Tajani ai piedi di Erdogan per un"patto di stabilità" con chi ha destabilizzato la Libia

Tajani in Turchia per un “Patto per la stabilità” della Libia con chi la Libia ha contribuito a destabilizzare e a spezzare in due

Tajani ai piedi di Erdogan per un"patto di stabilità" con chi ha destabilizzato la Libia
Tajani con l'omologo turco Cavusoglu
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

14 Gennaio 2023 - 17.45


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Un “Patto per la stabilità” della Libia con chi la Libia ha contribuito a destabilizzare, a spezzare in due. Un Patto con chi si sta spartendo, oltre che il territorio, la miliardaria “torta” petrolifera, scalzando l’Eni, e della ricostruzione del devastato, da dodici anni di caos armato post-Gheddafi, Paese nordafricano. Un Patto sui migranti con chi i migranti usa come arma di ricatto per avere finanziamenti miliardari dall’Europa. Un Patto scellerato. E’ quello che l’Italia ha stretto con la Turchia, sancito dalla visita ufficiale del ministro degli Esteri Antonio Tajani ieri ad Ankara.

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Cronaca di giornata

Una cronaca particolareggiata, quella di Corrado Accaputo per l’agenzia Asca. Un Patto per la stabilità della Libia. Da Ankara, dove si è recato in visita ufficiale, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha lanciato il piano del governo Meloni per ridare spazio all’iniziativa di mediazione dell’Onu, con l’obiettivo di avviare un processo politico inclusivo nel Paese del Nordafrica, da concludersi con le elezioni e la scelta di una leadership forte del sostegno popolare. Un progetto che non può prescindere dall’approvazione della Turchia, “che svolge un ruolo fondamentale nello scacchiere del Mediterraneo, del Medio Oriente e dei Balcani”, ma anche dell’Egitto, altro attore di primaria importanza in vista di una soluzione della crisi.

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Si tratta di “una priorità per l’Italia e per la Turchia”, ha spiegato Tajani che, secondo fonti a conoscenza del dossier, ha offerto al suo collega turco un ruolo di coordinamento dell’Italia tra Ankara e il Cairo, che in Libia perseguono agende diverse. Dopo un primo periodo di assestamento e l’approvazione della legge di bilancio, il governo di Giorgia Meloni ha dunque deciso di accelerare sulle priorità di politica estera. All’indomani della visita in Ucraina del ministro per le Imprese e il Made in Italy Adolfo Urso, e in attesa della missione della presidente del Consiglio in Algeria prima e a Kiev poi, Tajani si è recato in visita all’omologo turco Mevlut Cavusoglu. Un colloquio, quello di oggi, che ha consentito ai due ministri di affrontare i principali dossier dell’agenda bilaterale e internazionale: cooperazione in ambito economico, contrasto all’immigrazione irregolare, guerra in Ucraina e crisi libica. Su quest’ultimo tema, Tajani e Cavusoglu hanno concordato sulla necessità di lavorare su “iniziative congiunte, concrete” per favorire la stabilità del paese. “La strategia italiana è molto chiara”, ha detto Tajani.

“Coinvolgere i paesi che sono determinanti sul fronte immigrazione. E la risposta avuta oggi dalla Turchia è una risposta positiva”.L’obiettivo di Roma è quello di incoraggiare un forte sostegno internazionale all’azione del rappresentante speciale delle Nazioni Unite, Abdulaye Bathily, chiedendogli di procedere convintamente con un tentativo di mediazione su tutti i dossier divisivi del Paese – processo elettorale, formazione di un esecutivo unificato, uso trasparente dei proventi petroliferi -, nonché di formulare una road map inclusiva ed equilibrata che possa consentire lo svolgimento delle elezioni nel Paese. Anche per questo Tajani ha invitato Bathily a Roma, mentre l’Italia chiederà ai suoi partner internazionali di riconoscere che una Libia unita e stabilizzata, dotata di un governo democraticamente eletto e di istituzioni civili e militari unificate, è nell’interesse di tutti i Paesi della regione. Il Patto per la Sovranità della Libia servirà proprio a convincere questi Paesi a non opporre ostacoli al tentativo di mediazione dell’Onu, rinunciando ad accordi non trasparenti che hanno l’unico effetto di prolungare divisioni e ostilità.

