Israele, 55 anni di occupazione: l'immoralità si fa "Stato"
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Israele, 55 anni di occupazione: l'immoralità si fa "Stato"

Domenica è stato il 55° anniversario dell'inizio della Guerra dei Sei Giorni, e quindi anche 55 anni dall'occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza

Israele, 55 anni di occupazione: l'immoralità si fa "Stato"
Israele, la guerra dei sei giorni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

8 Giugno 2022 - 17.31


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Israele, 55 anni di occupazione. L’immoralità si fa Stato. A darne conto è la ex parlamentare e leader di Meretz, la sinistra laica israeliana, Zahava Galon. 

Scrive Galon su Haaretz: “Domenica è stato il 55° anniversario dell’inizio della Guerra dei Sei Giorni, e quindi anche 55 anni dall’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. In definitiva, Israele è riuscito ad esistere senza regime militare per soli sei mesi: tra il dicembre 1966, quando fu abolito il regime militare che governava i cittadini palestinesi di Israele, e il giugno 1967, quando iniziò il regime militare nei territori occupati che dura tuttora.

Durante questi anni, ci siamo abituati a inquadrare la conversazione in termini tattici: Il coprifuoco sarà efficace? O forse le detenzioni amministrative, o forse le demolizioni e l’esproprio delle case? Giorno dopo giorno, abbiamo violato i diritti umani fondamentali dei nostri soggetti occupati. Abbiamo rubato le loro terre, le loro proprietà e le loro speranze.

E mese dopo mese, anno dopo anno, abbiamo permesso a ufficiali militari e politici senza coscienza di gestire le nostre vite. Hanno parlato di “falciare l’erba”, cioè di massacrare periodicamente i palestinesi per riportarli a uno stato di sottomissione; di “gestire il conflitto”, cioè di evitare di porvi fine; di una politica di grandi bastoni e minuscole carote. In pratica, l’idea era di atomizzare la società palestinese. E la scorsa settimana ci siamo trovati ancora una volta ad assistere a pogrom perpetrati dai coloni, che non vogliono vedere il simbolo delle aspirazioni nazionali palestinesi nemmeno in territorio palestinese, e a un’enorme esplosione di odio verso altri esseri umani tra decine di migliaia di persone di destra e i loro sostenitori a Gerusalemme. Sotto l’occhio vigile delle nostre forze di polizia, i rivoltosi hanno aggredito i palestinesi, danneggiato le loro proprietà, sputato loro addosso e invocato il loro omicidio di massa. Sotto gli occhi del capo della polizia distrettuale, decine di migliaia di giovani deliberatamente incitati hanno gridato “morte agli arabi” e hanno detto agli arabi che il loro villaggio “dovrebbe essere bruciato”. Ma il capo della polizia non ha ordinato alcun arresto per violazione della legge contro l’incitamento al razzismo. E il primo ministro e il ministro della Pubblica Sicurezza si sono entrambi vantati del fatto che questa marcia razzista annuale attraverso il quartiere musulmano della Città Vecchia sia passata pacificamente. C’è una chiara connessione tra questa conversazione tattica e la rapidità con cui Israele cade in mano ai razzisti radicalizzati. Quando cediamo all’inquadramento tattico, che riduce la privazione di milioni di persone dei loro diritti umani e civili alla questione del posto di blocco o dell’uso di fucili Ruger “meno letali” al posto dei proiettili con la punta di spugna, abbiamo perso la capacità di fare una chiara dichiarazione morale. La moralità è potere. La tradizione ebraica insegna che la pazienza è meglio dell’eroismo e che chi governa se stesso è meglio di chi conquista una città. Non c’è autentico potere né eroismo nel lanciare granate stordenti alle donne e nell’ammanettare le ragazze. C’è solo debolezza e paura.

Abbiamo taciuto di fronte a un pogrom dopo l’altro. Abbiamo lasciato correre quando un politico di alto livello ha definito i palestinesi “un po’ di schegge nel nostro sedere”, e di nuovo quando quel politico è diventato primo ministro e ha inviato una lettera aperta alla “maggioranza sionista silenziosa”, come se un quinto della popolazione di Israele fosse evaporato.

