Libia, il blocco navale ordinato dall'aspirante premier Meloni: una follia che può diventare realtà
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Libia, il blocco navale ordinato dall'aspirante premier Meloni: una follia che può diventare realtà

L'ex missina spara soluzioni facili ma un blocco navale, in assenza di una risoluzione Onu o della richiesta del Paese interessato, è un'azione di guerra. Si fa contro un nemico

Libia, il blocco navale ordinato dall'aspirante premier Meloni: una follia che può diventare realtà
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

28 Luglio 2022 - 14.52


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So bene che è uno sforzo titanico. E anche un po’ masochistico. Ma provate per un attimo a immaginare questa scena. Ottobre 2023: riunione dei vertici militari con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. All’ordine del giorno: come contrastare l’”invasione” di migranti provenienti dalla Libia. La premier ascolta, valuta, medita. E decide: occorre il blocco navale. E’ un suo vecchio cavallo di battaglia, solo che adesso potrebbe avere il potere di concretizzarlo se la destra dovesse vincere le elezioni.

L’”ammiraglia prima ministra”

“Il blocco navale che chiede Fratelli d’ Italia è una missione militare europea, fatta in accordo con le autorità del Nord Africa, per impedire ai barconi di partire in direzione dell’Italia.  È l’unica misura seria per contrastare il business dell’immigrazione clandestina e fermare una volta per tutte le morti in mare. Ma capisco sia un discorso troppo difficile da comprendere per i paladini dell’accoglienza a tutti i costi”. Così su Facebook la presidente di Fratelli d’ Italia, il 10 maggio 2021.

Ora, per implementare il blocco navale – rileva un report del Geopolitical Center – dovrebbero  essere impiegati almeno 5000 uomini sul terreno, a difesa delle struttura strategiche, 4/6 droni da media e bassa quota per la sorveglianza delle coste, una nave con funzioni di comando e capacità di appoggio aereo per la quale immaginiamo la portaerei Cavour, due cacciatorpediniere per la protezione aerea nel caso in cui un Mig libico volesse compiere un attacco contro la nostra portaerei, una decina di unità minori, corvette e pattugliatori per imporre fisicamente il blocco navale e chiare regole di ingaggio, onde evitare che i nostri uomini diventino bersagli impotenti di terroristi e scafisti. 

Se si vuole stabilizzare per davvero la Libia, dice a Globalist il generale Fabio Mini, ex comandante Nato, ora brillante saggista, servirebbero ”come minino 50 mila uomini per controllare il territorio, fermare le auto, sorvegliare gli spostamenti, schedare le persone”. E occorrerebbe mettere in conto almeno 50 morti a settimana.

Gli fa il generale Franco Angioni, già comandante del contingente italiano nella missione di pace “Libano 2” e delle Forze Terrestri Alleate del Sud Europa. “Voler considerare la Libia di oggi come se si trattasse di una nazione organizzata su principi di carattere politico e strategico tradizionali, è una bestemmia – annota Angioni -. L’attuale confusione esistente in quest’area nordafricana a noi particolarmente conosciuta non consente di esprimere sulla Libia di oggi qualsiasi considerazione logica e avveduta. A regnare oggi in Libia è il caos, un caos armato, è la confusione, l’illecito, la malvagità, gli interessi più abietti che possono essere presi in considerazione in una comunità umana. La tragedia della Libia coinvolge esseri umani che con la Libia non hanno nulla a che fare e che anzi sarebbero ben felici di non essere in quel territorio, in quell’inferno.  Purtroppo per l’umanità, la Libia è la meta di decine di migliaia di persone dell’Africa disperate al punto di essere disposte a correre il rischio di essere uccise pur di avvicinarsi all’Europa. La Libia – rimarca il generale Angioni – è ancor oggi una ‘palestra’ di arroganza nella quale agiscono attori esterni che conducono una guerra per procura. Pensare di poter affrontare questa situazione con qualche nave è una sciocchezza, una pericolosa sciocchezza. Sarebbe auspicabile che un organismo sovranazionale, come l’Onu ad esempio, imponesse con decisione la propria presenza non tanto per risolvere la drammatica situazione che segna la Libia ma almeno per ridurre il numero delle vittime”.

