Dei giornalisti che si occupano in continuità del Mediterraneo, e dei crimini che in esso si consumano, Nello Scavo, inviato di Avvenire, è certamente tra i più preparati, coraggiosi, e documentati.
Quei nomi noti
A confermarlo è l’ultimo articolo sul quotidiano della Cei. Scrive Scavo: “ La mafia dei trafficanti di uomini in Libia ha nomi noti. Molti abitano nei palazzi del potere e sono direttamente coinvolti nel business delle vite umane, associato allo smercio illegale di armi, idrocarburi e droga. Sono loro i datori di lavoro degli “scafisti” ed è a costoro che il segretario generale dell’Onu rivolge i riflettori nel suo ultimo rapporto.
La missione Onu «ha continuato a ricevere segnalazioni di sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie prolungate di libici e non libici nelle carceri e nei centri di detenzione in tutto il Paese» premette Guterres rivolgendosi al Consiglio di sicurezza. Le informazioni e i riscontri arrivano direttamente dalla missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), che «ha continuato a ricevere segnalazioni consistenti di uomini e donne detenuti in tutte le parti della Libia sottoposti a maltrattamenti, violenze sessuali, torture o pratiche sessuali coercitive in cambio di acqua, cibo o beni di prima necessità». Succede nei campi di prigionia statale, dove non solo le donne vengono abusate, spesso per riceverne in cambio un pezzo di pane e poter guadagnare la speranza di un altro giorno di vita senza i morsi della fame. Un orrore tollerato dai partner internazionali della Libia, tra cui Italia, Malta, Unione Europea, Turchia. Un inferno che non risparmia neanche i più piccoli.
La missione Unsmil «ha osservato un preoccupante aumento della detenzione di bambini migranti – si legge -, in violazione degli obblighi del Paese in materia di diritti umani internazionali». Molti dei baby prigionieri «sono stati anche vittime di traffico e abusi» sottolinea Guterres che cita «24 casi verificati di bambini rapiti dal Sudan, dove erano stati registrati come richiedenti asilo e successivamente trafficati in Libia». Il monitoraggio degli operatori Onu in Libia ha accertato che «questi bambini sono stati sottoposti a ulteriori violazioni dei diritti umani in Libia, tra cui il lavoro forzato in strutture militari senza alcun compenso». E non è che il crimine minore: «Al 5 marzo, 60 bambini migranti e rifugiati non accompagnati erano detenuti arbitrariamente nel centro di detenzione di Shari’ al-Zawiya, senza alcuna prospettiva di rilascio». E dove quello che accade è un tabù precluso alle agenzie umanitarie internazionali.
Che i fondi di Italia e Ue per la Libia non finiscano per potenziare i diritti umani, lo dimostra un episodio tra i molti citati nella relazione inviata al Palazzo di Vetro dell’Onu. «Il 31 dicembre, il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale di Kufrah (nel Sud della Libia, ndr) ha espulso più di 400 migranti e richiedenti asilo, tra cui donne e bambini, principalmente provenienti dal Ciad e dal Sudan, la maggior parte dei quali espulsi verso il Sudan». Che non si trattasse di trasferimenti legali lo prova una decisione di Tripoli.
«Alle organizzazioni internazionali non è stato concesso l’accesso alla struttura. Prima dell’espulsione, i detenuti sarebbero stati sottoposti a traffico di esseri umani, torture, violenze sessuali e di genere, estorsioni e avrebbero sofferto di gravi malattie a causa del mancato accesso alle cure mediche di base. La loro espulsione collettiva – ricorda il segretario generale – viola gli obblighi del Paese ai sensi del diritto internazionale, compreso il principio di non respingimento».
Le Nazioni Unite «hanno continuato a ricevere segnalazioni di centinaia di altri migranti e rifugiati detenuti e sottoposti a violazioni dei diritti umani in strutture gestite da gruppi armati» ribadisce Guterres che segnala anche il caso di 6 cristiani copti egiziani liberati dopo essere stati rapiti il 4 febbraio a Zawiyah, dove imperversano le milizie affiliate al clan al-Nasr, il cui personaggio più conosciuto è il comandante della guardia Costiera Abdurahman al-Milad, noto come “Bija”. Il gruppo di cristiani egiziano era stato confinato proprio nel campo di prigionia ufficiale governato dagli uomini del clan.
La connessione tra guardacoste e trafficanti è un dato di fatto su cui lavora da tempo anche la Corte penale internazionale.
All’1 marzo erano già 3.046 le persone, tra cui donne e bambini, intercettate e riportate in Libia. «La maggior parte dei migranti – ribadisce Guterres – è stata successivamente trasferita in centri di detenzione, ai quali le agenzie Onu non hanno accesso regolare». E cosa ci sia da nascondere all’Onu lo sanno tutti”, conclude Scavo.
Divisi su tutto.
