In diplomazia, come peraltro in geopolitica, l’uso dell’aggettivazione va maneggiato con grande cura. Per evitare figuracce e eccessi enfatici. Vale soprattutto quando l’aggettivo utilizzato è “storico”. Accordo “storico”. Visita “storica”. “Storica” apertura con tanto di “storica” stretta di mano. Fatta questa doverosa premessa, maturata in una ormai ultratrentennale frequentazione della politica estera, soprattutto di quella mediorientale, va subito aggiunto che il processo di avvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, l’aggettivo in questione lo merita. Di un working in progress si tratta, le cui conclusioni non sono certamente dietro l’angolo né è certo l’happy end, tuttavia ciò che in queste settimane si è determinato sulla direttrice Teheran-Riyadh-Pechino, è, nel suo divenire, un evento “storico”.
I grandi nemici si riconnettono
Da un lancio Ansa: “Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha ufficialmente invitato il re saudita Salman bin Abd al-Aziz Al Saud a visitare Teheran in seguito all’accordo raggiunto nelle scorse settimane a Pechino con cui i due Paesi hanno ristabilito le relazioni diplomatiche che si erano interrotte nel 2016. Lo ha fatto sapere il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Nasser Kanani, come riporta Tasnim. “Fortunatamente, sono stati fatti passi positivi. I funzionari dei due Paesi hanno accolto molto bene le delegazioni tecniche e le relazioni politiche tra i due Paesi sono state praticamente ristabilite”, ha detto Kanani.
Nell’ambito dell’accordo per la riconciliazione, entro il 9 maggio è prevista la reciproca riapertura delle missioni diplomatiche dei due Paesi, chiuse in seguito alla crisi nel 2016 dopo che un gruppo di fondamentalisti aveva attaccato l’ambasciata saudita a Teheran in risposta all’esecuzione della condanna a morte di un predicatore sciita a Riad. Se in Iran il quadro interno continua a essere caratterizzato da una forte insofferenza socioeconomica, l’annuncio di uno storico accordo con l’Arabia Saudita per la ripresa dei rapporti diplomatici tra i due paesi, raggiunto con la mediazione della Cina, ha permesso all’amministrazione Raisi di ottenere un’importante vittoria politica che, almeno temporaneamente, sposta l’attenzione dalla difficile situazione domestica, dalle crescenti relazioni militari ed economiche con la Russia e dallo stallo nelle negoziazioni per il ritorno all’accordo sul programma nucleare iraniano del 2015.
Visto da Teheran
A darne conto è un dettagliato report dell’Ispi a firma Jacopo Scita
doctoral fellow at the School of Government and International Affairs, Durham University.
Quadro interno
Annota tra l’altro Scita: “Il quadro socioeconomico domestico continua a essere particolarmente problematico, segnalando un’insofferenza generalizzata sull’onda lunga delle proteste iniziate a settembre 2022. Sono altresì evidenti le profonde difficoltà delle autorità della Repubblica islamica a gestire in modo costruttivo il diffuso malcontento popolare e di una situazione macroeconomica fortemente instabile. Tuttavia, come osservato nei mesi precedenti, il regime appare sufficientemente saldo e in grado di controllare, almeno nel breve e medio periodo, le spinte rivoluzionarie popolari facendo ricorso a meccanismi di cooptazione e repressione violenta.
Proprio la repressione brutale delle proteste da parte delle autorità iraniane – si segnalano oltre 20.000 arresti, più di 500 morti, diffusi episodi di tortura, anche su minori, ed esecuzioni capitali[1] – sembra aver ridotto la frequenza e l’estensione delle manifestazioni pubbliche di massa. Ciononostante, lo scontento di un’ampia parte della società iraniana rimane evidente, suggerendo la possibilità che, in un contesto che vede il ricorso sempre più diffuso a forme di disobbedienza civile, l’attuale situazione di stallo possa rapidamente trasformarsi in una nuova escalation. Ciò che continua a emergere chiaramente è la pressoché totale incapacità del sistema politico della Repubblica islamica di rispondere alle istanze di cambiamento richieste da parte della società civile iraniana, guidata dai segmenti più giovani, proponendo riforme che vadano in una direzione liberale e progressista.
Il paese e la comunità internazionale sono stati particolarmente turbati dal misterioso avvelenamento di migliaia di studentesse in 28 province iraniane tra novembre 2022 e marzo 2023.Inizialmente le autorità iraniane hanno tentato di nascondere e sminuire la portata degli avvelenamenti – che per numero e diffusione geografica e temporale appaiono frutto di una strategia deliberata e coordinata – salvo poi, a seguito della crescente pressione delle famiglie coinvolte e dell’opinione pubblica, ammettere pubblicamente gli eventi e aprire un’investigazione ufficiale. Degno di nota è l’intervento sugli eventi dell’ayatollah Ali Khamenei che in un discorso pubblico del 6 marzo ha chiesto la pena di morte per i responsabili degli avvelenamenti. A oggi, tuttavia, la responsabilità non è stata chiarita e la scarsa trasparenza da parte delle autorità iraniane ha portato a nuove manifestazioni di protesta a Teheran, Qom e in altre province del paese.
