Nella Turchia di Erdogan per i filantropi c'è posto solo in galera
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Nella Turchia di Erdogan per i filantropi c'è posto solo in galera

I giudici della 13/esima sezione penale del tribunale di Istanbul hanno ordinato la prosecuzione dell'arresto per il filantropo turco Osman Kavala.

Nella Turchia di Erdogan per i filantropi c'è posto solo in galera
Osman Kavala
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Gennaio 2022 - 19.38


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Nella Turchia del Sultano lo spazio per i filantropi è quello, fetido, di una cella in un carcere di massima sicurezza. 

Il caso Kavala

I giudici della 13/esima sezione penale del tribunale di Istanbul hanno ordinato la prosecuzione dell’arresto per il filantropo turco Osman Kavala.

Ad annunciarlo, ieri, sono stati i giornalisti turchi presenti in aula durante l’udienza. L’attivista per i diritti umani si trova in carcere da quattro anni. Arrestato a novembre 2017 con l’accusa di avere finanziato le proteste anti governative scoppiate nel parco Gezi di Istanbul nel 2013, Kavala è stato assolto a febbraio 2020 per poi essere immediatamente processato nuovamente – senza essere rilasciato dal carcere – con l’accusa di spionaggio politico e militare nell’ambito di un’inchiesta sul tentato golpe del 15 luglio 2016.La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) aveva chiesto la scarcerazione di Kavala già a dicembre 2019, ma Ankara non ha mai messo in pratica la sentenza provocando una reazione da parte del Consiglio d’Europa che il mese scorso notificato alla Turchia l’intenzione di aprire una procedura di infrazione per non avere osservato la decisione della Cedu. Strasburgo ha dato tempo fino al 19 gennaio ad Ankara per fornire risposte rispetto al caso di Kavala. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan considera Kavala un oppositore e lo scorso ottobre ha minacciato di espellere dal Paese 10 ambasciatori occidentali – tra cui quelli di Usa, Francia e Germania – per un appello in cui chiedevano il rilascio del filantropo turco. Il 2 dicembre 2021, con un voto a maggioranza il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha avviato la procedura formale d’infrazione contro la Turchia per non aver scarcerato il difensore dei diritti umani Osman Kavala, in prigione da oltre quattro anni per motivi politici.

Nella sua risoluzione provvisoria, il Comitato dei ministri ha ricordato che la Turchia non ha garantito il rilascio immediato di Kavala, “rifiutando di rispettare il giudizio finale della Corte [europea dei diritti umani]” emesso nel dicembre 2019.

In quella occasione, la Corte aveva stabilito che la detenzione di Kavala, ufficialmente imprigionato per aver finanziato le proteste di Gezi Park nel 2013 e per il suo coinvolgimento nel tentato colpo di stato del luglio 2016, non aveva altro motivo che ridurlo al silenzio in quanto difensore dei diritti umani. La Corte, pertanto, aveva chiesto al governo turco di “prendere tutte le misure necessarie per porre fine alla detenzione del ricorrente e assicurare il suo rilascio immediato”.

Kavala si trova nella prigione di alta sicurezza di Silivri, detenuto arbitrariamente da oltre quattro anni. Per aggirare la sentenza della Corte, l’udienza del 26 novembre lo ha visto imputato di un nuovo processo kafkiano nel quale, insieme ad altri 51 imputati tra cui tifosi di calcio, deve rispondere di “tentato rovesciamento dell’ordine costituzionale”, “tentato rovesciamento del governo” e “spionaggio militare e politico”.

Il Comitato dei ministri ha informato la Turchia che nella sessione del 2 febbraio 2022, chiederà alla Corte europea dei diritti umani di stabilire se la Turchia sia venuta meno all’obbligo di rispettare l’articolo 46.1 della Convenzione europea dei diritti umani e ha chiesto alla Turchia di sottomettere suoi commenti entro il 19 gennaio 2022. 

La risposta è arrivata. La porta della cella rimane chiusa.

C’era da aspettarselo, visti i precedenti e la determinazione con cui Recep Tayyp Erdogan ha smantellato, pezzo per pezzo, qualunque simulacro di stato di diritto.

Dal rapporto globale 2020-2021 di Amnesty International 

Magistratura e avvocati

A fine anno era ancora in corso un’indagine disciplinare avviata dal consiglio dei giudici e dei procuratori nei confronti dei tre giudici che, il 18 febbraio, hanno assolto gli imputati del processo Gezi, tra cui il leader della società civile Osman Kavala. L’indagine è scaturita dalle critiche sull’assoluzione espresse pubblicamente dal presidente.