Ne dà conto un report di Agenzia Nova: “I libici sono divisi anche sulle festività religiose. E’ scoppiata una disputa, infatti, sull’avvistamento della luna nuova per determinare l’inizio dell’Eid al Fitr, la festa che celebra la fine del mese lunare del Ramadan. L’Autorità generale per l’Awqaf (dell’est) ha annunciato che oggi, venerdì, sarebbe il primo giorno dell’Eid al Fitr. Ma il Dar al Iftaa (autorità dell’ovest) ha smentito l’affermazione dell’est, dichiarando che oggi termina il mese lunare del Ramadan e che solo domani, sabato 22 aprile, sarà il primo giorno dell’Eid. Intanto, il premier del Governo di unità nazionale (Gun), Abdulhamid Dabaiba, basato nella capitale Tripoli, ha pubblicato sul suo profilo Twitter un messaggio in cui si è congratulato per la festività: “Dopo che non è stato possibile vedere la luna dell’Eid, venerdì si completerà il Ramadan”. Al contrario, la Camera dei rappresentanti di Tobruk, nell’est del Paese, ha rilasciato una dichiarazione congratulandosi con i libici per l’inizio del mese di Ramadan “venerdì”, sostenendo così la dichiarazione rilasciata dall’Autorità generale per Awqaf gli affari islamici dell’est”.
Governi contro
Lo dettaglia Violetta Silvestri su Voci globali: “Da circa un anno la Libia è spaccata tra due coalizioni politiche e militari rivali: da una parte il Governo di unità nazionale con sede a Tripoli del premier Dabaiba, riconosciuto dalle Comunità internazionale e appoggiato soprattutto dalla Turchia; dall’altra il Governo di stabilità nazionale guidato dal premier designato Fathi Bashagha, di fatto un esecutivo parallelo basato in Cirenaica, sostenuto inizialmente da Egitto e Russia ma ormai sempre più abbandonato a sé stesso. A detenere il potere nella Libia orientale è infatti il generale Haftar. Per uscire dallo stallo politico, l’inviato dell’Onu Abdoulaye Bathily ha lanciato, il 27 febbraio, un piano per l’istituzione di un nuovo “Comitato di alto livello” che dovrà includere i principali “stakeholder” libici per redigere gli emendamenti costituzionali e le leggi elettorali necessarie per tenere elezioni “libere, inclusive e trasparenti” entro il 2023. Tuttavia, la nuova iniziativa presentata dall’inviato delle Nazioni Unite, accolta con freddezza a Tripoli e a Bengasi, non sembra prendere slancio. Nel Paese vige al momento una stabilità parziale, basata su un implicito accordo “clanico” tra due potenti famiglie: i Dabaiba e gli Haftar al potere rispettivamente a Tripoli (ovest) e a Bengasi (est). Attualmente, confusione politica e frustrazione sociale dominano la scena interna. Il Paese è drammaticamente diviso: da una parte c’è il Primo ministro in carica Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, eletto nel febbraio 2021 a capo del Governo di Unità Nazionale (GNU) e riconosciuto dalle Nazioni Unite. Dall’altra, l’ex ministro dell’Interno Fathi Bashagha eletto Primo ministro dalla Camera dei Rappresentanti (HoR) – l’istituzione libica con sede a Tobruk, che governa la Libia orientale e che ha approvato una mozione di sfiducia contro il Governo di Unità Nazionale – nel febbraio 2022, con l’appoggio dell’esercito nazionale libico e del generale Haftar[…].
Thomas Hill, esperto di Nord Africa per l’Istituto per la Pace negli Stati Uniti, ha osservato: “Il Paese è ormai da quasi 10 anni in questo conflitto violento e sospetto che l’interesse pubblico nel processo democratico stia perdendo, se non l’ha già perso, slancio. Un altro fallimento non fa che aumentare la probabilità che i libici si rassegnino alla convinzione che solo un ‘uomo forte’, capace di imporre la pace attraverso la forza militare, sia la via da seguire. Alcuni esperti di questa area geografica hanno avvertito che “l’ossessione” della comunità internazionale per le elezioni potrebbe essere fuorviante, poiché il voto non risolverà del tutto l’instabilità politica e altri problemi endemici come la corruzione radicata e il malessere economico.
La nazione del Nord Africa si è di fatto trasformata in un pantano politico e ha lasciato la sua popolazione di quasi 7 milioni con poche speranze e in balia di ambizioni di dominio di attori internazionali. Uno stuolo di potenze rivali in lizza per l’influenza all’interno della Libia, tra cui Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti (EAU) e i principali Paesi europei, ha esacerbato l’instabilità ed è servito a prolungare la crisi. Gli Emirati Arabi Uniti e la Russia, per esempio, sostengono l’esercito nazionale libico di Haftar nel conflitto, mentre la Turchia è intervenuta a sostegno del Governo riconosciuto dalle Nazioni Unite.
