Palestina, è iniziata la terza Intifada? Dopo la rivolta delle pietre, la prima intifada, quella di popolo, dopo la seconda Intifada, quella dei “kamikaze”, l’escalation di violenza di queste settimane prefigura un’altra stagione di rivolta nel segno di una rabbia individuale che si trasforma in desiderio di vendetta? E ancora: questa Terza Intifada avrà come suoi protagonisti non i palestinesi dei Territori occupati ma i loro “fratelli”: gli arabi israeliani?
Terza Intifada o cos’altro?
Interessante a tal proposito è l’analisi di Amos Harel, firma storica di Haaretz.
Scrive Harel: “Una settimana dopo la sparatoria nel sobborgo di Tel Aviv, Bnei Brak, che ha ucciso cinque persone, possiamo cominciare ad avere qualche prospettiva sulla nuova ondata di terrore. C’è un’alta probabilità che gli attacchi imitativi continueranno – anche sullo sfondo del fervore religioso che a volte si riversa durante il mese di Ramadan, che è in corso. Ma non stiamo parlando di uno tsunami di attacchi alla maniera delle due Intifada.
I palestinesi in Cisgiordania non stanno scendendo in strada in massa per affrontare le forze di sicurezza israeliane. Per ora, non si tratta di una rivolta popolare, ma piuttosto di un’esplosione di terrorismo da parte di individui o al massimo di cellule.
Per ora, le organizzazioni palestinesi sono sedute sulla barricata. È vero, le fazioni islamiche incoraggiano attivamente il terrorismo, ma non ci sono segni che abbiano lanciato il loro popolo in una vera e propria campagna. Anche se la realtà potrebbe sferrare un colpo decisivo nei prossimi giorni, l’intelligence israeliana ha individuato un’esitazione tra i leader di Hamas nella Striscia di Gaza. Al momento, Hamas sta mostrando una totale moderazione.
Circa 7.000 persone hanno partecipato a un raduno per la Giornata della Terra la scorsa settimana che è stato deliberatamente pianificato per il porto di Gaza – lontano dal confine israeliano. La quiete è stata mantenuta lungo il confine, poiché Hamas ha fatto in modo che nessuno si avvicinasse alla recinzione. È vero, la Jihad islamica ha un conto aperto con Israele dopo l’uccisione di diversi suoi combattenti in recenti incidenti in Cisgiordania, ma per ora sembra che il gruppo sia in sintonia con Hamas; i razzi non vengono sparati da Gaza. Attraverso le sue dichiarazioni, Hamas ha incoraggiato la violenza in Cisgiordania ma ha evitato l’attrito con Israele a Gaza. L’intelligence israeliana valuta che il gruppo si butta solo se vede chiare prospettive di successo.
I tre attacchi terroristici sono iniziati due settimane fa con uno speronamento e un accoltellamento a Be’er Sheva, seguiti da sparatorie a Hadera e Bnei Brak. Gli autori dei primi due attacchi erano arabi israeliani che si sono identificati con lo Stato Islamico. Da allora il servizio di sicurezza Shin Bet ha avvertito molte decine di cittadini arabi che si pensa siano seguaci del gruppo, e circa 20 sono stati arrestati per essere interrogati.
L’uomo di un villaggio della Cisgiordania vicino a Jenin che ha ucciso un poliziotto e altre quattro persone a Bnei Brak aveva legami con gruppi terroristici tra cui la Jihad islamica. E due dei tre membri della cellula della zona di Jenin che sono stati uccisi sabato sera in una sparatoria con l’unità antiterrorismo Yamam della polizia erano stati adottati solo dopo il fatto dalla Jihad islamica. Solo uno era stato un membro chiaramente attivo dell’organizzazione.
In mezzo alla risorgente minaccia, il governo ha preso le misure necessarie su raccomandazione dei funzionari della difesa. L’esercito israeliano in Cisgiordania è stato rafforzato da un certo numero di battaglioni schierati vicino alla barriera di separazione, che è costellata di brecce, e circa 15 compagnie hanno interrotto il loro addestramento e sono state inviate a rafforzare la polizia nelle città. L’attuale stato di allerta potrebbe continuare durante il Ramadan fino a metà maggio. Se l’ondata di terrore scemerà, ciò ridurrà le paure del pubblico.
