C’è una rivoluzione in corso nel mondo. E’ la rivoluzione iraniana. Una rivoluzione è molto più di una rivolta, di una protesta per quanto sempre più estesa (oltre 161 città coinvolte). Rivoluzione è consapevolezza di sé, è chiarezza degli obiettivi che s’intendono perseguire. Rivoluzione è cambiamento radicale e non qualche concessione strappata al regime che si combatte. Tanto più quando il regime in questione, quello teocratico-militare iraniano, risponde alle richieste dei manifestanti con l’unico linguaggio che conosce: quello della repressione. Brutale, sistematica.
I martiri
Una rivoluzione ha anche i suoi eroi, i suoi martiri. Un giovane poco più che trentenne è morto in Iran dopo venti giorni di coma a seguito di torture.
Era stato arrestato, pestato e poi rilasciato proprio per paura che morisse in cella.
Si chiamava Mehdi Zare Ashkzari e a rendere la sua agghiacciante fine ancora più ‘sentita’ in Italia è il legame con Bologna e con la sua università in particolare, dove Mehdi aveva studiato farmacia, prima di rientrare in patria due anni fa.
Ed è Amnesty International Italia a diffondere le prime informazioni sul caso. Poi il messaggio di Patrick Zaki che, con la scomparsa del trentenne iraniano, sottolinea come l’Università di Bologna abbia “ora una nuova vittima della libertà di espressione”. Parole disarmanti quelle dello studente egiziano rimasto in prigione in patria per due anni per reati d’opinione, quando commenta: “Purtroppo, questa volta, era troppo tardi per salvarlo”.
E’ però poi il fiume di reazioni, di testimonianze e di affetto di chi lo conosceva e aveva condiviso con Mahdi gli anni universitari che fa della città italiana la cassa di risonanza di questo ennesimo caso shock proveniente dall’Iran. Mehdi Zare Ashkzari “era uno di noi”, dice all’Ansa Sanam Naderi, iraniana che vive a Bologna, “era conosciutissimo, molti studenti sono stati da lui, hanno mangiato la pizza dove lavorava. Era sempre sorridente”.
Mehdi si era iscritto all’università nel 2015 e per un periodo aveva lavorato come fattorino, per mantenersi agli studi, poi come aiuto-cuoco in una pizzeria. Due anni fa era tornato in Iran per stare vicino alla madre che stava male, poi la madre è deceduta, come racconta un altro suo amico, Ali Jenaban: “L’ultima volta che l’ho sentito era felice, mi diceva ‘con la famiglia andiamo avanti’. Anche lui partecipava alle manifestazioni per la libertà, per trovare quello che vogliamo tutti noi”. “Abbiamo avuto la notizia della morte solo ieri sera perché i familiari non avevano detto niente per non avere problemi nel fare il funerale, altrimenti il regime non rilascia il corpo”, racconta Sanam. “Domani ti seppelliranno accanto alla tomba di tua madre è li ritroverai la pace, ma mi raccomando non farle vedere i segni delle botte e dei lividi e il tuo naso rotto”, scrive un parente.
La comunità attorno all’ateneo bolognese è sconvolta:“Accogliamo la notizia con sgomento, dolore, indignazione ed esprimiamo il nostro cordoglio alla famiglia e la nostra solidarietà a tutte le iraniane e a tutti gli iraniani che, anche nelle Università, stanno lottando e soffrendo per i valori che ci sono più cari”, ha commentato il rettore di Bologna, Giovanni Molari. “L’università e la città di Bologna continueranno a chiedere giustizia e l’intervento delle istituzioni”, gli ha fatto eco la professoressa Rita Monticelli, coordinatrice del Master Gemma frequentato da Patrick Zaki e delegata del sindaco ai diritti umani e al dialogo interreligioso e interculturale, intervenendo alla marcia della pace in città. E dal palco della marcia la vice sindaca di Bologna, Emily Clancy, lancia un messaggio di solidarietà: “Da Bologna mandiamo un pensiero molto forte alla famiglia di Mehdi Zare Ashkzari. A tutti coloro che lottano per la libertà di donne e uomini in Iran. Mandiamo un forte abbraccio di fratellanza e sorellanza alla comunità iraniana”. Gli occhi del mondo restano così puntati sulla feroce repressione iraniana anche con l’inizio di questo nuovo anno, e proprio in seguito ai festeggiamenti nella notte sono stati arrestati a Damavand, vicino alla capitale iraniana, alcuni ex e attuali calciatori di una nota squadra di Teheran, per aver partecipato a una festa di Capodanno con uomini e donne e aver consumato alcolici. Lo scrive l’agenzia iraniana Tasnim. Dagli ultimi aggiornamenti risulta che lo stato di fermo per gli sportivi sia comunque durato poco, e siano stati rilasciati dopo poco. L’episodio rimarca però il fatto che dalla Rivoluzione islamica del 1979 in Iran è vietato partecipare a feste miste, con uomini e donne, e bere alcolici. Intanto è stato anche rilasciato il giornalista dissidente Keyvan Samimi, che era in carcere dal dicembre 2020 accusato di “tramare contro la sicurezza nazionale”.
