Tunisia: così muore una rivoluzione e fallisce uno Stato

Da mesi, a fronte del silenzio mediatico e della colpevole sottovalutazione politica, Globalist ha documentato puntualmente la drammatica crisi sociale, economica, politica che sta devastando la Tunisia

Tunisia: così muore una rivoluzione e fallisce uno Stato
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Aprile 2023 - 15.03


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Da mesi, a fronte del silenzio mediatico e della colpevole sottovalutazione politica, Globalist ha documentato puntualmente la drammatica crisi sociale, economica, politica che sta devastando la Tunisia. Una crisi che ha conquistato l’attenzione mediatica e governativa solo quando si è gridato all’invasione di migranti e, da parte del governo Meloni, cercato un “gendarme” a Tunisi da finanziare per fare il lavoro sporco – i respingimenti – al posto nostro.

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Tre preziosi contributi

In questa nuova puntata del nostro viaggio nella crisi tunisina, ci confortano tre preziosi contributi di giornalisti che hanno approfondito le tematiche legate ad una situazione nel paese nordafricano alle porte dell’Italia, che si fa d giorno in giorno sempre più esplosiva.

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Scrive in proposito Matteo Garavoglia su Linkiesta: ““La crisi. Nel fitto vocabolario tunisino che ha riempito le agende della comunità internazionale in queste settimane, la crisi è il termine più appropriato per descrivere quello che sta succedendo nel piccolo Stato nordafricano.  Macchiata da più sfumature e da linee temporali diverse, oggi in Tunisia si sta assistendo a un progressivo deterioramento delle condizioni economiche, politiche e sociali. Le casse del Paese e i mercati delle città. Si inizia da qui per arrivare alle ultime dichiarazioni razziste e xenofobe del presidente della Repubblica Kais Saied il 21 febbraio scorso contro la comunità subsahariana presente nel Paese:«Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo perché c’è la volontà di fare diventare la Tunisia solamente un Paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico». Elementi che se messi insieme dipingono un quadro frammentato. Dai numeri si può partire per capire il primo livello emergenziale: oggi l’inflazione ha toccato il 10,4 per cento; il tasso di disoccupazione viaggia stabile sopra il quindici per cento e il debito pubblico di Stato si attesta sull’ottanta per cento del Pil.

Questo si traduce in una progressiva perdita di potere di acquisto da parte dei tunisini. Una perdita che va avanti da anni e che ha colpito anche i beni di prima necessità. Oggi, per una famiglia, fare la spesa al mercato vuol dire far fronte a un aumento dei prezzi verticale: la carne costa quasi il trenta per cento in più dell’anno scorso; l’olio il 25; le uova il 32 e così via.

Un processo in corso dal 2011, anno della Rivoluzione nel Paese che ha deposto l’autoritario Zine El Abidine Ben Ali, ma che si ferma sugli elementi più visibili e non conta la frustrazione di una popolazione che se guarda avanti vede solo un futuro di incertezze.

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I dati macroeconomici non sono da meno. Le grandi agenzie di rating hanno stimato la Tunisia a un passo dal default e lo Stato si trova con un buco di bilancio tale da non riuscire a coprire i costi di importazione (il Paese ha poche risorse interne e si trova particolarmente esposto). Per questo motivo è finito sotto la lente d’ingrandimento un prestito da 1,9 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi), considerato fondamentale per coprire parte del budget 2023.

L’Unione europea e l’Italia si sono dimostrate particolarmente interessate a questa nuova linea di credito – sarebbe la terza dal 2011 a oggi – spaventate anche dai recenti dati in aumento delle partenze dalla riva Sud del Mediterraneo.

Le trattative sono finite a ottobre 2022. Tuttavia il Fondo monetario internazionale ha sospeso la chiusura definitiva dell’accordo per la mancanza di garanzie che offre al momento la Tunisia. L’istituzione di Washington chiede ingenti tagli alla spesa pubblica, l’eliminazione del complesso sistema di sovvenzioni statali e una progressiva riduzione delle imprese di Stato.

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Tre elementi che rappresentano l’ossatura economica e finanziaria pluridecennale del Paese. Ieri, in un discorso pubblico, il presidente della Repubblica Kais Saied si è detto titubante rispetto a possibili scossoni sociali che queste misure potrebbero provocare: «Non ho intenzione di ascoltare diktat. La pace sociale non è un gioco e i tunisini devono contare su loro stessi».

Detto che lo sblocco di un prestito del Fondo monetario internazionale aprirebbe la porta anche ad altri tipi di finanziamenti internazionali, dalle parole del responsabile di Cartagine si denotano importanti elementi politici e, di conseguenza, il secondo livello emergenziale.