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“Un blocco navale, in assenza di una risoluzione Onu o della richiesta del Paese interessato, è un’azione di guerra. Si fa contro un nemico. Sarebbe controproducente. Siccome in nessun caso viene meno il dovere di salvare le vite dei naufraghi, i barconi punterebbero contro le navi del blocco”. Lo afferma al Corriere della Sera, il generale Claudio Graziano, a quei tempi Capo di Stato Maggiore della Difesa. 

Impossibile pensare di attuare un blocco navale davanti alle coste libiche: una soluzione “irrealizzabile” sia da un punto di vista giuridico che tecnico-logistico, oltre che dai costi elevati, e che “riporterebbe l’Italia nella stessa situazione dei respingimenti del 2009”, per i quali il nostro Paese è stato condannato della Corte di Strasburgo. A dirlo all’Adnkronos è Fabio Caffio, ammiraglio in congedo e tra i massimi esperti di diritto internazionale marittimo, che sottolinea come, “in assenza di accordi con i Paesi costieri africani, una interdizione navale come quella proposta da Maroni comporterebbe una violazione della convenzione di Ginevra”. D’altronde, spiega Caffio, “basterebbe non avere la memoria corta e guardare al passato recente per capirlo. Nel 2009, quando proprio Maroni era ministro dell’Interno, l’Italia, grazie ai rapporti stretti con Gheddafi, firmò un accordo di cooperazione che prevedeva i respingimenti”, con i libici che, oltre a pattugliare le loro acque territoriali, “si impegnavano a riprendere indietro i barconi intercettati in quelle internazionali”. In osservanza del diritto del mare che obbliga al soccorso, “i migranti venivano fatti salire sulle navi italiane, con l’intenzione però di riportarli indietro”. In quelle circostanze, “si dovette ricorrere, in alcuni casi, a forme di coercizione perché i migranti si ribellavano al ritorno in Libia”.

Da quei frangenti, continua Caffio, “nacque il caso Hirsi Jamaa -uno dei migranti respinti nel maggio del 2009 che presentò ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo- che terminò poi con la condanna al nostro Paese, una vicenda che ha danneggiato gravemente la nostra immagine, facendoci apparire una sorta di ‘Stato canaglia’ che non rispetta i diritti umani”. Se fino al 2011 c’erano dei dubbi sull’applicabilità in alto mare, è quindi ormai chiaro che i respingimenti sono “in netto conflitto con la convenzione di Ginevra del ’51”, mentre i libici che potrebbero farlo nelle loro acque territoriali “non prendono una posizione in merito” e il mutato quadro politico, seguito alla morte di Gheddafi ha causato una sospensione di fatto degli accordi italo-libici. 

Le considerazioni di Caffio sono dell’11 giugno 2015. L’intervista di Graziano del 21 giugno dello stesso anno. 

Scriveva, un anno fa, 2021, Stefano Vespa su formiche.it: “A parte la questione dell’impossibilità del blocco navale che si cerca di spiegare da anni, a quanto pare inutilmente, e la quasi impossibilità di cambiare regole d’ingaggio dall’oggi al domani per una missione il cui parto è stato molto doloroso, forse sfugge che sistemare navi militari di fronte alla Libia intensificherebbe le partenze perché i comandanti di quelle navi sarebbero costretti a salvare chi fosse a bordo di messi fatiscenti e a rischio naufragio. Con due effetti: aumenterebbe il numero di arrivi, anche se le persone sarebbero distribuite in più Stati e non solo in Italia, e la missione verrebbe bloccata proprio come prevedono le attuali regole d’ingaggio in caso diventasse un fattore d’attrazione per i trafficanti. Per essere credibile la coerenza di una linea politica dovrebbe calcolare anche gli effetti collaterali”.

