Libia, Tunisia, Giorgia Meloni alla ricerca degli 'affidabili': una caccia a perdere
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Libia, Tunisia, Giorgia Meloni alla ricerca degli 'affidabili': una caccia a perdere

La premier ha convocato oggi pomeriggio a Palazzo Chigi i suoi vice Matteo Salvini e Antonio Tajani, il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e il capo dell'Intelligence Elisabetta Belloni.

Libia, Tunisia, Giorgia Meloni alla ricerca degli 'affidabili': una caccia a perdere
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Gennaio 2023 - 16.09


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Alessandra Ziniti e Nello Scavo sono tra i non molti – a far loro buona compagnia, per citarne alcuni,  Sergio Scandura, Nancy Porsia, Francesca Mannocchi – che il Mediterraneo e la Libia conoscono e raccontano da tempo e con una capacità analitica e d’inchiesta di grande spessore. 

Alla caccia di “affidabili”

Scrive Ziniti su Repubblica: “L’aumento esponenziale degli sbarchi in questi due mesi e mezzo di governo preoccupa Giorgia Meloni. Del tutto evidente che il decreto anti Ong (che dovrebbe essere calendarizzato per l’esame dell’aula a fine mese) non basta certo a frenare i flussi migratori decuplicati, in questi primi dieci giorni dell’anno, rispetto allo stesso periodo del 2021. Per questo la premier ha convocato oggi pomeriggio a Palazzo Chigi i suoi vice Matteo Salvini e Antonio Tajani, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il capo dell’Intelligence Elisabetta Belloni.

Sul tavolo l’urgenza di trovare interlocutori affidabili in Libia e Tunisia per bloccare le partenze e il passaggio operativo al cosiddetto “Piano Mattei” per l’Africa, accordi di partenariato con i Paesi di origine e transito con l’offerta anche di quote di ingressi legali in Italia per chi accetterà i rimpatri dei migranti irregolari e per chi collaborerà a frenare le partenze.

Prima missione venerdì in Turchia

Si comincia dalla Turchia venerdì. Al ministro degli esteri Tajani il compito di aprire un dialogo con il governo di Ankara non solo per intervenire sulla rotta turco-greca che continua a portare in Italia migliaia di migranti (quasi tutti siriani, afghani, iracheni) che arrivano in barca a vela o grossi pescherecci ma soprattutto per cercare, attraverso la Turchia, Paese che ormai ha assunto la massima influenza in Libia, un aggancio con interlocutori affidabili  e lavorare per la stabilità del governo del Paese. Lunedì anche il ministro dell’Interno Piantedosi sarà in Turchia per un incontro con il suo omologo.

La prossima settimana a Tunisi

A Tunisi, invece, la prossima settimana ancora Tajani, e subito dopo forse anche Piantedosi, offriranno una quota di ingressi legali del decreto flussi appena approvato dal governo in cambio di un aumento dei rimpatri di migranti tunisini ( al momento il governo tunisino accetta due voli a settimana) e di un efficace intervento della guardia costiera tunisina per fermare i tanti barchini su cui, ormai da settimane, i pescatori trasformatisi in veri e propri trafficanti fanno salire non più solo giovani e famiglie tunisine ma migliaia di donne, uomini, bambini in arrivo dall’area subsahariana o ceduti loro dai trafficanti libici. Un aumento del giro d’affari che rischia di far aumentare a dismisura gli arrivi su Lampedusa che a gennaio conta numeri di sbarchi inediti per i mesi invernali”.

E questi sarebbero gli “affidabili”?

Leggete quello che scrive in proposito Nello Scavo su Avvenire: “

Ogni barcone è un messaggio. Anzi un ricatto. I destinatari sono i soliti: Italia e Ue. I mittenti anche. Le richieste sono sempre uguali: legittimazione politica, flussi di cassa, potere personale dei boss con ambizioni politiche. Di questi ultimi, però, non c’è traccia nel dibattito pubblico. Fantasmi, come le vittime delle violazioni dei diritti umani.

L’ultimo a cercare di accreditarsi presso Italia e Bruxelles si chiama Emad Trabelsi. Il 29 dicembre ha incontrato una nostra delegazione, che si è mossa con molta cautela. A Roma non se ne parla. A Tripoli è su tutti i media.

Nelle foto fatte uscire sulle testate libiche si vedono il prefetto Lamberto Giannini, capo della Polizia di Stato, e il Direttore dell’Aise, il generale Giovanni Caravelli, dialogare a debita distanza con lo staff di Trabelsi. Poi le foto di rito, ma nessuna pubblica stretta di mano. Entrambi gli emissari italiani, a giudicare dai numerosi scatti, se ne guardano bene.