Kais Saied è stato eletto presidente della Repubblica nell’ottobre 2019 dopo una campagna elettorale densa di invettive contro i protagonisti del «decennio nero» (così viene chiamato il periodo di transizione democratica iniziato nel 2011). Ha poi governato due anni in coabitazione con Ennahda, il partito di ispirazione islamica del leader Rached Ghannouchi, prima di mettere in moto il suo piano per la Tunisia.

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Sulla scia di una lunga crisi politica e sanitaria da Covid-19, il 25 luglio 2021 ha congelato il Parlamento, sciolto il governo e ha cominciato di fatto a governare con pieni poteri, nonostante la nomina a premier di Najla Bouden Romdhane. Ha poi smantellato il Consiglio superiore della magistratura, indetto un referendum costituzionale per sostituire il testo del 2014, considerato uno dei migliori al mondo, e organizzato nuove elezioni parlamentari che hanno visto il novanta per cento di astensionismo e un’assemblea drasticamente ridotta nelle sue funzioni.

Alla progressiva distruzione istituzionale della Tunisia è stata accompagnata una nuova fase dalle tinte fortemente autoritarie con una campagna di arresti di attivisti, direttori di giornali e oppositori con l’accusa di complottare contro lo Stato (a oggi sarebbero almeno trenta le persone in carcere per motivi politici) e una serie di discorsi nazionalisti. Come quello di ieri, quando ha posto fine a possibili accordi con agenzie internazionali per timore di possibili ingerenze straniere. O quello pronunciato il 21 febbraio scorso contro i cittadini di origine subsahariana per tutelare gli interessi di Stato. Nel complesso gioco di azioni e controreazioni, i motivi dell’attacco alla comunità proveniente da Paesi come Costa d’Avorio, Guinea, Camerun e Sierra Leone non sono chiari. Sono chiari invece gli effetti. L’ondata di razzismo nei confronti dei subsahariani, già presente nel Paese da anni, è ulteriormente aumentata con arresti arbitrari, rastrellamenti casa per casa e violenze di ogni tipo. Questo ha portato molte persone ad accelerare il proprio percorso migratorio.

I dati lo confermano: la rotta tunisina è diventata la prima per importanza e, da inizio anno, sono trentamila le persone arrivate a Lampedusa o Pantelleria. Senza contare al momento le partenze dei tunisini, duramente colpiti dal degrado delle condizioni economiche personali e senza possibilità di chiedere visti per l’Europa, in deciso aumento da qualche anno (soprattutto nei mesi più caldi).

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Unire la crisi economica, politica e sociale in corsa in questi anni permette quindi di capire il perché oggi dalla Tunisia si decida di partire e quali siano i veri timori di attori internazionali come l’Unione europea, preoccupata soprattutto di diminuire gli arrivi in Italia”.

L’odissea di Alima

La racconta, mirabilmente, Laura Anello su La Stampa: «Ci danno la caccia in Tunisia, ci danno la caccia per strada. Se sei nero non puoi uscire di casa». Alima, 25 anni, quasi non si regge in piedi quando i volontari di Emergency la portano a bordo della loro “Life Support” alle dieci del mattino di sabato, dopo tre giorni di navigazione su un barchino di ferro di sette metri dove è stata accovacciata insieme con altre quarantacinque creature, senza acqua né cibo né bagno. Con lei ci sono i suoi due figlioletti – uno di tre anni e mezzo, l’altro di due – disidratati e affamati, scalzi, bagnati, senza neanche la forza di piangere, il pianto che sin da quando nasci è dolore e vita. E no, non piangono, Pierre e David, chiamiamoli così, due occhi neri sgranati che raccontano più di qualsiasi reportage che cosa sta succedendo in Tunisia, quella che era «l’unica democrazia del mondo arabo» secondo gli studiosi britannici dell’Economist Intelligence Unit, diventata nel giro di qualche mese un girone dell’inferno. La Tunisia culla del primo Cristianesimo, la Tunisia delle riforme di Bourghiba, la Tunisia che è l’Africa dietro casa. Che si scopre razzista, xenofoba, feroce. Una seconda Libia. «Vivevo a Tunisi da due anni – racconta Alima in francese all’infermiera Eliza Sabatini – lavoravo come domestica e pagavo l’affitto di una casa per me e per i miei due bambini. Non che fossi ricca, ma guadagnavo a sufficienza da mantenere la mia famiglia. Poi è partita la caccia a noi neri, un odio crescente, neanche sul bus ci fanno più salire, molti di noi sono stati presi a pietrate per strada, altri arrestati senza ragione, altri derubati, altri si sono ritrovati con la casa bruciata. Io ho perso il lavoro, mi hanno licenziata, e nel giro di qualche settimana mi hanno sfrattata. Sono finita a dormire per strada, senza un soldo, con i bambini». Non piange Alima, la voce ferma che racconta quel che ha vissuto come un incubo che è passato, con il sollievo del risveglio. «È finita, ce l’ho fatta, adesso sono qui» dice ai soccorritori che lunedì hanno fatto sbarcare a Ortona, in Abruzzo, tutto il carico umano salvato nel corso dell’ultima missione: 161 naufraghi recuperati in tre distinti interventi, un terzo dei quali minorenni, solo in sette casi accompagnati, gli altri 54 da soli. E ventisei donne, di cui tre incinte. Una torre di Babele navigante, proveniente da Burkina Faso, Camerun, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea Conakry, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sud Sudan, Sudan. Tra loro un ragazzo etiope alto 1.75 che pesava cinquantadue chili, «un caso di malnutrizione molto grave, una volta salvato abbiamo dovuto dargli un’alimentazione speciale» raccontano gli operatori a bordo. L’Africa nera che scappa dalla Tunisia. Il Mediterraneo che brulica di barconi e di barchini, «sul canale radio della nostra nave – raccontano da Emergency – è stato tutto un susseguirsi di richieste di aiuto dei pescherecci, gente con la voce rotta dal pianto: venite, venite subito, qui ci sono bambini che non mangiano, che non bevono da giorni, ci sono donne incinte. Venite, qui rischiano di morire».