Parlare di blocco navale, peraltro,  non può che riportare alla mente l’episodio della nave militare Sibilla: risale al 1997, 25 anni fa, ma è una ferita ancora aperta. Una corvetta della Marina causò inavvertitamente l’affondamento di un’imbarcazione albanese al largo della Puglia. I morti furono più di 100. C’era una direttiva del governo che imponeva un “blocco navale”. Il governo Prodi fu criticato dalle Nazioni Unite per aver attuato quello che de facto fu un blocco navale illegale, anche se per la precisione si trattava più propriamente di un’operazione di interdizione marittima (Mio). Nel Canale d’Otranto la Marina, su ordine del governo, applicò le procedure del cosiddetto harassment, ovvero mise in atto “azioni cinematiche di disturbo e di interdizione”. 

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Acque contese 

C’è poi la questione cruciale, anche nella vicenda del sequestro dei 18 pescatori di Mazara del Vallo, delle “acque contese”. Scrive Alessandro Puglia, in un documentato report su Vita: “Un mare dove nessuno deve vedere, scomodo, in cui ciò che è lecito viene stabilito di volta in volta, senza testimoni. Un mare dove se cali la tua rete da pesca devi stare attento perché puoi essere sequestrato, minacciato con le armi e magari rinchiuso in uno dei tanti lager dove ogni giorno centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini vengono torturati. No, questo non è un mare lontano. É il nostro mare, il Mediterraneo Ma cos’è accaduto da quando uno stato diviso in più fazioni e in guerra come la Libia ha istituito la sua zona Sarche per i non addetti ai lavori significa letteralmente “ricerca e soccorso in mare”? E cosa c’entra il Golfo di Sirte? Beatrice Gornati, dottore di ricerca in diritto internazionaleall’Università degli studi di Milano esperta in traffico di migranti nel Mediterraneo spiega: ‘Bisogna tenere presente che nel 1973 la Libia dichiarò che il Golfo di Sirte fosse parte delle sue acque interne: il Golfo fu annesso attraverso una linea di circa 300 miglia, lungo il 32°30’ parallelo di latitudine nord. Tuttavia, tale rivendicazione fu respinta da un gran numero di Stati, inclusi i principali membri dell’Unione europea (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito). A seguito di questo episodio, nel febbraio 2005, la Libia stabilì inoltre, tramite una decisione del Libyan General People’s Committee, una zona di protezione della pesca, nel rispetto della General People’s Committee Decision No. 37 del 2005. Anche in questo caso, la delimitazione stabilita dalla Libia incontrò le proteste di diversi Stati e della Presidenza dell’Unione europea: considerando infatti che la Libia aveva rivendicato il Golfo di Sirte quale parte delle sue acque interne, le 62 miglia di zona di pesca da essa reclamate sarebbero state contate a partire dalle 12 miglia dalla linea di chiusura del golfo. Peraltro, nel 2009, la Libia dichiarò una ZEE (zona economica esclusiva) ‘adjacent to and extending as far beyond its territorial waters as permitted under international law’ ,il cui limite esterno, ad oggi, non è ancora stato tracciato.  il 28 giugno 2018 lImo (Organizzazione Marittima internazionale) ufficializza quello che in passato appariva come un’utopia e registra su comunicazione delle autorità libiche la zona Sar (Search and rescue) libica con un proprio centro di coordinamento di soccorsi (Jrcc). Registrandosi sul sito è possibile consultare alcuni dati, visionare la mappa e conoscere altitudine e longitudine dell’area in questione. Muniti di carta nautica, abbiamo calcolato queste distanze. Dalla costa di Tripoli alla linea rossa di confine le miglia sono circa 116,25. É chiaro quindi perché i pescatori siciliani hanno tutto il diritto di dire oggi che da un anno a questa parte i libici ‘si sono presi mezzo Mar Mediterraneo’. Il capitano Raimondo Sudano (uno dei rappresentanti dei marinai di Mazara del Vallo, ndr) aggiunge: ‘E questo avviene anche grazie all’Italia che dà alla guardia costiera libica i mezzi di sostentamento per fare la Guerra a noi italiani che andiamo a lavorare onestamente. I libici si sono ora fatti anche furbi, oltre che con le motovedette vengono a fare gli abbordaggi in mare con le barche da pesca e subito dopo arrivano i loro gommoni e non hai neanche il tempo di chiamare le autorità italiane che vieni sequestrato con tutto il pescato e trattato come un terrorista”.