Il curriculum di Trabelsi è noto agli addetti ai lavori. Con la sua storia, è uno di quei personaggi che può decidere quando aprire e quando socchiudere le rotte dei barconi e quelle di altri traffici illeciti. Ama farsi ritrarre con i Ray Ban scuri fin da quando era un giovanissimo mammasantissima dell’estremo ovest, al confine con la Tunisia. Il premier Dbeibah lo ha designato ministro dell’Interno, dopo avergli preparato il terreno arruolandolo da sottosegretario.

Il suo è il dicastero chiave per il controllo delle milizie e degli affari che tengono insieme i traffici di petrolio, migranti, armi, controllo del territorio e rapporti con i salotti europei. Il ministero inoltre dispone di una sua “guardia costiera” e di milizie affiliate, travestite da polizia territoriale, che a loro volta controllano i campi di prigionia dei migranti e decidono quando chiudere un occhio davanti alle coste e quando ostacolare i trafficanti concorrenti.

Già nel 2018 il dipartimento di Stato Usa (presidenza Trump) nel rapporto annuale sulle violazioni dei diritti umani nel mondo confermava una ricostruzione del gruppo di esperti Onu sulla Libia. Tra i nomi c’era quello dell’ambizioso Trabelsi, indicato come «comandante della Forza per le operazioni speciali di Zintan, nel frattempo nominato a capo della Direzione generale della sicurezza». Secondo le accuse, Trabelsi è stato «beneficiario di fondi ottenuti illegalmente».

Gli esperti Onu spiegavano che il capo milizia aveva imposto un tariffario per i transiti sul suo territorio: «5.000 dinari libici (3.600 dollari) per ogni autocisterna contenente prodotti petroliferi contrabbandati attraverso i posti di blocco sotto il suo controllo nel nord-ovest della Libia». Dopo aver pagato il “pedaggio” in contanti agli uomini di Trabelsi, ha rivelato Sergio Scandura per Radio Radicale pochi giorni fa, gli idrocarburi potevano entrare illegalmente in Tunisia. Un giro d’affari da decine e decine di milioni di euro all’anno.

Quando Emad Trabelsi ebbe il suo primo incarico di governo, passando da sceriffo di confine a sottosegretario agli Interni, il capo della Commissione nazionale per i diritti umani in Libia (Nchrl), Ahmed Hamza, protestò con il premier Dbeibah affermando che l’uomo dei clan di Zintan «è uno dei peggiori violatori dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale in Libia».

L’intelligence italiana queste cose le sa. E dovendo barcamenarsi con i continui cambi di governo e ministri (in Italia come a Tripoli), si trova spesso a dover rifare i conti. A Tripoli, inutile dirlo, la stabilità in politica è una chimera. A decidere sono milizie, fazioni, clan, capibastone. Uno Stato-mafia che non si accontenta più di venire a patti con i boss, ma oramai li arruola fino ai ranghi più elevati. Abdurhaman al-Milad (il comandante Bija) è ora un pluridecorato maggiore della Marina, per il quale il governo ha chiesto invano il ritiro delle sanzioni Onu. Trabelsi si aspetta d’essere confermato ministro e altri capiclan attendono d’essere cooptati nei posti di comando.

Fonti investigative internazionali sostengono che lo spostamento progressivo delle partenze di barconi dalla Libia alla Tunisia sia il frutto di accordi tra gruppi di criminali a cavallo tra i due Paesi. «Se i migrani partono dalla Tunisia – spiega la fonte da Tripoli – non si potrà più dire che é tutta colpa della Libia, spesso accusata di non volere mettere un freno al traffico di esseri umani».

La crudeltà dei trafficanti di vite «non conosce limiti: da qualche mese a Lampedusa i migranti arrivano anche a bordo di barchini in lamiera. Imbarcazioni di pochi euro, saldate malamente e pronte ad affondare alla prima onda», continua a denunciare Pietro Bartolo, per anni medico delle continue emergenze sull’isola e adesso europarlamentare. In questi giorni si è recato di persona a fotografare i natanti. Hanno l’aspetto di bare scoperchiate.

«Imbarcazioni mai viste prima – dice Bartolo – , con sottili lastre di lamiera e pochi punti di saldatura». Una modalità su cui lavora la Squadra Mobile della polizia di Agrigento e la procura della città dei Templi. Investigatori a cui si deve gran parte della ricostruzione degli organigrammi criminali sulle coste libiche. «Bisogna andare a fondo, anche perché – ricorda l’europarlamentare – con la Libia il nostro Paese ha appena rinnovato un accordo per il sostegno alla loro guardia costiera».

