Russia-Ucraina: il Cavaliere col colbacco e un governo da Repubblica delle banane
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Russia-Ucraina: il Cavaliere col colbacco e un governo da Repubblica delle banane

Uno dei protagonisti assoluti di questa tragicomica esibizione dialettica è Silvio Berlusconi. Al Cavaliere va dato atto di una granitica coerenza. Amico era di Putin e amico suo è rimasto anche dopo il 24 febbraio 2022

Russia-Ucraina: il Cavaliere col colbacco e un governo da Repubblica delle banane
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

13 Febbraio 2023 - 14.10


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Siamo in guerra. Una guerra nel cuore dell’Europa. Una guerra – ha ragione a definirla tale il direttore di Limes Lucio Caracciolo – mondiale. In tempi di guerra, il governo di un Paese che nel conflitto è coinvolto, per il momento con invio di armi, dovrebbe mostrarsi coeso, determinato, affidabile in tutte le forze che lo sorreggono. Non è questo il caso dell’Italia. Qui da noi va in scena un delirio di dichiarazioni e contro smentite, tra una figuraccia rimediata a Bruxelles e quella sul palco di Sanremo. Uno dei protagonisti assoluti di questa tragicomica esibizione dialettica è Silvio Berlusconi. Al Cavaliere va dato atto di una granitica coerenza. Amico era di Putin e amico suo è rimasto anche dopo il 24 febbraio 2022, il giorno d’inizio della guerra di aggressione russa contro lo Stato sovrano dell’Ucraina. Certo, la sua “verità” sulla guerra imbarazza anziché no Palazzo Chigi e pure il ministro degli Esteri (forzista pure lui) Antonio Tajani. Ma l’ottuagenario senatore se ne frega bellamente e continua a battere sullo stesso tasto.

Il Cavaliere col colbacco

A spiegare molto bene l’ultima esibizione del leader di Forza Italia è il Post. 

I fatti. “Domenica, parlando con alcuni giornalisti dopo aver votato alle elezioni regionali in Lombardia, il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi ha fatto alcune contestate dichiarazioni sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky e sulla linea adottata nei suoi confronti dal governo di Giorgia Meloni. «Io a parlare con Zelensky, se fossi stato presidente del Consiglio, non ci sarei mai andato», ha detto Berlusconi.

Parlando dell’invasione dell’Ucraina, ne ha sostanzialmente addossato la colpa allo stesso Zelensky, dicendo: «bastava che [Zelensky] cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe avvenuto», per poi concludere: «io giudico molto, molto, molto negativamente il comportamento di questo signore». Berlusconi ha poi ipotizzato che la fine della guerra in Ucraina sarebbe possibile se solo Zelensky «ordinasse un cessate il fuoco» .Le dichiarazioni di Berlusconi hanno attirato dure critiche da parte di tutta l’opposizione. Tra gli altri, esponenti del Partito Democratico hanno fatto immediatamente pressioni su Meloni e sulla maggioranza perché chiarissero le proprie posizioni sulla guerra in Ucraina: «Sono posizioni che isolano l’Italia e indeboliscono il fronte occidentale», ha detto il senatore del PD Enrico Borghi. 

Il governo di Meloni, del cui isolamento in Europa si sta discutendo proprio in questi giorni, è da tempo alle prese con posizioni più o meno apertamente filorusse dei suoi principali alleati, Lega e Forza Italia. Il governo di Meloni si è quindi affrettato a smentire le parole di Berlusconi e a chiarire le proprie posizioni: il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha subito scritto 

 su Twitter che Forza Italia, il suo partito e uno dei tre principali al governo, «è da sempre schierata a favore dell’indipendenza dell’Ucraina, dalla parte dell’Europa, della Nato e dell’Occidente».

L’ufficio stampa del governo ha addirittura inviato una comunicazione a tutti i giornalisti, anche in questo caso per chiarire la propria posizione di vicinanza all’Ucraina e condanna del comportamento della Russia: «Il sostegno all’Ucraina da parte del Governo italiano è saldo e convinto, come chiaramente previsto nel programma e come confermato in tutti i voti parlamentari della maggioranza che sostiene l’Esecutivo», ha detto il governo nella comunicazione”.

