali dei palestinesi sono violati sistematicamente. Gerusalemme è illegalmente considerata ‘annessa’ allo stato di Israele contro la stessa Carta dell’Onu. Le risorse del territorio occupato sono utilizzate a beneficio esclusivo di Israele, non esistono diritti civili e politici perché non c’è attività politica che non sia passata al vaglio o che non venga soppressa da Israele e, spesso, anche dalle autorità palestinesi. Persino esporre in pubblico la bandiera palestinese è proibito perché, nella logica dell’occupante e del colonizzatore, l’identità nazionale palestinese è una minaccia per quella di Israele. Questo regime é incontrovertibilmente apartheid: adesso la comunità internazionale comincia a prenderne consapevolezza, anche se i paesi occidentali fanno fatica anche solo a considerare l’utilizzo del termine nei confronti dello stato di Israele. Eppure non si può chiamare in altro modo il regime di discriminazione istituzionalizzata e violenta che da oltre mezzo secolo Israele mantiene sulla popolazione palestinese sotto occupazione, al fine di sottometterla e depredarla (senza considerare quello che é accaduto alla Palestina dall’epoca del Mandato Britannico e soprattutto dal 1947/9). Io sostengo che il crimine di apartheid costituisca un elemento analitico necessario ma non sufficiente, giacché chiede l’uguaglianza, ma non mette in discussione la mancanza di sovranità di Israele sul territorio che occupa dal 1967. Chiedere uguaglianza tra coloni e palestinesi, tra occupanti e occupati, non ha senso dal punto di vista legale. Il concetto che a mio parere meglio si adatta alla situazione è quello di colonialismo d’insediamento (settler-colonialism). Un termine che descrive il controllo da parte di un popolo su di un altro a mezzo di presenza fisica del colonizzatore, con intento acquisitivo, segregante e repressivo. É quello che è successo in Algeria, in Sudafrica, in Canada, negli Stati Uniti e in Australia, con il trasferimento massiccio di coloni europei e la sottomissione delle popolazioni indigene locali. Ed è quello che sta succedendo in Cisgiordania e a Gerusalemme Est: si cacciano i palestinesi per sostituirli con una minoranza di israeliani, spesso originari dell’America o dell’Europa, che arrivano con la missione ideologico-colonizzatrice di ‘riprendersi la terra che Dio ha promesso loro.’ Anche Gaza rientra in questa logica come riserva, parte del territorio dove ammassare e rinchiudere i nativi sgraditi, invisi al colonizzatore. 

Leggi anche:  Quando l'opposizione sostiene la guerra, Israele non ha alternative a Netanyahu

La legalità internazionale s’invera nelle risoluzioni Onu, nel diritto internazionale, nel diritto umanitario, nelle delibere assunte dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, nella Convenzione di Ginevra sulla guerra. Su queste basi, le chiedo: cosa ne è della legalità internazionale in Palestina?

La giustizia in merito alla Palestina è più vicina agli interessi geopolitici degli Stati occidentali, ma questo deve cambiare e bisogna ri-orientarla verso il diritto internazionale. Non può esserci pace senza libertà e pieno godimento dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti e tutte.

Israele e i suoi sostenitori in Italia l’accusano di essere parziale, “filopalestinese”, e di non avere l’equilibro necessario per ricoprire l’importante incarico che assolve. 

Il mio ruolo mi impone di condurre inchieste in modo imparziale ed indipendente, e di relazionare in modo onesto e trasparente sul contenuto delle mie osservazioni alla luce del diritto internazionale; ed è quello che faccio.  Israele è potenza occupante nel territorio palestinese dal 1967 e opera marcatamente al di fuori di ciò che é permesso dal diritto internazionale. Non è un caso che il mio mandato, creato nel 1993, mi obblighi a relazionare sulle violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Ciò nonostante, io ho chiarito dal principio del mio mandato che intendo esaminare le violazioni commesse da chiunque nel territorio palestinese occupato, incluso le autorità palestinesi. La questione della mia presunta parzialità ha altra matrice…

Quale?

Le campagne diffamatorie contro il mio mandato sono solo l’esempio più recente di una campagna globale guidata da Israele e dai suoi sostenitori, con l’obiettivo di distrarre la comunità internazionale dai potenziali crimini di guerra e crimini contro l’umanità che Israele commette ogni giorno e per cui è sotto inchiesta dalla Corte Penale Internazionale. Citando il mio collega Nils Melzer, il precedente Relatore Speciale sulla tortura, “Se un governo si rifiuta di impegnarsi in un dialogo costruttivo e viola ripetutamente i suoi obblighi in modo grave, allora c’è un punto in cui devo rendermi impopolare e mobilitare il pubblico. Qualsiasi altra cosa mi renderebbe un traditore del mio mandato.”