La grave insofferenza sociale si sovrappone a una situazione economica sempre difficile, principalmente dettata dalla fortissima instabilità del rial. Come osservato da Henry Rome del Washington Institute, la perdita di valore della moneta è stata costante nei primi mesi dell’anno, raggiungendo a fine febbraio la soglia di cambio ufficiale di 600.000 rial per un dollaro. La principale causa di instabilità monetaria è certamente un’inflazione rampante che relativamente ad alcuni beni fondamentali come cibo e bevande supera il 70% su base annua. Sempre Rome, nota che al tasso di cambio ufficiale si affiancano altri tassi stabiliti occasionalmente dal governo iraniano per cercare di gestire temporaneamente le crisi monetarie, con però il risultato di generare ulteriore corruzione in un sistema già ampiamente basato su un’economia informale di cui finiscono per beneficiare soprattutto alcuni potentati politici[6]. Da notare che la notizia dell’accordo tra Iran e Arabia Saudita ha avuto un effetto immediatamente positivo sul valore della moneta iraniana, tornata a 450.000 rial per un dollaro dopo i picchi di fine febbraio.
Relazioni esterne
Nei primi mesi del 2023 la politica estera iraniana ha continuato a muoversi lungo tre direttrici principali. La prima è quella relativa ai negoziati per il ritorno all’accordo sul programma nucleare iraniano siglato nel 2015 (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa); la seconda riguarda i rapporti tra Teheran e i partner orientali, Mosca e Pechino; in ultimo, il dialogo con i paesi del Golfo Persico. Proprio in quest’ultimo ambito si è assistito a uno sviluppo particolarmente significativo. Il 10 marzo, infatti, Iran e Arabia Saudita hanno annunciato a Pechino di aver raggiunto un accordo per il ripristino delle relazioni diplomatiche, interrotte nel 2016 dopo che un gruppo di manifestanti iraniani aveva attaccato l’ambasciata saudita a Teheran a seguito dell’esecuzione in Arabia Saudita di un importante clerico sciita[8]. L’eccezionalità della notizia è stata ulteriormente amplificata dalla presenza della Cina come mediatore e garante dell’accordo, un ruolo nuovo per la Repubblica popolare che ha attirato grande attenzione mediatica.
Premessa necessaria per valutare la portata e i limiti dell’accordo tra Iran e Arabia Saudita è quella di ricostruire la dimensione regionale del processo di negoziazione, parzialmente offuscata dal ruolo cinese emerso esclusivamente nell’ultima fase. Infatti, l’inedito formato di dialogo regionale ha origine a gennaio 2021 nel contesto di un complesso aggiustamento delle relazioni tra l’Iran e i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc) che ha visto, nel corso di due anni, il ripristino dei rapporti diplomatici tra la Repubblica islamica e gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait. Nei due anni precedenti, il ruolo di mediatore tra l’Iran e i paesi del Golfo è stato assunto dall’Oman – attore storicamente impegnato nel mediare tra Teheran e la comunità internazionale – e dall’Iraq che ha ospitato i cinque round negoziali che hanno preceduto la finalizzazione dell’accordo tra Iran e Arabia Saudita. Il risultato finale, dunque, si porta in dote una fondamentale componente intra-regionale che sottolinea un interessante cambio di passo nelle relazioni tra i paesi del Golfo Persico (a tal proposito è corretto menzionare il summit di Al-Ula del gennaio 2021 che ho posto formalmente fine al blocco diplomatico messo in atto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein nei confronti del Qatar).
Visto da Riyadh
A delineare la portata del processo di avvicinamento con il “grande nemico sciita” da parte saudita è Simone Canterini per Tempi: “
Riportare la stabilità nella regione del Medio Oriente e del Golfo, ponendo fine alla guerra in Yemen, scongiurare un attacco contro l’Iran da parte di Stati Uniti e Israele, bilanciare l’influenza delle potenze di Stati Uniti e Cina. Sarebbero queste – rimarca l’autore – le ragioni che hanno spinto l’erede dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman (Mbs), a lavorare intensamente per accelerare il raggiungimento dell’accordo con l’Iran firmato lo scorso 10 marzo a Pechino. La scelta della Cina come mediatore dell’intesa – obbligata per Teheran – ha rappresentato invece per l’Arabia Saudita una uscita dai canoni del passato, confermando la volontà dell’erede al trono di bilanciare la storica dipendenza del regno dagli Stati Uniti e aprendo la strada all’ingresso di Pechino negli affari regionali.