Ma Berlusconi non si ferma e nel j’accuse si spinge a dare consigli alla Casa Bianca: “Per arrivare alla pace, il signor presidente americano dovrebbe prendersi Zelensky e dirgli: È a tua disposizione dopo la fine della guerra un piano Marshall per ricostruire l’Ucraina”. Il Cav immagina un piano aiuti da miliardi di dollari, ma imponendo la condizione della resa: “Che tu domani ordini il cessate il fuoco anche perché noi da domani non vi daremo più dollari e non ti daremo più armi”.

Durissima la reazione di Kiev. Il leader di FI “è un agitatore vip che agisce nel quadro della propaganda russa, baratta la reputazione dell’Italia con la sua amicizia con Putin. Le sue parole sono un danno per l’Italia”. Lo dice Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Zelensky, commentando le dichiarazioni di ieri di Berlusconi. “Getti la maschera e dica pubblicamente di essere a favore del genocidio del popolo ucraino”, ha aggiunto.

“Le accuse insensate di Berlusconi contro Zelensky sono un tentativo di baciare le mani di Putin, insanguinate fino ai gomiti. Un tentativo di dimostrare la sua lealtà al dittatore russo”. Lo scrive su Fb il portavoce del ministero degli Esteri ucraino Nikolenko ricordando di aver lavorato in Libia nel 2010 quando l’allora premier incontrò Gheddafi e “baciò le mani del dittatore per mostrare lealtà. Diffondendo la propaganda russa, incoraggia Mosca a continuare i suoi crimini e quindi ha responsabilità politica e morale. Apprezziamo invece molto la pronta risposta di Meloni, che ha riaffermato l’incrollabile sostegno all’Ucraina”.

In Italia, più delle (scontate) insorgenze di Pd e Azione-Italia Viva, +Europa, fanno riflettere i silenzi di Lega e 5Stelle. 

Quella figuraccia sanremese.

Ne scrive, con dovizia di particolari e giusta indignazione, Yaryna Grusha Possamai su Linkiesta: “Il messaggio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky è arrivato sul palco di Sanremo, durante la finalissima, alle 2:12, in piena notte, letto da Amadeus e seguito dall’esibizione dalla band ucraina Antytila. Secondo la scaletta della Rai era lo slot migliore per l’Ucraina, perché dopo cinque ore di diretta tutti comunque avrebbero aspettato il nome del vincitore; secondo i commenti degli spettatori lo era un po’ meno perché dopo cinque ore di diretta si fa fatica a distinguere LDA da Sethu, figuriamoci cogliere il messaggio del presidente di un Paese che da un anno resiste alla barbarica invasione della Russia.

I più coraggiosi hanno resistito, i meno coraggiosi hanno messo la sveglia alle 1:45, quelli ancora meno coraggiosi hanno rivisto tutto la mattina dopo su RaiPlay.

Dopo che Amadeus ha cercato di interpretare Zelensky, finalmente è arrivata la voce degli ucraini, senza la mediazione delle lettere stampate né la partecipazione di terzi. Gli Antytila (gli anticorpi), il gruppo ucraino che si è esibito già sui palchi europei più importanti con Ed Sheeran e Bono, hanno portato a Sanremo la loro canzone appena uscita, “Fortezza Bakhmut”, sulla battaglia che si svolge oggi a Bakmut, città sulla prima linea che d a mesi resiste a costanti attacchi russi.

“Peccato per la mancanza dei sottotitoli al testo della canzone, per il pubblico in sala e a casa», dice a Linkiesta il frontman del gruppo Taras Topolia, “ogni sillaba della nostra canzone trasuda la resistenza e la rabbia nei confronti dell’invasore russo”.

Alla fine si sono affidati alla musica, mood e flow, e sono riusciti a trasmettere l’ardore della resistenza del popolo ucraino di questi giorni, quando ormai ci stiamo avvicinando alla tragica data del 24 febbraio, che segna un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina.

