Contestato nelle piazze, abbandonato dagli elettori. “Re Netanyahu” è nudo.
Crollo di popolarità
Il 71 per cento degli israeliani giudica negativamente il comportamento mantenuto dal premier Benjamin Netanyahu nei primi 100 giorni del suo nuovo governo. Il leader crolla nel gradimento anche fra i sostenitori del suo partito Likud, dove il 48% ha nel frattempo maturato un parere negativo nei suoi confronti. Questi alcuni dei risultati emersi in un sondaggio di opinione condotto dalla televisione commerciale Canale 13, dopo mesi di costanti manifestazioni di protesta contro la sua riforma giudiziaria.
In caso di nuove elezioni il partito centrista di Benny Gantz, Unione Nazionale, riceverebbe 29 seggi su 120, mentre l’altro partito centrista Yesh Atid di Yair Lapid otterrebbe altri 21 seggi ed il Likud di Netanyahu solo 20 seggi. Il sondaggio ha anche precisato che solo un israeliano su quattro ritiene necessario che l’attuale governo resti in carica. Gli altri vorrebbero un governo di unità nazionale, o nuove elezioni. Oggi intanto Netanyahu ha ricevuto Lapid per aggiornarlo sulla situazione di sicurezza e sull’ondata di terrorismo. “Sono entrato preoccupato – ha poi detto Lapid – e sono uscito ancora più preoccupato”. Il leader centrista ha ribadito di non avere fiducia nell’attuale primo ministro.
L’ex ambasciatore tra i dimostranti
Da Haaretz: “Martin Indyk, che è stato due volte ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, ha fatto una tappa insolita durante un recente viaggio in Israele: Si è unito alla massiccia manifestazione di Tel Aviv contro il piano di Benjamin Netanyahu di indebolire il sistema giudiziario israeliano.
“Sono costernato e molto preoccupato per questa rivoluzione giudiziaria e per l’impatto che avrà sulla democrazia israeliana – e quindi per l’impatto che avrà sulle relazioni tra Stati Uniti e Israele”, ha dichiarato Indyk ai conduttori Amir Tibon e Allison Kaplan Sommer nell’ultima puntata di Haaretz Weekly.
“Minare i principi fondamentali della Dichiarazione di indipendenza israeliana e l’idea di essere ebrei e democratici va contro tutto ciò in cui gli ebrei americani credono e che sostengono, e questo è profondamente preoccupante per la stragrande maggioranza di loro”, ha aggiunto.
Se negli ultimi anni gli Stati Uniti si sono comportati come uno “zio indulgente che non è disposto a chiedere conto a Israele quando agisce contro gli interessi statunitensi”, Indyk ha avvertito che ciò potrebbe non durare per sempre. “Gli Stati Uniti sono un dinosauro che si può punzecchiare e punzecchiare, ma non risponde finché un giorno si sveglia. E allora alza la coda e si abbatte con un potente tonfo”.
La stanchezza di un israeliano medio
A darne conto, sempre su Haaretz, è Roger Alpher.
“È faticoso essere un israeliano medio– esordisce Alpher -. È un lavoro duro. Il flusso infinito di attacchi terroristici è stancante e ansiogeno. Siamo stanchi di avere paura. La gente spaventata ci passa accanto per strada. “C’è stato un attacco terroristico”, avvertono. Dopo tutto, in qualche modo è sempre vicino a qualcuno che conosciamo. Qualcuno che amiamo profondamente è preso dalla preoccupazione, prova a chiamare, non riceve risposta, e allora manda un sms. “Andrà tutto bene”, rispondiamo di riflesso. Andrà tutto bene? Sì, finché non lo sarà più.