Nel giustificare le azioni condotte in Cisgiordania e a Gaza, Israele invoca il diritto di difesa dalla minaccia terroristica.

Israele è la potenza occupante – in quanto tale, è ossimorico che invochi il diritto all’autodifesa ‘in bianco’ contro il popolo che sta tenendo sotto occupazione da quasi 56 anni. Vorrei ricordare inoltre che la creazione di gruppi ritenuti terroristici, Hamas in primis, è stata sostenuta da Israele stesso – Hamas, per l’appunto, è stato aiutato a crescere e ad inserirsi nella scena politica palestinese da Israele, per contrastare una forza politica (guidata da forze laiche) in grado di unire tutto il popolo palestinese, volutamente frammentato da Israele. Tale unità rappresentava una minaccia per Israele, che invece ha sempre mirato a rompere e prevenire una simile realtà politica, elemento fondante del diritto all’autodeterminazione. Inoltre, dal 22 Novembre 1967, quando il Consiglio di Sicurezza ha ordinato l’immediato ritiro delle forze di occupazione israeliane dal territorio palestinese, in quanto tale occupazione non ha ragion d’essere. Tale ordine, incessantemente rinnovato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu (ultima risoluzione: 2234 del 2016), viene continuamente ignorato da Israele, che rafforza la sua stretta sul territorio palestinese ostentando, ancora una volta, la lettura apologetica di una guerra difensiva, presupponendo equivalenti interessi, poteri e mezzi da entrambe le parti.

Sul piano umano, cosa l’ha più colpita nell’esperienza che sta conducendo?

Mi colpisce l’ignoranza dei fatti fondanti della questione israelo-palestinese, l’uso arbitrario della legge internazionale – da quest’ultima non sono colpita, ma sbalordita da come gli stati e anche certi funzionari internazionali pensino che il diritto sia sul ‘menù delle opzioni’ o anziché uno strumento essenziale per la risoluzione dei conflitti. E ancora di più, mi colpisce la mancanza di empatia con il popolo palestinese. I palestinesi hanno contro: Israele, USA, i poteri occidentali e la mancanza di solidarietà dei governanti arabi. Sono soli nello scacchiere internazionale in compagnia di un diritto vilipeso per ragioni di geopolitica. Mi colpisce anche la violenza e l’organizzazione capillare di chi cerca di silenziare qualsiasi voce critica solo per “proteggere” Israele dalle condanne che si merita in punto di diritto.  Ma mi colpisce anche la solidarietà di tanti nei confronti del mio mandato e la capacita di essere forza creativa. Io credo nella forza delle leggi e nella potenza della ragione umana.  credo nella solidarietà e spero che tutto questo sinergicamente funzioni prima o poi. 

Questa è l’intervista. Così stanno le cose nella Palestina occupata. 

E’ morto dopo 86 giorni di sciopero della fame. In un carcere di massima sicurezza israeliano. E’ stato lasciato morire nonostante le autorità israeliane erano state messe in guardia sul rischio imminente di vita. 