«Siamo arrivati in Italia con molti timori», dice Taras a Linkiesta la mattina dopo l’esibizione, in viaggio da Sanremo verso Nizza, dove la band ha preso il volo per tornare verso l’Ucraina, «abbiamo passato troppo tempo in prima linea e avevamo una visione approssimativa dell’atmosfera in Italia. Sapevamo delle ingerenze russe e della galoppante propaganda russa da queste parti, eppure gli organizzatori e tutta la gente con cui abbiamo avuto a che fare nelle ultime ventiquattro ore esprimevano il loro sostegno all’Ucraina. Sì, a volte dicevano “speriamo che questo incubo finisca presto”, cercando di slittare su una linea neutrale, e noi aggiungevamo ”con la vittoria dell’Ucraina”, e alla fine sembrava che il nostro messaggio arrivasse. Il pubblico ci ha applaudito calorosamente e noi oltre a cantare abbiamo avuto l’opportunità di dire qualche parola. Devo dire che non succede spesso. Capita che gli organizzatori si giustifichino con il format e i tempi stretti per non darti la possibilità di esprimerti, invece a Sanremo ho detto quello che mi sono sentito di dire».

Taras Topolia ha avuto anche l’occasione di ringraziare Tananai, il cantante italiano in gara con il brano “Tango” che racconta con parole e immagini la storia d’amore tra Olha, un’ucraina sfollata in Italia insieme a sua figlia Liza, e suo marito Maksym, che invece è al fronte a difendere il Paese. “Ho ringraziato Tananai da parte di tutti gli ucraini, mi sembrava emozionato, gli ho detto che come artista e come persona poteva rimanere in disparte, invece ha deciso di dare la voce agli ucraini e per noi è stato davvero prezioso”[…]Con la partenza degli Antytila rimane un retrogusto amaro sull’intera gestione della presenza ucraina a Sanremo, dalle polemiche sul collegamento di Zelensky alla lettera degli intellettuali italiani contro il collegamento, dai commenti dei politici italiani sul non confondere la guerra con il festival delle canzonette al testo che ha voluto rivedere la Rai, dal messaggio scritto e mandato da Zelensky e letto da Amadeus fino ai sottotitoli mancanti della canzone e al microfono abbassato fin troppo mentre parlava Taras in ucraino sul palco dell’Ariston.

Eppure possiamo ancora sperare che la presenza fisica, la musica, la forza delle parole degli ucraini, come quella degli Antytila, possa cambiare l’ormai palpabile indifferenza (se non altro) verso la guerra, indifferenza che viene mascherata (male) da un’ipocrita neutralità”.

Ripasso storico.

L’Ucraina deve vincere. Se cadesse, c’è da credere nella moderazione di Putin? 

“L’amore per la pace e la compiacenza verso la barbarie. Uno sguardo retrospettivo al pacifismo francese con lo storico Arthur Chevallier”.

E’ una conversazione illuminante e istruttiva che Il Foglio ha meritoriamente tradotto in italiano e pubblicato.

“Bisogna avere un problema per parlarne in continuazione” scrive Arthur Chevallier, i cui ultimi libri sono “Napoléon et le bonapartisme” (Que sais-je?) e “Les femmes de Napoléon” (Grasset). “Fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, gli estimatori di Vladimir Putinsi sono fatti beffe dei sostenitori di Volodymyr Zelensky: degli ingenui, dei creduloni, degli imbecilli, insomma, secondo il loro vocabolario, dei democratici.Ma la guerra è andata avanti, i crimini e l’incapacità dell’esercito russo sono venuti a galla: i difensori di una linea dura contro il Cremlino non potevano più essere qualificati come degli stupidi, così sono diventati dei ‘guerrafondai’ irresponsabili, degli spacconi pronti a trascinare la Francia e l’Europa in un conflitto su vasta scala. Diverse capitali occidentali, tra cui Londra, Berlino e Washington, hanno fatto un passo in avanti accettando di inviare dei carri armati a Kiev. Gli ammiratori di Putin perseverano nella loro insolenza accusando l’ovest di provocare una Terza guerra mondiale”.