E questo terrorismo è particolarmente stancante, particolarmente frustrante, per le persone che si oppongono all’occupazione, che se ne vergognano, che sono furiose, che sono impotenti a fare qualcosa. Un Paese schifoso e violento che divora e tormenta i suoi abitanti. La disputa sulla terra è stancante. Benjamin Netanyahu è stancante. Per quasi 30 anni ci ha stancato, ci ha logorato, ci ha stremato senza sosta. Amos Oz lo ha immaginato sferragliante fuori da una finestra. È una tortura. Soprattutto per i suoi detrattori. Siamo stanchi di vederlo, di sentirlo. Ci vuole tanta energia solo per sopravvivere un altro giorno in sua compagnia. Siamo stanchi dei suoi drammi. E anche se a volte sembra che stia perdendo colpi, suo figlio Yair è ancora giovane. Siamo già estremamente stanchi dei suoi tweet, della sua paranoia, della sua follia, ma lui è ancora fresco e pieno di energia. Potrebbe facilmente continuare così per molti anni. Siamo esausti del colpo di regime, della follia quotidiana e stanchi di lavorare duramente per sostenere gli Haredim. Il loro numero si moltiplica mentre il nostro si riduce. Frugano nelle nostre borse e non smettono di dirci come vivere la nostra vita. Dobbiamo stare costantemente in guardia per proteggere i nostri diritti minimi. È estenuante vivere in questo modo.
Hamas è stancante. Siamo stanchi del suo zelo religioso fondamentalista. Stanchi dei suoi razzi, stanchi di tutti gli allarmi rossi. I boati – nei cieli e nelle strade – sono estenuanti. Hassan Nasrallah è stancante, con le sue continue minacce e provocazioni, i suoi calcoli sulla nostra rovina, le centinaia di migliaia di razzi che aspetta il momento giusto per far piovere sulle nostre teste. Queste persone, con il loro filo diretto con Dio, ci stanno davvero sfinendo.
Dio sta davvero sfinendo anche noi. Con la sua terra promessa, il suo popolo eletto, i luoghi sacri e la guerra totale a chiunque sia considerato eretico. Anche i suoi emissari terreni ci stanno stancando: Arye Dery, Yitzchak Goldknopf, Itamar Ben-Gvir, Bezalel Smotrich, Yahya Sinwar, Nasrallah.
Siamo molto stanchi della jihad, sia ebraica che musulmana. Siamo stanchi dell’alto costo della vita. Siamo stanchi di lavorare duramente per poco. Siamo stanchi di vedere i soldi che diamo allo Stato usati per cose che non servono al nostro interesse, che ci fanno orrore. Siamo stanchi di essere sfruttati. Stanchi degli ingorghi, che non fanno che aumentare e peggiorare. Stanchi del rumore delle costruzioni. Stanchi di tutte le trivellazioni per la nuova metropolitana leggera, stanchi di aspettarla.
Stanchi delle feste, così soffocanti e frequenti, kitsch e ultranazionaliste. Fin dall’infanzia ci siamo stancati di loro. Stanchi dei lutti, dell’Olocausto, delle giornate della memoria. Stanchi di essere ebrei. Gerusalemme ci stanca, con la sua irrazionalità, la sua mania. Il Monte del Tempio ci stanca. Il messianismo ci stanca. Siamo stanchi dell’idiozia che comporta.
La distruttività ci stanca, e ne siamo circondati. Il pensiero di emigrare ci stanca. Il pensiero di restare ci stanca. La sobrietà è faticosa. Meglio essere inebriati da Dio, o dalla follia, o dalla fede nei miracoli. È faticoso credere che se il muro di Berlino è caduto, anche la malvagità israeliana finirà. L’estate sta arrivando. Anch’essa è faticosa, con il suo calore fumante. L’Iran è stancante. Vivere di spada è faticoso. Anche cadere su questa spada è faticoso. Lasciateci vivere la nostra vita”.
L’articolo di Alpher riassume alla grande la psicologia di una nazione. O meglio, di quella parte largamente maggioritaria d’Israele che, al di là degli orientamenti politici, sogna una vita normale. Ambisce a vivere in un Paese normale. Pienamente integrato nel Medio Oriente, in pace con i suoi vicini. Un Paese che trova una coesione interna non perché costretto da una minaccia esterna, vera o presunta, ma perché si ritrova in valori condivisi, che non discrimina i suoi cittadini in virtù del loro credo religioso o appartenenza etnica. Un Paese che vuol continuare ad essere uno stato di diritto, e per questo si oppone al “golpe giudiziario” portano avanti dal governo più di destra nei suoi 75 anni di storia. Un Paese nel quale chi la pensa diversamente non viene tacciato di tradimento e considerato un nemico da eliminare. L’Israele che non ha cancellato il pionierismo sionista dei suoi padri fondatori e che non chiude gli occhi di fronte ai guasti prodotti dalla colonizzazione dei Territori palestinesi occupati.
Identità ebraica e sistema democratico: erano i due pilastri su cui si reggeva l’utopia sionista, quella dei padri della patria.