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Proteggere i diritti umani non è una debolezza, ma una forza. La forza non è solo un esercito, né solo i successi dell’alta tecnologia o il rispetto dei diritti degli omosessuali, che Israele usa per cercare di convincere il mondo che merita ammirazione. La forza è sapere che il nostro Paese agisce con giustizia, che non discrimina tra gli esseri umani, che è un Paese adatto a vivere. Ma quando un giornalista palestinese e un bambino palestinese vengono uccisi, qualsiasi facciata presentata al mondo esterno si dissolve come un castello di sabbia sulla spiaggia. Se non vogliamo diventare la Corea del Nord del Medio Oriente, dobbiamo includere una maggiore moralità nelle nostre considerazioni. Porre fine al nostro controllo sulle vite di milioni di esseri umani sarebbe un buon inizio”.

Così Galon.

Lo storico e il coraggio delle idee.

Chi scrive ha avuto l’onore di intervistare più e più volte colui che è considerato il più grande storico israeliano, scomparso il 20 giugno 2020: Zeev Sternhell. Ecco cosa mi disse in una delle nostre ultime conversazioni: “Per quanto mi riguarda, ho sempre ritenuto che la pace con i palestinesi e la nascita di uno Stato di Palestina non siano una concessione fatta al ‘nemico’ né un tributo ad un astratto principio di giustizia. Per quanto mi riguarda, la nascita di uno Stato palestinese è un ‘regalo’ che Israele fa a se stesso, perché solo attraverso la fine dell’occupazione è possibile preservare le fondamenta democratiche dello Stato e la sua identità ebraica. Il riconoscimento di uno Stato democratico di Palestina va visto come condizione per porre fine al conflitto e negoziare i futuri confini fra i due Stati sulla base delle frontiere del 1967. Il riconoscimento di tale Stato è essenziale per l’esistenza di Israele. È l’unico modo per risolvere il conflitto attraverso il negoziato, per evitare l’esplodere di un altro ciclo di violenza e porre fine alla pericolosa condizione di isolamento di Israele nel mondo. La fine dell’occupazione è condizione fondamentale per la libertà dei due popoli, la piena realizzazione della stessa Dichiarazione di indipendenza di Israele e un futuro di coesistenza pacifica. D’altro canto, l’ipotesi di un unico Stato non solo porta all’eliminazione dello Stato ebraico ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria: ogni altra scelta condurrebbe al colonialismo istituzionalizzato. Non so se queste considerazioni possano definirsi di “sinistra”. A me pare che siano improntate ad un sano pragmatismo che non dovrebbe avere, in quanto tale, una coloritura politica”.

In un saggio che ha fatto molto discutere, lei ha sostenuto che gli insediamenti impiantatisi dopo la guerra del ’67 oltre la Linea Verde sono “la più grande catastrofe nella storia del sionismo”. Perché?

Perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quella che il sionismo voleva evitare. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Perciò il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole precludere ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Insisto su questo punto: resto convinto che l’insediamento nei Territori metta in pericolo la capacità di Israele di svilupparsi come società libera e aperta.

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Lei afferma che gli intellettuali sono i “migliori ambasciatori” del sionismo. Ma c’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano.

No, non è così. Questa è una caricatura del sionismo o, comunque, ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Come le ebbi a dire in una nostra precedente conversazione, resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, conferma quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele.

Lei invoca una rivolta culturale, non solo politica, contro l’Israele dell’intolleranza.

Il termine più appropriato è una rivolta delle coscienze. Ecco, quello di cui avverto maggiormente la necessità: lo svilupparsi di un movimento d’opinione capace di scuotere la coscienza collettiva, di trasformare la psicologia di una nazione. Un movimento che dica con forza che nei Territori non possono più esistere due modelli legali, uno per i palestinesi e uno per i coloni. Per quanto mi riguarda, continuerò a sostenere che nei Territori vige un regime coloniale che va abbattuto. Per il bene della pace, per il bene d’Israele.

I coloni oltranzisti l’accuserebbero di “tradimento”, i più benevoli di essere un “sognatore”.