In Francia – continua Chevallier – il pacifismo, anche quello in buona fede, è minoritario. Lo scrittore Remy de Gourmont (1858-1915) ha provocato uno scandalo pubblicando “Le joujou patriotisme” nel 1891, sorta di lungo articolo dove si prendeva gioco dell’antigermanismo primario e del patriottismo di paccottiglia di una Francia impazzita dopo la sconfitta contro la Prussia. Gourmont non era né pro Germania né antifrancese, era intelligente. Non sono le cause che lo scrittore deplora, ma la sopraffazione dell’ideologia e della politica su tutte le forme della ragione e del gusto. L’indignazione è tale che Gourmont viene licenziato dalla Biblioteca nazionale dove lavorava. Nel 1914, Romain Rolland pubblica un articolo, “Au-dessus de la mêlée”, dove invita i belligeranti a riacquistare umanità, e a prendere in considerazione i disastri e i drammi di un conflitto generalizzato: “Dunque l’amore della patria dovrebbe fiorire nell’odio delle altre patrie e il massacro di quelli che si impegnano per difenderle? Questa idea è di un’assurdità feroce e di un dilettantismo neroniano che mi ripugnano nel profondo. No, l’amore della mia patria non significa che devo odiare e uccidere le anime pie e devote che amano le loro patrie”. Sì, talvolta, essere pacifisti significa essere intelligenti, e anche coraggiosi. Ma quando l’amore per la pace si trasforma in compiacenza verso la barbarie non è più accettabile. Henry de Montherlant ha risposto a Romain Rolland nel libro meraviglioso e inclassificabile “Aux fontaines au désir”, dove l’autore di “Jeunes Filles” si chiede perché l’umanità dovrebbe essere necessariamente più bella restando passiva e pacifica. Il gusto di un popolo per la guerra non deriva sempre da un desiderio di uccidere, ma da un’indignazione, da un movimento della coscienza, dall’intelligenza, dal temperamento che lo spinge a difendersi, attaccando in nome di un’emozione. Ecco qual è il dramma dei cattivi: sono stupefatti dinanzi alla gentilezza e all’empatia, e le disprezzano perché non conoscono né l’una né l’altra. Più tardi, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, lo stesso Montherlant ridicolizza la presunta saggezza dei governi fanatici della pace, i quali sono convinti, non si sa per quale motivo, che una civiltà rimanga all’altezza di sé soltanto se privilegia il suo confort, senza più ragionare. E’ “una morale da midinette”, scrive Montherlant: “Da quasi un secolo, e da vent’anni a questa parte ancor di più (1918), si inietta al nostro popolo una morale dove colui che resiste è definito ‘irrequieto’ e colui che è fiero è qualificato come ‘altezzoso’, dove l’indignazione è chiamata ‘brutto carattere’, dove il giusto sdegno è visto come una forma di ‘aggressività’, dove la lungimiranza è definita ‘cattiveria’, dove ogni uomo che tiene ai suoi princìpi, e che dice no, è considerato ‘impossibile’”.

Negoziare con Vladimir Putin significherebbe cedere a una metodologia messa al bando dal diritto internazionale, quella della canaglieria. Anche andando oltre le considerazioni morali, farlo sarebbe controproducente. “L’Ucraina – conclude Chevallier – deve vincere questa guerra, senza che questo comporti dei rischi per la Polonia, dunque per la Nato. Se Kyiv cadesse, c’è forse da credere nella moderazione del Cremlino? Di più: crediamo ancora al senso dell’onore di Putin? L’amore per Kyiv non gioca nessun ruolo nell’indignazione dell’opinione europea; quest’ultima proviene da un terrore formulato, aizzato e cristallizzato dal presidente della Russia. Le persone percepiscono la disumanità della sua potenza, la minaccia che esercita nei confronti della civiltà, la gelosia malsana che emana; e si dicono che Mosca val bene qualche carro armato”.

Chapeau. Il Cavaliere amico di Putin si picca di sapere il francese. Può leggerlo in versione originale. 

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