Lasciato morire

Un leader della Jihad islamica palestinese, Khader Adnan, è morto questa mattina nel carcere di Nitzan, nella città di Ramle in Israele, dove era detenuto e dove 86 giorni fa aveva iniziato lo sciopero della fame. Come spiega il Servizio penitenziario israeliano, Adnan è stato trovato nella sua cella privo di sensi dopo aver rifiutato l’assistenza medica durante lo sciopero della fame. Adnan, che aveva 44 anni, è stato quindi trasferito all’Assaf Harofeh Hospital dove è stato constatato il decesso. Adnan era stato arrestato lo scorso febbraio con l’accusa di far parte di una organizzazione terroristica e di incitamento. Ieri il Palestinian Prisoners Club aveva messo in guardia sulle salute di Adnan affermando che avrebbe potuto morire in qualsiasi momento. La Jihad islamica aveva minacciato una dura rappresaglia se questo fosse accaduto. Adnan era già stato in carcere per otto anni come membro della Jihad Islamica palestinese. Alla notizia della morte di Adnan, la Jihad islamica ha lanciato tre razzi verso il sud di Israele. Subito dopo l’annuncio, le sirene sono suonate vicino al Kibbutz di Sa’ad. Le forze di difesa israeliane hanno riferito di tre razzi lanciati dalla Striscia di Gaza e atterrati in aree aperte, senza causare danni o feriti. Israele ”pagherà il prezzo della morte” di Adnan, l’avvertimento lanciato dalla Jihad Islamica, che ha rivolto un appello per uno sciopero generale in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. “La sua morte rappresenterà una lezione per varie generazioni, non abbandoneremo questo impegno finché la Palestina rimarrà sotto occupazione”, ha detto il gruppo islamico palestinese in una nota. Israele ha ”la piena responsabilità della morte di Khader Adnan”. Così il portavoce di Hamas Hazem Kassem ha messo in guardia da una prossima escalation. ”E’ stata una esecuzione a sangue freddo commessa dai servizi di sicurezza israeliani”, ha detto Kassem. ”Il popolo palestinese non lascerà passare questo crimine sotto silenzio e risponderà in modo adeguato. Il cammino della rivoluzione e della resistenza si intensificherà”, ha avvertito. Kassem ha anche punto il dito contro la comunità internazionale, affermando che “sta a guardare e non sostiene i prigionieri palestinesi, incoraggiando così l’occupazione a continuare i suoi crimini”.

L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto che venga aperta una inchiesta internazionale. Si tratta di ”un omicidio volontario”, ha affermato il primo ministro dell’Anp Mohammad Shtayyeh, annunciando che avrebbe presentato una denuncia alla Corte penale internazionale (Cpi).

Un popolo imprigionato

Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 % del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

Le autorità israeliane devono essere chiamate a rendere conto del crimine di apartheid contro i palestinesi. È quanto ha dichiarato Amnesty International in un rapporto di 278 pagine nel quale descrive dettagliatamente il sistema di oppressione e dominazione di Israele nei confronti della popolazione palestinese, ovunque eserciti controllo sui loro diritti: i palestinesi residenti in Israele, quelli dei Territori palestinesi occupati e i rifugiati che vivono in altri stati.

Nel rapporto si legge che le massicce requisizioni di terre e proprietà, le uccisioni illegali, i trasferimenti forzati, le drastiche limitazioni al movimento e il diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi fanno parte di un sistema che, secondo il diritto internazionale, costituisce apartheid. Questo sistema si basa su violazioni dei diritti umani che, secondo Amnesty International, qualificano l’apartheid come crimine contro l’umanità così come definito dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e dalla Convenzione sull’apartheid.

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Amnesty International chiede al Tribunale penale internazionale di includere il crimine di apartheid nella sua indagine riguardante i Territori palestinesi occupati e a tutti gli stati di esercitare la giurisdizione universale per portare di fronte alla giustizia i responsabili del crimine di apartheid.

“Il nostro rapporto rivela la reale dimensione del regime di apartheid di Israele. Che vivano a Gaza, a Gerusalemme Est, a Hebron o in Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti. Abbiamo riscontrato che le crudeli politiche delle autorità israeliane di segregazione, spossessamento ed esclusione in tutti i territori sotto il loro controllo costituiscono chiaramente apartheid. La comunità internazionale ha l’obbligo di agire”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

“Non è possibile giustificare in alcun modo un sistema edificato sull’oppressione razzista, istituzionalizzata e prolungata, di milioni di persone. L’apartheid non ha posto nel nostro mondo e gli stati che scelgono di essere indulgenti verso Israele si troveranno a loro volta dal lato sbagliato della storia. I governi che continuano a fornire armi a Israele e lo proteggono dai meccanismi di accertamento delle responsabilità delle Nazioni Unite stanno sostenendo un sistema di apartheid, compromettendo l’ordine giuridico internazionale ed esacerbando la sofferenza della popolazione palestinese. La comunità internazionale deve affrontare la realtà dell’apartheid israeliano e dare seguito alle molte opportunità di cercare giustizia che rimangono vergognosamente inesplorate, ha aggiunto Callamard.

Le conclusioni di Amnesty International sono rafforzate da un crescente lavoro di organizzazioni non governative palestinesi, israeliane e internazionali che sempre più spesso applicano la definizione di apartheid alla situazione in Israele e/o nei Territori palestinesi occupati. 