Forse allora le cose saranno messe in prospettiva – Israele ha conosciuto ondate di terrore molto peggiori. In ogni caso, probabilmente non dovremmo essere troppo impressionati dai discorsi sulla chiusura delle brecce nella barriera di separazione. Israele ha chiuso un occhio per più di un decennio, e non per difficoltà logistiche o legali. La destra non vuole creare fatti sul terreno che costituirebbero una resa de facto dei territori a est della barriera. Le sinistre (e in gran parte i funzionari della sicurezza) credono che l’impiego dei palestinesi in Israele, anche se illegale, aiuti l’economia palestinese e riduca il rischio di un altro scontro militare. La copertura mediatica un po’ isterica degli attacchi terroristici è stata sostituita da storie di eroismo da parte delle forze di sicurezza. Venerdì sera, lo Yamam ha fatto quello che fa da decenni: Ha intercettato una cellula terroristica armata in procinto di commettere un attacco.
A volte, quando un ordine di arresto è accompagnato da direttive che permettono alle forze di sparare quando sono in pericolo, ci sono delle vittime, come questa volta: quattro persone Yamam ferite. Le cerimonie di medaglia sono un po’ premature; potrebbero esserci ancora altri incidenti come questo.
Inoltre, ora siamo bombardati da foto del primo ministro, del ministro della difesa, del ministro della pubblica sicurezza, del commissario di polizia e del capo dello Shin Bet che “girano sul campo” e “tengono valutazioni”. Bene, sembra che il pubblico abbia ricevuto il messaggio; potete tornare al lavoro senza un fotografo al seguito. Il primo ministro Naftali Bennett è andato anche oltre, avendo imparato una lezione inutile da Benjamin Netanyahu. Non c’è motivo di rendere il capo dello Shin Bet e il capo del Comando Centrale comparse indesiderate quando il primo ministro fa un video dal campo per la nazione. Sicuramente quei due hanno cose più urgenti da fare.
I grandi attacchi in tre città israeliane hanno sorpreso la comunità di intelligence e hanno giustamente minato il senso di sicurezza della gente. Sembra che le misure di sicurezza che si stanno prendendo saranno la giusta risposta alla minaccia attuale. Queste mosse non promettono una protezione ermetica, ma se non sorge nulla che porti i gruppi terroristici, possiamo sperare che col tempo l’attuale ondata si plachi.
Nel frattempo, nella regione e più lontano, stanno accadendo cose drammatiche, quasi inosservate tra le paure del prossimo terrorista. Orribili crimini di guerra da parte dei soldati russi stanno venendo alla luce in Ucraina, dopo il parziale ritiro dell’esercito invasore.
Nello Yemen è stato dichiarato un cessate il fuoco di due mesi tra la coalizione a guida saudita e i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran. In Libano il vice primo ministro ha annunciato la bancarotta dello stato e della banca centrale. Ognuno di questi eventi può avere un impatto indiretto sulla situazione strategica in Israele e nella regione, indipendentemente dall’attuale ondata di terrore”, conclude Harel.
Un popolo imprigionato
Il 17 aprile si celebra la Giornata Internazionale di Solidarietà con i Prigionieri Palestinesi. Di loro si è tornato a parlare, recentemente, seguendo la battaglia del giornalista Al-Qeeq, che ha scelto, insieme a tanti altri prigionieri politici palestinesi, lo sciopero della fame come forma di protesta pacifica contro forme di detenzione ingiustificate da un punto di vista del diritto internazionale e lesive della dignità umana. Detenzioni che si accompagnano, infatti, ad interrogatori violenti a cui vengono sottoposti perfino i bambini, e a torture intollerabili che hanno lo scopo di spegnere qualsiasi tipo di resistenza, anche solo psicologica, al regime di occupazione. Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967 – ha ricordato in occasione del 17 aprile scorso l’ambasciata di Palestina in Italia – i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 per cento del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.
I prigionieri sono distribuiti in circa 17 prigioni, tutte, tranne una – il carcere di Ofer – all’interno di Israele, in violazione dell’Art. 76 della quarta Convenzione di Ginevra, per cui le forze di occupazione non possono trasferire i detenuti nel proprio territorio. La conseguenza pratica di questo sistema è che molti detenuti hanno difficoltà ad incontrarsi con i loro difensori palestinesi e a ricevere visite dai familiari perché ai loro parenti vengono spesso negati, per “motivi di sicurezza”, i permessi per entrare in Israele.
Israele è l’unico Paese al mondo dove i bambini palestinesi – e solo quelli palestinesi – vengono sistematicamente giudicati da tribunali militari, passando per trattamenti disumani. Ogni anno vengono arrestati e processati in questi tribunali tra i 500 e i 700 minorenni. Ad oggi, sono più di 400 i ragazzi detenuti in condizioni disastrose nelle prigioni israeliane di Ofer e Mejido.
Nel corso degli ultimi 5 anni, Israele ha nettamente intensificato le detenzioni arbitrarie dei bambini palestinesi e il 2015, in particolare, ha visto il più alto trend di arresti, ben 2.179, specialmente durante gli ultimi tre mesi dell’anno, quando ne sono stati detenuti 1.500. Lo scorso mese di marzo, invece, dei 647 palestinesi arrestati in Cisgiordania e a Gaza, i ragazzi erano 126.