Mosca ha mantenuto un’impronta militare nella nazione attraverso l’ormai conosciuto gruppo mercenario Wagner. I funzionari occidentali sono preoccupati più che mai oggi – con la guerra in Ucraina in corso – che la potenza russa possa rafforzare la sua influenza libica attraverso un’intrusione non trasparente nelle elezioni del Paese. I timori sono che Mosca agisca senza dare sostegno al piano elettorale mediato dalle Nazioni Unite. Tanto più ora che gli Usa hanno preso di mira l’organizzazione militare Wagner, etichettandola formalmente come “organizzazione criminale transnazionale”e colpendola con sanzioni. […]La minaccia incombente di una recessione potrebbe aggravare le attuali tendenze al ribasso per l’economia. La Libia, insieme a diversi altri Paesi arabi, tra cui Tunisia e Marocco, importano circa il75% del grano dall’Ucraina o dalla Russia e le catene di approvvigionamento interrotte costringono il Governo a pagare di più per fornitori alternativi. Dal momento che lo Stato sovvenziona una parte delle importazioni di grano e imposta i prezzi ufficiali del pane, l’invasione russa dell’Ucraina ha costretto alla chiusura numerosi panifici. Inoltre, se da una parte la Libia può beneficiare dell’aumento dei prezzi del petrolio, dall’altra la prevista recessione e la diminuzione globale della domanda di greggio nei prossimi decenni minacciano la principale fonte di reddito del Paese.
Sullo sfondo c’è infine la tragedia umanitaria che coinvolge i migranti che si trovano in Libia e che da lì spesso tentano di arrivare in Europa e in Italia. Il 27 marzo, nel suo rapporto finale,
la Missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite (FFM) sulla Libia ha espresso profonda preoccupazione per il deterioramento della situazione dei diritti umani, concludendo che vi sono motivi per ritenere che sia stata commessa un’ampia gamma di crimini di guerra e contro l’umanità.
Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha istituito la FFM nel giugno 2020 per indagare sulle violazioni e gli abusi sui migranti dall’inizio del 2016, al fine di prevenire un ulteriore deterioramento della situazione e garantire la responsabilità dei crimini. Da allora, la Missione ha condotto più di 400 interviste e raccolto più di 2.800 informazioni, comprese immagini fotografiche e audiovisive.
“Il mandato della Missione sta terminando quando la situazione dei diritti umani in Libia si sta deteriorando … le riforme legislative, esecutive e del settore della sicurezza necessarie per sostenere lo stato di diritto e unificare il Paese sono lungi dall’essere realizzate”, afferma il rapporto, aggiungendo “in questo contesto polarizzante, i gruppi armati che sono stati implicati in accuse di tortura, detenzione arbitraria, tratta e violenza sessuale rimangono impuniti”.
Inoltre, l’indagine ha provato che le autorità libiche, in particolare nei settori della sicurezza, stanno riducendo i diritti di riunione, associazione, espressione e credo per garantire l’obbedienza e punire le critiche contro le autorità. La tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il traffico di migranti vulnerabili hanno generato anche entrate economiche significative per individui, gruppi e istituzioni statali e hanno incentivato la continuazione delle violazioni.
Ci sono ragionevoli motivi per ritenere anche che i migranti siano stati ridotti in schiavitù in centri di detenzione ufficiali così come in prigioni segrete e che lo stupro sia stato commesso sistematicamente. Il rapporto ha sottolineato inoltre che le donne sono ripetutamente discriminate in Libia e conclude che la loro situazione è notevolmente peggiorata negli ultimi tre anni.
La questione è drammatica e grave e coinvolge purtroppo anche l’UE e la stessa Italia, da tempo nel mirino degli osservatori dei diritti umani a causa del Memorandum d’intesa con la Libia, con il quale il nostro Paese finanza la Guardia costiera libica. In un comunicato del 7 aprile 2023, Human Rights Watch ha espresso sdegno proprio nei confronti dell’Unione Europea che, si legge nella nota, “ha contestato i risultati che criticavano l’UE affermando che la sua cooperazione con la Libia mira a rafforzare la gestione della migrazione e il rispetto dei diritti umani, e ha acconsentito a una risoluzione che ha seppellito qualsiasi rilevante processo di segnalazione di follow-up al rapporto delle Nazioni Unite”.
“L’UE dovrebbe urgentemente cambiare rotta. Dovrebbe approvare e spingere per l’attuazione e per dare un seguito alla raccomandazione del rapporto e quella del capo dei diritti umani delle Nazioni Unite, secondo cui il Consiglio per i diritti umani dovrebbe istituire in una prossima sessione un meccanismo indipendente per monitorare le violazioni dei diritti umani in Libia. L’UE dovrebbe inoltre sospendere la cooperazione con le autorità libiche e attuare una rigorosa due diligence sui diritti umani nei suoi finanziamenti a Paesi terzi fino a quando non smetteranno di inviare persone in luoghi in cui subiscono abusi e condizioni di detenzione disumane”.
Così stanno le cose nello Stato fallito di Libia.