Al contempo, hanno riferito fonti diplomatiche, il piano sostenuto dal governo italiano funzionerà anche da monito per le autorità libiche, affinché desistano dal perseguimento di interessi personali a beneficio della popolazione e del Paese nella sua interezza. L’Italia, secondo quanto si è appreso, proporrà dunque di avviare un dialogo di alto livello per la sottoscrizione del Patto, che dovrà avere come protagonista anche l’Unione europea, al fine di rafforzare i confini meridionali della Libia, contrastare i flussi migratori disordinati in partenza dalla Tripolitania e dalla Cirenaica, dare nuovo slancio all’unificazione delle forze armate e al reintegro delle milizie. L’auspicio è che, assegnando un ruolo guida all’Onu, la Libia possa completare un processo di stabilizzazione che la porti fuori da una crisi non più sostenibile. Una situazione di ritrovata stabilità che potrebbe anche contribuire a una soluzione della questione migratoria. La Libia e la Tunisia, paese dove Tajani si recherà la settimana prossima, sono infatti i principali bacini di partenza dei migranti che intendono raggiungere l’Italia e l’Europa attraverso il Mediterraneo.”E’ quello che vogliamo fare, un patto con i paesi di origine, i più importanti, attraverso i quali passano i flussi migratori. Questi grandi paesi hanno un’influenza in Libia, ma sono anche paesi di transito ed hanno problemi di immigrazione importanti”, ha confermato Tajani. Il ministro sa che giungere in tempi rapidi a elezioni non sarà semplice e che per il completamento di questo processo democratico potrebbe servire parecchio tempo.

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“Non è un percorso facilissimo, ma è un percorso verso il quale convergiamo tutti. Adesso bisogna lavorare con questi paesi per favorire regolari elezioni. Spero sia una questione di mesi. Dobbiamo arrivare in tempi rapidi, quello dell’immigrazione è un problema che va affrontato e risolto”, ha commentato.”In questo campo dobbiamo collaborare”, ha ammesso da parte sua Cavusoglu, parlando di “un problema comune”. Gli arrivi nel Vecchio Continente sono “in crescita” e destano molta “preoccupazione”. Per questo bisogna “lavorare insieme”, “ovviamente in Nordafrica e in Medio Oriente, con interventi a breve, medio e lungo termine”, anche nel tentativo di “stroncare il mercato degli esseri umani, – una priorità per l’Italia e la Turchia – e di impedire che il Mediterraneo diventi un cimitero di migranti” , ha sottolineato Tajani. “Lotta a immigrazione clandestina significa sicurezza, significa fermare i trafficanti. Su questo saremo molto duri”, ha assicurato il ministro…”.

Fin qui la cronaca della giornata turca del titolare della Farnesina. 

La nostra sintesi: in ginocchio dal sultano. 

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Ecco con chi “patteggiamo” 

Francesca Mannocchi conosce la Libia e il Mediterraneo come pochi altri nel giornalismo italiano.  Scrive su La Stampa: “A ottobre a Sabratha, in Libia, a settanta chilometri dalla capitale Tripoli, sono stati ritrovati i corpi di quindici persone migranti. Alcuni giacevano sulla spiaggia, altri erano carbonizzati accanto ai resti di una barca su cui, con tutta probabilità, stavano cercando di attraversare il Mediterraneo e raggiungere le coste europee. A distanza di più di un mese poco si sa sulla dinamica dei fatti, nonostante le richieste dell’Unsmil, la missione di supporto delle Nazioni unite in Libia, che ha condannato gli omicidi, ribadito che la tragedia fosse un «chiaro promemoria della mancanza di protezione affrontata dai migranti in Libia» e chiesto chiarezza e indagini «tempestive, indipendenti e trasparenti». 

Non è la prima volta che sulle coste libiche si contano i morti, non sarà l’ultima. Non è la prima volta che le Nazioni unite si appellano alle istituzioni del paese nordafricano, non sarà l’ultima che resteranno lettera morta, perché in Libia di tempestivo, indipendente e trasparente, c’è ben poco. Secondo gli attivisti per i diritti umani e i media libici, le persone migranti sarebbero morte per lo scontro armato tra gruppi di trafficanti rivali, una delle milizie avrebbe dato fuoco alla barca come ritorsione, ennesimo tragico epilogo dell’eterna disputa sul controllo di una delle aree da cui parte il maggior numero di gommoni diretti in Italia, un’area in cui il potere è sempre quello delle armi e dove sono più strette le connivenze tra trafficanti e istituzioni. 

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Le stesse istituzioni che l’Italia, solo due settimane fa, è tornata a finanziare con il tacito rinnovo del Memorandum d’Intesa del 2017, le stesse istituzioni a cui faceva implicito riferimento il ministro degli Esteri Antonio Tajani quando, intervistato da Lucia Annunziata, ha detto «come si è investito in Turchia così si potrebbe fare in Libia e in altri Paesi da dove partono i migranti». Investire, cioè esternalizzare i confini, cioè pagare affinché le persone non lascino il Nordafrica, pagare non importa chi, non importa quanto, purché si fermino le partenze.

Dopo la crisi diplomatica con la Francia sulla gestione della nave Ocean Viking e alla vigilia del Consiglio dei ministri esteri di oggi sul tema immigrazione, Tajani ribadisce la linea italiana: «Non c’è nulla da riagganciare con i francesi, sono loro che hanno reagito in modo sproporzionato». Ricollocamenti, rispetto degli accordi, strategia europea condivisa, cioè «un piano Marshall per l’Africa per non avere in futuro milioni di migranti». 