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“La paura di tornare in mare è tanta  – rimarca ancora Puglia -e si sovrappone a quel senso di abbandono da parte dello Stato che non tutela i suoi pescatori…”

Il reportage è del 24 maggio 2019. Il titolo era: “La denuncia dei pescatori siciliani: ‘così i libici si sono presi il Mediterraneo’”.

Sono trascorsi più di tre anni d’allora.. E quel titolo è drammaticamente attuale. E ciò che rende ancora più intollerabile la situazione, è che i libici “si sono presi il Mediterraneo” anche grazie ai finanziamenti italiani alla cosiddetta Guardia costiera libica – oggi sotto il controllo turco – e al fatto che, per “paura” di dover salvare migranti, le navi della nostra Marina militare non possono avventurarsi in mare aperto. Quel mare che da tempo non è più “nostrum”.

“Quisquilie”

Poi, ci sarebbe una “quisquilia” per la sovranista Meloni: lo statuto delle Nazioni Unite. . Il blocco navale è disciplinato dall’articolo 42 dello statuto delle Nazioni Unite ed è un’azione militare finalizzata a impedire l’accesso e l’uscita di navi dai porti di un Paese o di un territorio. Esso non è consentito al di fuori dei casi di legittima difesa. Inoltre “Il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato” è definito come un vero e proprio atto di aggressione, anche in assenza di dichiarazione di guerra, dall’art. 3, lettera C) della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 3314 (XXXIX) del 14 dicembre 1974. I criteri per attuarlo sono stabiliti dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e 1977 sui conflitti armati via mare.  
1)Prima di attuare il blocco navale la forza militare che lo attua deve comunicare alle nazioni terze non belligeranti la definizione geografica della zona soggetta al blocco stesso; 2) il blocco navale deve essere imparziale nei confronti delle nazioni non belligeranti; 3) una volta attuato consente la possibilità di catturare qualsiasi imbarcazione mercantile che violi il blocco e il suo deferimento a un apposito tribunale delle prede; 4) consente, altresì, la possibilità di attaccare qualsiasi imbarcazione mercantile nemica che opponga resistenza al blocco navale; 5) l’obbligo da parte della forza militare che attua il blocco di permettere il passaggio di carichi contenenti beni di prima necessità e medicinali per la popolazione locale. Per impedire l’avanzata delle navi con a bordo i migranti, le imbarcazioni militari di vedetta devono attuare delle manovre strategiche (spesso utilizzate in tempi di guerra), una di queste è la navigazione a cerchi concentrici che restringe sempre più il raggio di navigazione della nave clandestina.

Perseverare diabolicum est

La leader di FdI torna all’attacco contro l’immigrazione clandestina, rilanciando la vecchia idea del blocco navale per difendere i confini dell’Italia Scrive Meloni: “Le politiche immigrazioniste hanno gettato nel caos la Nazione. Da tempo Fratelli d’Italia propone il blocco navale, una missione europea in accordo con le autorità nordafricane per impedire partenze verso l’Italia e morti in mare. Difendere i confini significa difendere l’Italia”, rimarca  Meloni.

E questo a far data 28 luglio 2023.

Ora le spara da candidata. Ma se il 25 settembre…Meditate, gente, meditate.

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