Stando a quanto appreso da Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, il ragazzo è stato torturato “al punto che dopo essere entrato in coma è morto. Non è la prima volta che il regime iraniano rilascia un prigioniero per non farlo morire in carcere. Purtroppo il 2023 inizia come è finito il 2022, con sangue e morti nelle piazze e nelle carceri, non va abbassata l’attenzione. Nemmeno sul caso di Zaki, sono storie che ci appartengono”. Alle violenze farebbe riferimento anche il messaggio di un parente che gira tra gli studenti iraniani: “Domani ti seppelliranno accanto alla tomba di tua madre, ma non farle vedere i segni delle botte e dei lividi e il tuo naso rotto, che hai subito nella detenzione”.
La rivoluzione non si ferma
Ne scrive, con accuratezza e sensibilità, Antonella Alba per Rai News: “Continuano le proteste anti-regime in Iran. Al grande Bazar di Teheran, c’è stato un altro appello per nuovi scioperi e nuove serrate dei negozi. I manifestanti hanno urlato slogan di “morte al dittatore” e “pace sia sui martiri”.
Nei quartieri di Pachnar, Moshir Khalwat, Hamam Chal, Reza Bazaar chiusi anche i venditori d’oro, dei cellulari e delle scarpe, oltre ai famosi bazar Galubandak e Marvi. La polizia è intervenuta in diversi blitz.
La gente si era riunita al sit-in dopo un appello degli attivisti per esprimere solidarietà ai proprietari dei bazar e dei mercati che continuano a scioperare e a protestare da oltre tre mesi dopo essere stati colpiti dalla grave crisi economica a causa dell’aumento dei prezzi della valuta estera delle ultime settimane.
Nonostante Internet sia bloccatonelle aree circostanti il mercato, alcuni video diffusi sui social network, mostrano le forze di sicurezza disperdere i manifestanti, usando lacrimogeni e piccoli proiettili solo in apparenza non nocivi. Diverse le foto che mostrano i giovani colpiti ai genitali e agli occhi.
Manifestazioni si tengono anche nelle città di Semirom, Najafabad, Zahedan, Marvdasht, Izeh, e soprattutto a Kermanshah e nella città curda di Javanrud dove un almeno un manifestante è rimasto ucciso. Si tratta di un ragazzo di 22 anni,Borhan Elyassi, raggiunto da un colpo di pistola.
In molti si erano radunati nella città per partecipare alle celebrazioni del 40/o giorno di morte di 7 manifestanti rimasti uccisi in precedenti manifestazioni. La polizia ha quindi chiuso le strade per accedere al cimitero creando tafferugli con la popolazione.Il 40/o giorno dalla morte di una persona è una tradizione molto osservata nel Paese.
La gente ha gridato slogan come “morte al dittatore, morte a Khamenei” e “i mullah devono andarsene per ricostruire l’Iran”. Anche a Najafabad, la polizia si è scontrata con i manifestanti che scandivano: “i nostri dollari sono in Libano, i nostri giovani sono in prigione”, riferendosi al sostegno dell’Iran alle milizie sciite libanesi di Hezbollah.
Foto della guida suprema Ali Khamenei continuano a essere bruciate dopo le preghiere del venerdì a Zahedan nella provincia del Sistan-Balucistan la gente per lo più di etnia Baluchi (Islam sunnita) è scesa in piazza. “L’esercito commette crimini, Khamenei lo sostiene” hanno gridato i manifestanti.
Il regime a guida religiosa continua a soffocare le proteste pacifiche e a reprimere anche la stampa. E’ il caso della giornalista Vida Rabbani, condannata a più di sette anni di carcere. Scriveva per il giornale Shargh e sul settimanale Voice. E’ accusata di minaccia contro la sicurezza del paese e di propaganda contro il regime.
Attualmente si trova a Evin, dove si trovano anche Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi tra le prime a scrivere sul caso di Mahsa Amini. Ma nelle carceri del Paese si trovano più di 60 giornalisti.
Sono i Pasdaran ad aver avuto il mandato dagli ayatollah di reprimere le manifestazioni pacifiche. Le loro mani e quelle delle milizie basij si sporcano di sangue ogni giorno che passa: studenti, lavoratori, uomini e donne che nonostante le minacce del regime si tolgono il velo o protestano nelle strade anche a costo della vita, invocando riforme economiche e sociali strutturali. Le Guardie della rivoluzione non arretrano di un centimetro, se la prendono anche con gli esuli e i media all’estero: “Sappiamo chi siete e vi daremo una dura risposta, uno per uno”, ha avvertito il portavoce delle Guardie della rivoluzione, generale Ramezan Sharif, rivolgendosi ai media iraniani dissidenti all’estero, per il loro presunto ruolo nelle proteste in corso in Iran. “Tali media dissidenti, come Bbc persian, Iran international, Voa e Manoto e i social media, che sono elementi dei nemici, hanno cercato di influenzare le menti del popolo iraniano durante le attuali proteste contro il sistema”, ha sottolineato Sharif. Gli ayatollah sono convinti che le proteste in corso nel paese siano fomentate da copiose “ingerenze” straniere, soprattutto da parte di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita.
