Così i giovani tentano di salvare gli Stati Uniti dal malanno dominazionista e difendono i diritti
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Così i giovani tentano di salvare gli Stati Uniti dal malanno dominazionista e difendono i diritti

Nelle elezioni di Midterm l'ondata repubblicana è stata arginata dai giovani andati a votare in un numero che non ha precedenti per motivi che non dipendono dall’economia

Così i giovani tentano di salvare gli Stati Uniti dal malanno dominazionista e difendono i diritti
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

10 Novembre 2022 - 12.35


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Comunque vada a finire la conta dei voti e dei seggi in America, siamo già certi che il risultato è uno: la tanto annunciata onda trumpista non c’è stata. Sono stati i giovani ad arginarli, andando a votare in un numero che non ha precedenti per motivi che non dipendono dall’economia, di solito indicata come l’unica valvola capace di spingere al voto, ma dai diritti e dalla libertà, usualmente definiti orpelli inutili quando si tratta di decidere chi andare a votare. La cura economia che Biden ha offerto all’economia americana non è infatti di quelle da far leccare i baffi agli elettori: gli indicatori sono tutti verso giù, non all’insù. Ma i giovani americani hanno smentito che aborto, immigrazione, discriminazione razziale, pena di morte, libertà individuali, siano temi superflui. Non li riterranno decisivi per sbarcare il lunario, ma hanno capito che sono davvero in pericolo e hanno deciso di andare a votare per l’anziano, confuso nonno Joe. 

E’ la conferma che ogni società può ammalarsi, anche gravemente, di mali bruttissimi, anche una società affluente come quella americana. Ma sono i giovani a indicare se la speranza di poter curare quel corpo sociale sia alta o bassa, minima o ben radicata. A me sembra che l’America possa guardarsi con soddisfazione e per tanto impaurita dirsi “posso guarire”. Ce la può fare con  l’America del sogno di Martin Luther King, con l’America che pianse John e Robert Kennedy,  con l’America di Springsteen, con l’America dei figli o nipoti di chi disse no alla guerra in Vietnam. E’ l’America degli americani che dopo l’incubo di Ellis Island hanno avuto anche il sogno dell’integrazione e la gratificazione del successo, è l’America che chiama i neri “afroamericani”, è l’America di cui cioè non parliamo, che non vogliamo vedere, riconoscere, apprezzare. In questa America che ce la può fare c’è anche quella che ci venne salvare dal nazifascismo. Non erano pochi quelli che ritenevano preferibile il non intervento, restar fuori dalla guerra, che non è mai la soluzione. In quel caso, per noi almeno, lo fu. Sono casi limite, certo, e quindi casi che non vanno usati per abusarne e legittimare ogni guerra ci faccia comodo fare. Quella contro i rossi di Ho Chi Min ad esempio era coloniale e i giovani americani, in gran numero, dissero no. E’ nato lì il pacifismo, o no? “Yankee go home”… 

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Poi anche la società americana si è ammalata, il malanno dominazionista loro già lo conoscevano, eccome, si sono definiti “benedetti da Dio” senza mai riuscire spiegare perché mai, ma per fortuna tra tanti errori e orrori gli anticorpi hanno speso prevalso. Ora sembrava che la società avesse ceduto di schianto, la rabbia degli impoveriti è diversi da quella dei poveri e l’America impoverita e incerta di sé sembrava aver scelto in massa e di nuovo la rabbia, la paura, in una parola Trump. Non è andata così, non è così. E il fronte di resistenza più forte, più compatto, più confortante, è quello incarnato dai giovani, che non per la tasca ma per l’aria fresca sono andati a votare in massa per nonno Joe. E’ un filo, una speranza, che riguarda anche noi. Nonostante da noi i settori più lontani dal populismo identitarista siano intrisi di un profondo e ingiustificabile antiamericanismo, se hanno una speranza di poter dire ancora qualcosa, domani, questo lo devono ai giovani americani. 

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Ma il famoso nonno Joe non è stato da meno, nel costruire questa speranza che riguarda anche noi. Non era facile andare contro il senso comune e sfidare ogni logica di chiusura nel proprio tornaconto più ristretto, con le minoranze, con le donne, con i migranti, con i diritti degli ucraini. Non fu Trump a definire Putin un genio quando invase l’Ucraina? E’ sicuro che oggi ripeterebbe le stesse, identiche parole? Proprio un genio? E’ sicuro The Donald? 

Chi ha costruito il pacifismo contro il proprio potere colonialista , chi ha osato sfidare la follia dei neocon ai tempi dell’invasione di Baghdad, può anche dirci una volta che pace non vuol dire arrendevolezza all’ aggressore, come non vuol dire ovviamente tacere sull’espansionismo sempre caro al Pentagono. La pace è prodotto faticoso, un lavoro quotidiano, che comporta anche azioni in difesa di patrie e persone. 

Questa complessa difesa dei valori che ci hanno salvato nella seconda metà del Novecento e che poi sono stati sfidati da altri totalitarismi, incluso quello finanziario,  oggi va aggiornata, ma ricordando il valore di fondo, la giustizia unita alla libertà: sono questi i due poli sui quali si in equilibrio e tensione la pace e la democrazia. Questo i giovani americani lo hanno capito meglio di noi. Il coraggio di ammetterlo, con onestà e trasparenza, potrebbe consentirci di ritrovare dei giovani italiani capaci di uscire dal rifiuto di un voto che appare inutile e tornare alle urne, dando anche a noi una speranza.  

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