A smuovere il mondo sono i “sognatori”, coloro che hanno il coraggio di portare avanti una visione. Senza questi “sognatori” lo Stato d’Israele non sarebbe mai nato. È un argomento che è stato al centro di nostre precedenti conversazioni. Non possiamo, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà: ed è la realtà che ci dice che l’occupazione sta corrodendo le basi della nostra democrazia, così come la colonizzazione dei Territori occupati alimenta una cultura dell’illegalità. Tutto questo non ha nulla a che vedere con quei valori che furono a fondamento del pionierismo sionista. Non si tratta di mitizzare il sionismo, ma di avere coscienza che l’obiettivo finale non era solo quello di creare un focolaio nazionale per il popolo ebraico, ma anche di far vivere un Paese “normale”. E questa normalità è oggi minacciata dai terroristi che dicono di agire in nome e per conto del “popolo eletto”.  Dovremmo essere in tanti a gridare: “non in mio nome, assassini”.

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Per queste sue posizioni, il professor Sternhell subì un attentato da cui miracolosamente uscì illeso. E per queste posizioni, anch’egli è stato tacciato di “antisemitismo”. 

Un Paese in trincea che guarda al futuro con la consapevolezza che una nuova guerra è alle porte. E’ Israele nel 74mo  anniversario della sua indipendenza. Una fortezza, non ancora una casa. Lo rimarcava, toccando le corde più intime di una persona, di un padre che ha perso in guerra il figlio ventenne, David Grossman.  Così scriveva nel settantesimo della fondazione dello Stato d’Israele: “Questa settimana, Israele celebra il 70° anniversario della sua fondazione – annota il grande scrittore israeliano nel discorso pronunciato alla cerimonia organizzata da Parents Circle-Families Forum, che riunisce i parenti israeliani e palestinesi di vittime delle guerre e degli attentati -. Il spero che potremo celebrare ancora questa ricorrenza per molti anni a venire, con le future generazioni di figli, nipoti e pronipoti che vivranno qui, a fianco di uno stato palestinese indipendente, in pace, sicurezza e creatività, ma soprattutto nel tranquillo trascorrere dei giorni, in buoni rapporti di vicinato. Mi auguro che tutti si sentiranno ugualmente a casa propria…”. E’ l’idea di un Paese normale, quella evocata da Grossman. Una idea ancora irrealizzata. “Non siamo ancora a casa – spiega -. Israele è stato fondato per far sì che il popolo ebraico, che mai si è sentito a casa propria in giro per il mondo, potesse finalmente avere una casa. E oggi, 70 anni dopo, malgrado tante meravigliose conquiste nei più svariati campi, il forte stato di Israele somiglia piuttosto a una fortezza, ma non ancora a una casa”.

Ed è la “fortezza-Israele” a ricordare un cammino lungo 74 anni, irto di ostacoli, di tragedie, di guerre, di dolori e di speranze. E si scopre più forte militarmente ma al tempo stesso più vulnerabile in quella che è la psicologia di una nazione. Israele, oggi, è un Paese che, sospinto dal vivacissimo settore dell’alta tecnologia, ha un Pil pro capite di circa 40mila dollari, lo colloca a pieno titolo tra i paesi più avanzati economicamente, alla pari di Italia e Corea del Sud e non lontano da potenze economiche come Francia e Gran Bretagna. Ma soffre anche di uno dei più alti livelli di disuguaglianza nel mondo sviluppato La povertà è particolarmente diffusa tra i cittadini arabi-israeliani (1.050.000, oltre il 20% della popolazione residente) e gli ebrei ultra-ortodossi. Questi due gruppi rappresentano quasi un terzo della popolazione e sono quelli in crescita dal punto di vista demografico e dunque rischiano, in prospettiva, se le diseguaglianze non vengono affrontate di rallentare l’economia.  Settant’anni dopo, Israele fa ancora i conti con la propria identità nazionale, con il suo senso nella storia e nel mondo. E più che risposte, questa ricerca genera interrogativi a cui, da sola, la politica non può offrire soluzioni.

E quando ci prova, sono “soluzioni” che sanno di ingiustizia, di oppressione esercitata contro un altro popolo. Soluzioni immorali. 

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