“Un attore, un radiologo, un karateka, un impiegato e un ingegnere. Sono tutti accusati dello stesso omicidio, anche se non si conoscono e si sospetta che la loro confessione sia stata estorta con la violenza – annota l’Ispi in un recente report – Il Guardian ha riportato le loro storie è solo una goccia nell’oceano della repressione della repubblica islamica, ma ben dimostra cosa sta succedendo ai giovani che manifestano in Iran. Secondo l’ong Iran Human Rights, almeno 100 i cittadini iraniani che rischiano la pena capitale per reati che sarebbero stati commessi nel corso delle proteste iniziate a settembre dopo l’uccisione di Mahsa Amini, la 22enne morta durante un fermo di polizia per via del velo indossato male. E in questi oltre 100 giorni di protesta, la repressione della teocrazia iraniana ha ucciso almeno 472 persone,
a tra cui 64 bambini e 34 donne. La protesta è iniziata proprio dalle donne, che dopo la morte di Amini hanno sfidato il regime contro l’obbligo del velo, ma si è presto estesa a tutte le fasce sociali nonché regioni dell’Iran, contro il conservatorismo delle autorità della repubblica islamica. E secondo quanto riporta El Pais, la scacchista Sara Khadem, nota per aver gareggiato a un torneo in Kazakistan senza il velo obbligatorio, si trasferirà in Spagna e probabilmente non giocherà più in rappresentanza del suo paese.
100 condannati a morte?
Secondo un rapporto dell’organizzazione basata in Norvegia Iran Human Rights (IHR), sono almeno 100 le persone che rischiano l’esecuzione. Si tratterebbe, però, di un numero inferiore a quello reale. L’ong sostiene infatti che molte famiglie siano state minacciate di non rivelare sentenze o accuse di cui devono rispondere loro parenti. A tutti i 100 condannati o accusati non è stato garantito il diritto a un avvocato e a un giusto processo. Il rapporto sottolinea che nei casi in cui ci sia stato un contatto con gli accusati questi abbiano tutti dichiarato di esser stati sottoposti a tortura fisica o psicologica per estorcere false confessioni. Alcuni dei capi di accusa più comuni sono “inimicizia contro Dio” e “corruzione sulla Terra”. Secondo il direttore di IHR, Mahmoood Amiry-Moghaddam, “con le sentenze di condanna a morte, e con alcune loro esecuzioni, le autorità intendono mandare a casa le persone […] in generale abbiamo visto ancora più rabbia contro le autorità e questa strategia dell’intimorire attraverso le esecuzioni è fallita”.
Lettera dal carcere
Ne dà conto, sempre su RaiNews, Laura Aprati. “Narges Mohammadi, un’importante attivista per i diritti umani in Iran, ha scritto dal carcere per fornire alla Bbc, dettagli su come le donne detenute nelle recenti proteste antigovernative subiscano abusi sessuali e fisici e ha affermato che tali aggressioni sono diventate più comuni nelle recenti proteste.
L’attivista racconta che alcune delle donne arrestate, durante le manifestazioni, sono state trasferite nella sezione femminile della prigione di Evin. Proprio in questa terribile prigione ha avuto modo di incontrarle e ascoltare dettagli degli abusi subiti: un’attivista è stata legata mani e piedi a un gancio sul tettino del veicolo che l’ha portata in carcere ed è poi stata violentatadagli agenti di sicurezza. Mohammadi, che ha scritto di aver visto cicatrici e lividi sui corpi delle compagne di cella, ha invitato a denunciare quanto sta accadendo anche se questo può portare all’intimidazione delle famiglie delle donne detenute. “Non rivelare questi crimini contribuirebbe al proseguimento dell’applicazione di questi metodi repressivi contro le donne”, ha dichiarato l’attivista. “Le violenze contro le donne attiviste, combattenti e manifestanti in Iran dovrebbero essere riportate ampiamente e con forza a livello globale”, ha concluso Mohammadi, dicendosi convinta che le “donne coraggiose, resilienti e piene di speranza” dell’Iran vinceranno: “Vittoria significa instaurare la democrazia, la pace e i diritti umani e porre fine alla tirannia”.
Mohammadi, vicecapo del Centro per i difensori dei diritti umani dell’avvocato premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi,è stata oggetto di diverse condanne dal 2011 ed è attualmente in carcere per “diffusione di propaganda”. Quest’anno è entrata nella lista della Bbc delle 100 donne “più ispiranti e influenti” del mondo. Prigionieri politici di spicco in Iran, ma che non sono in isolamento, sono spesso in grado di comunicare con il mondo esterno tramite le loro famiglie o altri attivisti”.