Lo storico e il coraggio delle idee.
Chi scrive ha avuto l’onore di intervistare più e più volte colui che è considerato il più grande storico israeliano, scomparso il 20 giugno 2020: Zeev Sternhell. Ecco cosa mi disse in una delle nostre ultime conversazioni: “Per quanto mi riguarda, ho sempre ritenuto che la pace con i palestinesi e la nascita di uno Stato di Palestina non siano una concessione fatta al ‘nemico’ né un tributo ad un astratto principio di giustizia. Per quanto mi riguarda, la nascita di uno Stato palestinese è un ‘regalo’ che Israele fa a se stesso, perché solo attraverso la fine dell’occupazione è possibile preservare le fondamenta democratiche dello Stato e la sua identità ebraica. Il riconoscimento di uno Stato democratico di Palestina va visto come condizione per porre fine al conflitto e negoziare i futuri confini fra i due Stati sulla base delle frontiere del 1967. Il riconoscimento di tale Stato è essenziale per l’esistenza di Israele. È l’unico modo per risolvere il conflitto attraverso il negoziato, per evitare l’esplodere di un altro ciclo di violenza e porre fine alla pericolosa condizione di isolamento di Israele nel mondo. La fine dell’occupazione è condizione fondamentale per la libertà dei due popoli, la piena realizzazione della stessa Dichiarazione di indipendenza di Israele e un futuro di coesistenza pacifica. D’altro canto, l’ipotesi di un unico Stato non solo porta all’eliminazione dello Stato ebraico ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria: ogni altra scelta condurrebbe al colonialismo istituzionalizzato. Non so se queste considerazioni possano definirsi di “sinistra”. A me pare che siano improntate ad un sano pragmatismo che non dovrebbe avere, in quanto tale, una coloritura politica”.
In un saggio che ha fatto molto discutere, lei ha sostenuto che gli insediamenti impiantatisi dopo la guerra del ’67 oltre la Linea Verde sono “la più grande catastrofe nella storia del sionismo”. Perché?
Perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quella che il sionismo voleva evitare. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Perciò il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole precludere ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Insisto su questo punto: resto convinto che l’insediamento nei Territori metta in pericolo la capacità di Israele di svilupparsi come società libera e aperta.
Lei afferma che gli intellettuali sono i “migliori ambasciatori” del sionismo. Ma c’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano.
No, non è così. Questa è una caricatura del sionismo o, comunque, ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Come le ebbi a dire in una nostra precedente conversazione, resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, conferma quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele.
Lei invoca una rivolta culturale, non solo politica, contro l’Israele dell’intolleranza.
Il termine più appropriato è una rivolta delle coscienze. Ecco, quello di cui avverto maggiormente la necessità: lo svilupparsi di un movimento d’opinione capace di scuotere la coscienza collettiva, di trasformare la psicologia di una nazione. Un movimento che dica con forza che nei Territori non possono più esistere due modelli legali, uno per i palestinesi e uno per i coloni. Per quanto mi riguarda, continuerò a sostenere che nei Territori vige un regime coloniale che va abbattuto. Per il bene della pace, per il bene d’Israele.
I coloni oltranzisti l’accuserebbero di “tradimento”, i più benevoli di essere un “sognatore”.
A smuovere il mondo sono i “sognatori”, coloro che hanno il coraggio di portare avanti una visione. Senza questi “sognatori” lo Stato d’Israele non sarebbe mai nato. È un argomento che è stato al centro di nostre precedenti conversazioni. Non possiamo, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà: ed è la realtà che ci dice che l’occupazione sta corrodendo le basi della nostra democrazia, così come la colonizzazione dei Territori occupati alimenta una cultura dell’illegalità. Tutto questo non ha nulla a che vedere con quei valori che furono a fondamento del pionierismo sionista. Non si tratta di mitizzare il sionismo, ma di avere coscienza che l’obiettivo finale non era solo quello di creare un focolaio nazionale per il popolo ebraico, ma anche di far vivere un Paese “normale”. E questa normalità è oggi minacciata dai terroristi che dicono di agire in nome e per conto del “popolo eletto”. Dovremmo essere in tanti a gridare: “non in mio nome, assassini”.
Ed è quello che l’Israele in rivolta sta facendo. Sternhell ne sarebbe fiero.