Così Scavo.

Prossimamente il ministro degli Esteri Antonio Tajani si recherà in Tunisia. Per stringere accordi e cercare, pure lì, gli “affidabili”.

Intanto, aumentano sempre più i barconi che partono da Sfax e dintorni. «La Guardia costiera tunisina fa il possibile, ma la pressione è enorme», ammette una voce del nostro ministero dell’Interno. La diretta conseguenza è che nel corso dell’anno appena trascorso sono sbarcati da noi 18.148 tunisini. E con loro, sono sempre più i migranti che fuggono dall’Africa e che non passano più per gli orrori della Libia per affidarsi ai trafficanti tunisini. 

La rotta tunisina

Arrivano nelle aree di Porto Empedocle, Sciacca, Licata, nell’Agrigentino, su barconi di legno di 10-12 metri, che spesso vengono anche abbandonati. In alcuni casi gli occupanti delle imbarcazioni riescono a scendere e far perdere le loro tracce, in altri gli uomini della Guardia di Finanza o della Capitaneria di porto li hanno individuati.  Più a ovest, verso Trapani o Mazzara, gli immigrati sbarcano, invece, da gommoni che portano dalle 20 alle 40 persone alla volta. In alcuni casi, assieme agli esseri umani, sono stati recuperati anche carichi di sigarette o stupefacenti. 

E’ la rotta tunisina, che attraversa il confine tra Tunisia e Libia. A confermarlo è Reem Bouarrouj, responsabile immigrazione di Ftdes (il Forum des Droits Economiques et Sociaux ): “Tra gli immigrati in Libia – dice – sta iniziando a circolare la voce. Sanno che la Guardia Costiera e le milizie impediscono le partenze dalla costa e così puntano alla Tunisia”. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nord Africa.

Annota Paolo Howard ,in un documentato report su Affari Italiani: “Considerare la rotta tunisina quale mera alternativa a quella libica appare riduttivo. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri…I protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna”.

A Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da Paesi che non sono solo più di transito, per migranti e rifugiati, ma di origine. E’ il caso, per l’appunto, della Tunisia. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri. Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna.

“Mi sento morto. Il mio paese non mi rispetta, non ho più alcuna speranza. L’unica speranza che ho è partire.” Intervistato nel centro di Tunisi da un’emittente televisiva, così racconta con lucida, drammatica fermezza un giovane che si appresta la notte stessa ad attraversare il mare con un gruppo di amici. 

I fattori che spingono le persone a intraprendere un viaggio pericolosissimo si sono moltiplicati a seguito della pandemia, secondo Romdhane Ben Amor, responsabile comunicazione presso il Ftdes. È interessante notare il mutamento del fenomeno: non solo giovani uomini, ma sempre più donne e famiglie decidono di intraprendere il progetto migratorio alla ricerca di una vita migliore in Europa. “Oltre ai fattori socio-economici, la scintilla che ha scatenato quest’ultima ondata migratoria è da ricercarsi nella crisi politica che si protrae da febbraio. Un altro elemento è la rete di trafficanti dietro al quale si cela un’intera economia sotterranea — dalla logistica alla concezione delle imbarcazioni — che sta iniziando ad emergere nelle regioni, in particolare nelle regioni costiere.”

Chi decide di migrare oggi ha maggiori informazioni riguardo ai diritti che tutelano i migranti. “La famiglia era il primo ostacolo per il progetto migratorio dei giovani. Ma questa resistenza comincia a diminuire in quanto i genitori, esasperati dalla loro condizione, si rendono conto che il percorso educativo dei loro figli non garantisce più la riuscita della famiglia e la possibilità di migliorare la loro condizione sociale. Le famiglie cominciano allora a investire in questo progetto, considerando la garanzia di non rimpatrio dei figli minori, o l’assistenza che i familiari con problemi sanitari e handicap possono ricevere.”

 Alla luce della crisi politica, istituzionale e sociale che scuote la Tunisia, acquista una valenza “profetica” quanto ebbe a dire a Globalist . Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo: Quello compiuto in questi dieci anni non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”. La Tunisia in crisi racconta una verità universale: senza giustizia sociale pace e stabilità sono una illusione. 

E la certezza che sempre di più, soprattutto i giovani, cercheranno un futuro altrove, anche a rischio della vita. E non saranno i decreti alla Piantedosi a fermarli. 

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