Intervistato da Tempi, Abdolrasool Divsallar, analista e docente dell’Alta scuola di economia e relazioni internazionali dell’Università Cattolica di Milano, sottolinea che le ragioni sul piano geopolitico che hanno spinto l’Arabia Saudita a raggiungere un accordo con l’Iran con la mediazione della Cina sono legate alle conseguenze devastanti di una crisi nella regione derivante da uno scontro tra Teheran e Israele.
Secondo l’analista «in questi anni i sauditi hanno cercato di essere più concentrati sullo sviluppo economico basato sulla Vision 2030, che implica avere una regione caratterizzata da una grande stabilità e quindi non avere problemi con i paesi vicini», evitando dunque che l’ambizioso programma di riforme, simbolo del rinnovamento portato da Mbs, rimanesse solo sulla carta.
È ora di porre fine alla guerra in Yemen
I progetti di transizione energetica che vedono, soprattutto in Europa, la progressiva riduzione degli idrocarburi come risorsa primaria per la produzione di energia, stanno infatti preoccupando l’Arabia Saudita, primo esportatore di petrolio al mondo. Per il regno del Golfo risulta fondamentale completare il processo di trasformazione sociale ed economica in tempi relativamente brevi. In questo contesto, la guerra in Yemen in cui l’Arabia Saudita è impantanata dall’aprile del 2015 contro i ribelli sciiti Houthi, sostenuti e armati dall’Iran, ha rappresentato il principale ostacolo ad investimenti di una certa rilevanza nel paese da parte straniera.
Un accordo con l’Iran, soprattutto di fronte a una guerra che molti in Medio Oriente definiscono un “Vietnam saudita”, era per Riyadh di fatto inevitabile. Secondo fonti del Wall Street Journal, dopo l’accordo di Pechino, l’Iran avrebbe accettato di non inviare più armi alle milizie di ribelli sciiti Houthi in Yemen. È importante ricordare che furono proprio i ribelli sciiti – che dal 2014 controllano la capitale yemenita Sana’a e parte del nord del paese – a rivendicare il devastante attacco che il 14 settembre del 2019 colpì le infrastrutture petrolifere della Saudi Aramco di Abqaiq e Ruwais impiegando droni e missili da crociera di fabbricazione iraniana e cinese”.
Annota in proposito Eleonora Ardemagni, Associate Research Fellow per Nord Africa e Medio Oriente dell’Ispi: “Per l’Arabia Saudita, la politica estera dell’emergenza si compone anche di un’altra parte. È quella delle emergenze generate dagli avvenimenti internazionali odierni: la guerra in Ucraina, il terremoto in Siria, il collasso economico dello Yemen.
Il regno saudita sta infatti moltiplicando la diplomazia umanitaria tramite aiuti e donazioni finanziare. L’obiettivo di fondo è politico: alleviare le difficoltà delle popolazioni -senza dimenticare che proprio in Yemen è in corso dal 2015 un intervento militare a guida saudita- incrementando altresì il soft power di Riyadh nelle crisi più calde (Ucraina-Russia; Yemen) e in contesti problematici per la politica del regno (Siria). Da questi teatri di crisi, in cui l’Iran è direttamente o indirettamente coinvolto, sono arrivati i primi sottili segnali del disgelo fra sauditi e iraniani.
Sono 400 i milioni di dollari promessi dall’Arabia Saudita all’Ucraina nel corso della storica visita del ministro degli esteri Faisal bin Farhan Al Saud a Kiev (26 febbraio): 100 milioni di aiuti più 300 milioni per l’acquisto di derivati del petrolio tramite il Saudi Fund for Development.
Il ministro degli esteri saudita si è poi recato in Russia (9 marzo), dichiarando che Riyadh è pronta a facilitare il dialogo tra Russia e Ucraina, mentre la cooperazione militare fra russi e iraniani si fa più stretta.
Il 22 febbraio, l’Arabia Saudita ha depositato 1 miliardo di dollari presso la Banca centrale di Aden, che non riesce più a pagare gli stipendi pubblici: intanto, proseguono i colloqui diplomatici fra i sauditi e gli houthi yemeniti sostenuti dall’Iran. Il 14 febbraio, dopo il devastante terremoto, l’Arabia Saudita ha poi inviato il primo di una serie di aerei umanitari in Siria, destinazione Aleppo. Non accadeva dal 2012 che i sauditi entrassero nei territori tornati sotto il controllo di Bashar Al-Assad, primo alleato regionale dell’Iran”.