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Fra loro c’era Alima. Che ora cerca una nuova vita. Per questo è partita con i suoi bambini su quel barchino dove era proibito portare anche l’acqua e il cibo perché la barca rischiava di affondare già con il peso degli umani digiuni, e perché non c’era spazio neanche per incastrare braccia e gambe, figurarsi se per una scatola di biscotti, per chi ce l’avesse. «In Tunisia ho provato a chiedere aiuto alla polizia, ma anziché avere ascolto mi hanno malmenato – racconta ancora la donna – ho pensato di tornare a casa, in Camerun, ma non potevo prendere l’autobus per raggiungere l’ambasciata. Ammesso che ti facciano salire, è pericoloso andare in giro. Non avevo altra scelta che scappare per mare».

Le fanno eco i tanti che come lei sono arrivati in questi giorni. «Per strada – raccontano – girano gang che ci aggrediscono, ci minacciano, ci picchiano, ci derubano, soltanto perché siamo neri. E nessuno, nessuno delle forze dell’ordine che interviene, di loro non ci fidiamo per niente, ditelo qui in Europa, ditelo che cosa succede oggi in Tunisia». I piccoli Pierre e David sulla barca della salvezza hanno giocato con le bolle di sapone e con i guanti di lattice che, se ci soffi dentro, sembrano palloncini. Hanno mangiato tre volte al giorno, hanno dormito, hanno riso”.

Il giallo presidenziale

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Lo declina, per Rai News, Leonardo Sgura, corrispondente Rai dal Cairo. 

“Che fine ha fatto il presidente Saied? E’ la domanda diffusa nei giorni scorsi dai media tunisini e rilanciata dal Fronte di Salvezza Nazionale, l’associazione di forze politiche e sociali che da mesi si oppone al Capo dello Stato. 

“Sappiamo da giorni che il Capo dello Stato non sta bene – aveva detto Ahmed Nejib Chebbi, portavoce del Fsn -. Siamo a conoscenza della sua malattia ma finora abbiamo taciuto e aspettato perché la nostra lotta contro di lui è politica. Ma adesso chiediamo al governo di farci sapere quali sono le sue reali condizioni di salute, in particolare se sta esercitando le sue funzioni istituzionali o se in questo momento c’è un vuoto di potere”. Saied era stato visto in pubblico l’ultima volta il 23 marzo scorso, mentre usciva da una moschea dove era stato a pregare in occasione dell’apertura del Ramadan. La sua assenza in pubblico sta alimentando voci preoccupate sulla sua salute. Secondo alcune fonti, non riscontrate, sarebbe stato ricoverato in un ospedale militare della capitale. Un cronista della radio tunisina Mosaique Fm, durante un programma in diretta, ha chiesto conferma di questa indiscrezione al Ministro della Salute, Ali Mrabet, il quale però ha preferito non rispondere.

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A rispondere è stato invece un comunicato della Presidenza della repubblica tunisina, che smentisce la notizia di una grave malattia e accusa gli oppositori di Saied di fabbricare fake news con l’obiettivo di rovesciare il potere. La nota aggiunge che il presidente, incontrando lunedì sera la premier Najla Bouden 

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