Investire dall’altra parte del mare è sempre un buon auspicio. Così come lo sarebbe il principio di «aiutarli a casa loro». Il punto è sempre lo stesso: come. Ovvero, in mano di chi vanno a finire i soldi che escono dalle casse dei nostri Stati, attraversano il mare in direzione contraria a quella delle vite migranti, e su cui, da sempre, non c’è monitoraggio né controllo. Così è con i soldi destinati alla Libia dal Memorandum dal 2017 e così sarà con il tacito rinnovo fino al 2025, nonostante sia ormai chiaro che quegli accordi stiano contribuendo a rafforzare le reti del traffico anziché contrastarle. L’utilizzo dei fondi italiani che arrivano nei centri di detenzione, infatti, non è vincolato a nessun impegno del governo libico, a nessuna garanzia che all’erogazione di soldi e prestazioni corrisponda un miglioramento delle condizioni di vita delle persone migranti. O un impegno a medio-lungo termine sul superamento delle strutture detentive in un paese che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Un sistema detentivo, quello libico, che il Commissario Onu per i diritti umani ha definito «troppo compromesso per essere aggiustato».

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Lo stesso segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres, dopo una visita nei centri di detenzione, aveva chiesto che i responsabili degli abusi venissero puniti, sollecitando le autorità ad applicare sanzioni contro chi si è macchiato e continua a macchiarsi di crimini contro le persone migranti. Ma l’applicazione della legge, in un paese come la Libia, è vincolata a poteri che spesso poco hanno a che fare con gli impegni dei tavoli bilaterali. Sono quattro anni che il Procuratore generale libico ha emesso duecento mandati di arresto per attività di contrabbando, traffico di uomini, torture, omicidi e stupri. I trafficanti nell’elenco della lista delle sanzioni delle Nazioni unite non sono ancora stati arrestati eppure i nostri soldi continuano ad arrivare e smarrirsi nella nebbia libica, i migranti a essere torturati nelle prigioni, e poi spediti sui gommoni verso l’Europa.  Quindi è troppo facile dare la colpa alle «reti del malaffare dei trafficanti», alle Ong ritenute “push factor” per i migranti nonostante i numeri dicano esattamente il contrario, quando i fondi erogati dall’Europa, l’Italia capofila, hanno contribuito in questi anni a rafforzare le reti del traffico anziché debellarle. 

A marzo di quest’anno, dopo l’ennesimo fallimento di un processo di pace che avrebbe dovuto portare ad elezioni, dopo nuovi scontri armati tra milizie nel cuore della capitale, e un’altra giravolta delle alleanze che ha portato a stabilire di nuovo due governi avversari e coesistenti nel paese, le Nazioni unite sono tornate a denunciare gli abusi nei centri di detenzione.  Si legge in un rapporto Onu del 28 marzo che «molti dei centri di detenzione per migranti della Libia rimangono luoghi di abusi terribili e sistematici di crimini contro l’umanità consumati in venti strutture di detenzione, ufficiali e non ufficiali e reti di prigioni segrete che sono presumibilmente controllate da milizie armate». 

Questo è il contesto da cui le persone migranti fuggono, luoghi di violenze e abusi. Luoghi di violazioni costanti che ostacolano la transizione della Libia verso la pace, la democrazia e lo stato di diritto. Ecco perché le Nazioni Unite continuano a ribadire che i migranti non partano a causa di “pull factor”, ma perché spinti dai “push factor”, ossia proprio quegli abusi di cui sono vittime in Libia. Spinti dalla vita nei centri di detenzione, da cui vogliono fuggire a tutti i costi, pur sapendo che la loro unica opzione sia il mare, e il rischio la morte. Ecco perché le partenze non si arrestano, perché anzi in mare si continua a morire ed è sempre più difficile dare un nome alle vittime. 

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Quelli che sopravvivono, come le donne gli uomini e i bambini della Geo Barents, dell’Humanity 1, sono le voci, i corpi-testimonianza degli abusi, corpi che portano sulla pelle le prove dell’inefficacia delle strategie di contenimento e anche l’evidenza delle ipocrisie degli stati Europei. Sono corpi che, insieme, dovrebbero rappresentare la mappa da seguire per segnare un indifferibile cambio di passo, che ci ricordano che i desiderata degli accordi bilaterali devono fare i conti con la realtà. E la realtà, dall’altra parte del mare, parla la lingua delle prigioni.  I migranti riportati indietro lo sanno. Sanno cosa li aspetta, sanno come è gestito, spartito e mascherato in Libia il potere delle armi.


Ecco perché riportarli nei centri di detenzione non è stato, non è e non sarà un deterrente alle partenze.
Perché è precisamente da quei centri di detenzione – che l’Europa finanzia – che le persone migranti fuggono…”.

Così Mannocchi. L’Italia ha rinnovato per tre anni lo sciagurato, criminale memorandum d’intesa con la Libia. L’Italia ora stringe un patto scellerato con la Turchia del dittatore (mai definizione fu più azzeccata anche se l’autore, l’allora presidente del Consiglio Mario Draghi un anno dopo fece marcia indietro) turco. In nome della “stabilità” del Mediterraneo. Una “stabilità” funerea. 

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