Una donna coraggiosa

Che non si fa intimidire da accuse pretestuose e infamanti orchestrate contro di lei e il suo operato. E’ Francesca Albanese, Special Rapporteur dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori occupati. Albanese è anche Research Fellow all’International Institute of Social Studies of Erasmus University Rotterdam.  Delle tematiche che sono al centro delle documentate denunce della Special Rapporteur dell’Onu, non c’è traccia alcuna nelle parole del ministro degli Esteri Antonio Tajani nella sua recente missione in Israele e a Ramallah. Per il titolare della Farnesina la tragedia palestinese semplicemente non esiste. se non in termini di generica riproposizione di un indefinibile impegno per rilanciare un  inesistente processo di pace, o, comunque, non è tale da poter perturbare il “roseo” futuro nelle relazioni Italia-Israele.

Di seguito riportiamo una intervista che Francesca Albanese ha concesso a chi scrive.

Come definirebbe oggi la situazione nei Territori palestinesi. Da più parti, e non solo quella palestinese, si denuncia il regime di apartheid che Israele avrebbe instaurato.

La situazione nel territorio palestinese – invito a usare il singolare per preservare l’importanza dell’unità territoriale della Palestina, o ciò che ne resta – è estremamente complessa, volatile e violenta. È il frutto dell’incancrenirsi di un’occupazione che da quasi 56 anni opprime un intero popolo con mezzi sempre più sofisticati, in violazione dei trattati internazionali e nell’impunità più totale. A Gaza, due milioni di persone vivono sotto assedio e spesso sotto attacco militare di Israele. In Cisgiordania, alla presenza dei militari israeliani si aggiunge quella di 750 mila coloni e per garantire la loro sicurezza i diritti fondamentali dei palestinesi sono violati sistematicamente. Gerusalemme è illegalmente considerata ‘annessa’ allo stato di Israele contro la stessa Carta dell’Onu. Le risorse del territorio occupato sono utilizzate a beneficio esclusivo di Israele, non esistono diritti civili e politici perché non c’è attività politica che non sia passata al vaglio o che non venga soppressa da Israele e, spesso, anche dalle autorità palestinesi. Persino esporre in pubblico la bandiera palestinese è proibito perché, nella logica dell’occupante e del colonizzatore, l’identità nazionale palestinese è una minaccia per quella di Israele. Questo regime é incontrovertibilmente apartheid: adesso la comunità internazionale comincia a prenderne consapevolezza, anche se i paesi occidentali fanno fatica anche solo a considerare l’utilizzo del termine nei confronti dello stato di Israele. Eppure non si può chiamare in altro modo il regime di discriminazione istituzionalizzata e violenta che da oltre mezzo secolo Israele mantiene sulla popolazione palestinese sotto occupazione, al fine di sottometterla e depredarla (senza considerare quello che é accaduto alla Palestina dall’epoca del Mandato Britannico e soprattutto dal 1947/9). Io sostengo che il crimine di apartheid costituisca un elemento analitico necessario ma non sufficiente, giacché chiede l’uguaglianza, ma non mette in discussione la mancanza di sovranità di Israele sul territorio che occupa dal 1967. Chiedere uguaglianza tra coloni e palestinesi, tra occupanti e occupati, non ha senso dal punto di vista legale. Il concetto che a mio parere meglio si adatta alla situazione è quello di colonialismo d’insediamento (settler-colonialism). Un termine che descrive il controllo da parte di un popolo su di un altro a mezzo di presenza fisica del colonizzatore, con intento acquisitivo, segregante e repressivo. É quello che è successo in Algeria, in Sudafrica, in Canada, negli Stati Uniti e in Australia, con il trasferimento massiccio di coloni europei e la sottomissione delle popolazioni indigene locali. Ed è quello che sta succedendo in Cisgiordania e a Gerusalemme Est: si cacciano i palestinesi per sostituirli con una minoranza di israeliani, spesso originari dell’America o dell’Europa, che arrivano con la missione ideologico-colonizzatrice di ‘riprendersi la terra che Dio ha promesso loro.’ Anche Gaza rientra in questa logica come riserva, parte del territorio dove ammassare e rinchiudere i nativi sgraditi, invisi al colonizzatore. 

La legalità internazionale s’invera nelle risoluzioni Onu, nel diritto internazionale, nel diritto umanitario, nelle delibere assunte dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, nella Convenzione di Ginevra sulla guerra. Su queste basi, le chiedo: cosa ne è della legalità internazionale in Palestina?

La giustizia in merito alla Palestina è più vicina agli interessi geopolitici degli Stati occidentali, ma questo deve cambiare e bisogna ri-orientarla verso il diritto internazionale. Non può esserci pace senza libertà e pieno godimento dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti e tutte.