Di solito – prosegue il report – questi giovani vengono catturati ai posti di blocco o nel cuore della notte, ammanettati e bendati, per essere poi condotti, in un uno dei centri per gli interrogatori presenti in Israele.
Fin dall’inizio della pandemia la maggior parte dei detenuti (arabi e israeliani) ha vissuto nel terrore del contagio. Le condizioni delle carceri israeliane sono pessime, con un enorme sovraffollamento. Non sorprende che il fenomeno sia particolarmente grave nelle strutture che ospitano i palestinesi. La grandezza media di una cella di Gilboa è di 22 metri quadrati, da cui bisogna sottrarre circa sei metri quadrati per la doccia, il bagno e il cucinino. In ognuna di queste celle vivono sei persone, con meno di tre metri quadrati a testa.
Fino alla settimana scorsa la situazione nei penitenziari sembrava sotto controllo. Il numero di detenuti infettati era relativamente basso, e i malati erano sparsi in diverse strutture. A luglio i contagiati erano sette, di cui soltanto due nelle prigioni di sicurezza. Nessuno a Gilboa. Ma il 3 novembre è arrivata la notizia che 66 palestinesi detenuti a Gilboa erano positivi. Il 5 novembre il numero è salito a 87: ben 21 contagiati in due giorni su una popolazione carceraria di 450 detenuti. In meno di una settimana il virus ha colpito il 20 per cento dei detenuti.
I giudici della corte suprema hanno riflettuto su questa impennata dei contagi? Hanno pensato che i promotori della petizione sapevano bene di cosa stavano parlando, quando hanno sottolineato il rischio di un focolaio a Gilboa? Hanno pensato che forse le autorità carcerarie non si stanno impegnando al massimo per evitare un focolaio proprio nella struttura indicata dalla petizione? Ricordano cosa hanno sostenuto gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele? In quell’occasione i giudici hanno ripetuto l’opinione del governo, ovvero che il “distanziamento fisico” per ostacolare il contagio non si applica ai detenuti, che invece devono essere considerati come componenti di un’unica unità familiare che vivono insieme in un singolo ambiente. Anche a Gilboa. Gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe hanno sottolineato che le guardie carcerarie entrano in ogni cella circa cinque volte al giorno. ‘Non è come una casa privata dove si può impedire l’ingresso delle guardie per essere al sicuro’, hanno spiegato. ‘Le guardie entrano ed escono, poi rientrano a casa e il giorno dopo tornano al lavoro’..
Israele e le sue istituzioni sono ormai drogati dal disprezzo per le vite dei palestinesi. È per questo che hanno respinto due petizioni che chiedevano l’adozione di misure facilmente applicabili, che avrebbero potuto ridurre il rischio di contagio tra i detenuti palestinesi”. Sono brani di un lungo articolo che Amira Hass, storica firma di Haaretz, la giornalista israeliana che più conosce la realtà palestinese, scrisse nel novembre del 2020 per il quotidiano progressista di Tel Aviv e pubblicato in Italia da Internazionale.
Ferite non rimarginate
A 22 anni dalla sua esplosione, le ferite della seconda intifada sono ancora aperte, in tutti e due i popoli. Il tempo non le ha lenite, cicatrizzate. Come non ha rimosso le cause che ne furono alla base. La memoria di quei tempi non è svanita. La ritrovi nei racconti dei parenti delle vittime, israeliane e palestinesi, nei ritratti di tante vite spezzate nel fiore degli anni. La politica da sola non basta a dar conto del lascito di quella stagione in cui la speranza aperta dagli accordi di Oslo-Washington era ormai un lontano, sbiadito ricordo. Resta la paura, l’insicurezza, la tensione. Sentimenti che uniscono israeliani e palestinesi. Ventidue anni dopo, due popoli, e due dirigenze politiche, fanno fatica a realizzare il “sogno” chiamato compromesso. Sì, compromesso. Scrive Amos Oz, il grande scrittore israeliano scomparso il 28 dicembre 2018: “Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Ventidue anni dopo, resta valido, anche per chi a questa storia è ancora legato professionalmente, oltre che umanamente, ciò che lo stesso Oz scrisse nel suo libro Contro il fanatismo (Feltrinelli): “La mia percezione, la mia esperienza formativa, mi dicono che nel conflitto fra ebrei israeliani e arabi palestinesi non ci sono ‘buoni’ e ‘cattivi’. C’è una tragedia: il contrasto fra un diritto e l’altro…”. E questa tragedia continua ancora.
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