Israele e i suoi sostenitori in Italia l’accusano di essere parziale, “filopalestinese”, e di non avere l’equilibro necessario per ricoprire l’importante incarico che assolve. 

Il mio ruolo mi impone di condurre inchieste in modo imparziale ed indipendente, e di relazionare in modo onesto e trasparente sul contenuto delle mie osservazioni alla luce del diritto internazionale; ed è quello che faccio.  Israele è potenza occupante nel territorio palestinese dal 1967 e opera marcatamente al di fuori di ciò che é permesso dal diritto internazionale. Non è un caso che il mio mandato, creato nel 1993, mi obblighi a relazionare sulle violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Ciò nonostante, io ho chiarito dal principio del mio mandato che intendo esaminare le violazioni commesse da chiunque nel territorio palestinese occupato, incluso le autorità palestinesi. La questione della mia presunta parzialità ha altra matrice…

Quale?

Le campagne diffamatorie contro il mio mandato sono solo l’esempio più recente di una campagna globale guidata da Israele e dai suoi sostenitori, con l’obiettivo di distrarre la comunità internazionale dai potenziali crimini di guerra e crimini contro l’umanità che Israele commette ogni giorno e per cui è sotto inchiesta dalla Corte Penale Internazionale. Citando il mio collega Nils Melzer, il precedente Relatore Speciale sulla tortura, “Se un governo si rifiuta di impegnarsi in un dialogo costruttivo e viola ripetutamente i suoi obblighi in modo grave, allora c’è un punto in cui devo rendermi impopolare e mobilitare il pubblico. Qualsiasi altra cosa mi renderebbe un traditore del mio mandato.”

Nel giustificare le azioni condotte in Cisgiordania e a Gaza, Israele invoca il diritto di difesa dalla minaccia terroristica.

Israele è la potenza occupante – in quanto tale, è ossimorico che invochi il diritto all’autodifesa ‘in bianco’ contro il popolo che sta tenendo sotto occupazione da quasi 56 anni. Vorrei ricordare inoltre che la creazione di gruppi ritenuti terroristici, Hamas in primis, è stata sostenuta da Israele stesso – Hamas, per l’appunto, è stato aiutato a crescere e ad inserirsi nella scena politica palestinese da Israele, per contrastare una forza politica (guidata da forze laiche) in grado di unire tutto il popolo palestinese, volutamente frammentato da Israele. Tale unità rappresentava una minaccia per Israele, che invece ha sempre mirato a rompere e prevenire una simile realtà politica, elemento fondante del diritto all’autodeterminazione. Inoltre, dal 22 Novembre 1967, quando il Consiglio di Sicurezza ha ordinato l’immediato ritiro delle forze di occupazione israeliane dal territorio palestinese, in quanto tale occupazione non ha ragion d’essere. Tale ordine, incessantemente rinnovato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu (ultima risoluzione: 2234 del 2016), viene continuamente ignorato da Israele, che rafforza la sua stretta sul territorio palestinese ostentando, ancora una volta, la lettura apologetica di una guerra difensiva, presupponendo equivalenti interessi, poteri e mezzi da entrambe le parti.

Sul piano umano, cosa l’ha più colpita nell’esperienza che sta conducendo?

Mi colpisce l’ignoranza dei fatti fondanti della questione israelo-palestinese, l’uso arbitrario della legge internazionale – da quest’ultima non sono colpita, ma sbalordita da come gli stati e anche certi funzionari internazionali pensino che il diritto sia sul ‘menù delle opzioni’ o anziché uno strumento essenziale per la risoluzione dei conflitti. E ancora di più, mi colpisce la mancanza di empatia con il popolo palestinese. I palestinesi hanno contro: Israele, USA, i poteri occidentali e la mancanza di solidarietà dei governanti arabi. Sono soli nello scacchiere internazionale in compagnia di un diritto vilipeso per ragioni di geopolitica. Mi colpisce anche la violenza e l’organizzazione capillare di chi cerca di silenziare qualsiasi voce critica solo per “proteggere” Israele dalle condanne che si merita in punto di diritto.  Ma mi colpisce anche la solidarietà di tanti nei confronti del mio mandato e la capacita di essere forza creativa. Io credo nella forza delle leggi e nella potenza della ragione umana.  credo nella solidarietà e spero che tutto questo sinergicamente funzioni prima o poi. 

Questa è l’intervista. Così stanno le cose nella Palestina occupata. 

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