A luglio, il parlamento ha approvato una legge che modificava la struttura degli ordini degli avvocati. Migliaia di avvocati hanno protestato e 78 delle 80 associazioni di settore hanno firmato una dichiarazione per opporsi alla riforma. La nuova legge indebolisce l’autorità e l’indipendenza degli ordini.

Sono proseguite le indagini penali rivolte ad avvocati che rappresentavano clienti accusati di “reati legati al terrorismo”.

A settembre, la polizia ha arrestato 47 avvocati con l’accusa di “appartenenza a un’organizzazione terroristica”, basata esclusivamente sul loro lavoro. Almeno 15 avvocati sono stati rimandati in custodia preprocessuale. Sempre a settembre, la corte di cassazione ha confermato la pena detentiva di 14 avvocati dell’Associazione degli avvocati progressisti, perseguiti ai sensi della legislazione relativa al terrorismo.

Repressione del dissenso

Le indagini e azioni penali secondo le leggi antiterrorismo e la custodia cautelare punitiva hanno continuato a essere utilizzate in assenza di prove di illeciti, per mettere a tacere il dissenso.

Con il pretesto di combattere “fake news”, “incitamento” o “diffusione di paura e panico”, le autorità hanno utilizzato il diritto penale per prendere di mira coloro che discutevano online della pandemia da Covid-19. L’unità per i reati informatici del ministero dell’Interno ha affermato che 1.105 utenti di social media avevano fatto “propaganda per un’organizzazione terroristica”, anche “condividendo post provocatori sul Covid-19”, tra l’11 marzo e il 21 maggio; secondo quanto riferito, 510 persone sono state fermate per essere interrogate. Sono proseguite le indagini e le azioni penali ingiuste nei confronti di ex parlamentari e membri dei partiti d’opposizione. A giugno, una corte d’appello di Istanbul ha confermato la condanna di Canan Kaftancıoğlu, presidente per la provincia di Istanbul del partito d’opposizione, il Partito popolare repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi – Chp). È stata condannata a nove anni e otto mesi di reclusione per “oltraggio al presidente” e a “un pubblico ufficiale”, “incitamento all’ostilità e all’odio” e “propaganda per un’organizzazione terroristica”. La condanna si riferiva ad alcuni tweet che aveva condiviso sette anni prima. A fine anno il caso era pendente dinanzi alla corte di cassazione.

A ottobre sono stati mandati in detenzione preprocessuale 20 esponenti, passati e attuali, del Partito democratico dei popoli (Halkların Demokratik Partisi – Hdp) filocurdo, incluso il sindaco della città di Kars, Ayhan Bilgen, per il loro presunto ruolo nelle proteste violente dell’ottobre 2014. Le accuse si basavano in gran parte sui post dell’account Twitter ufficiale dell’Hdp dell’epoca. In seguito alla detenzione preprocessuale di Ayhan Bilgen, il 2 ottobre il ministero dell’Interno ha nominato il governatore di Kars amministratore fiduciario del comune di Kars. Gli ex copresidenti Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ erano in custodia cautelare nell’ambito della stessa indagine dal settembre 2019. A fine anno, un nuovo capo d’imputazione era pendente presso il tribunale di prima istanza, giorni dopo che la Grande camera della Cedu aveva chiesto l’immediato rilascio di Selahattin Demirtaş, stabilendo che erano stati violati i suoi diritti alla libertà d’espressione, alla libertà e sicurezza personale, a libere elezioni e a non essere soggetto a un abuso delle limitazioni dei suoi diritti.

Libertà d’espressione

Giornalisti e altri operatori dei media sono rimasti in custodia preventiva o scontavano pene detentive. Alcuni dei perseguiti ai sensi delle leggi antiterrorismo sono stati giudicati colpevoli e condannati alla reclusione e le loro legittime attività sono state presentate come prova di reati.

Difensori dei diritti umani

Decine di difensori dei diritti umani hanno subìto indagini e procedimenti penali per il loro lavoro sui diritti umani.

A luglio, il processo Büyükada contro 11 difensori dei diritti umani si è concluso con la condanna di Taner Kılıç per “appartenenza all’organizzazione terroristica Fethullah Gülen (Fetö)”, per la quale ha ricevuto sei anni e tre mesi di reclusione; İdil Eser, Günal Kurşun e Özlem Dalkıran sono stati condannati a “un anno e 13 mesi” per “aver sostenuto consapevolmente e volontariamente Fetö”. I restanti sette imputati sono stati assolti. Il 1° dicembre una corte d’appello regionale ha confermato le condanne dei quattro difensori, che hanno fatto ricorso alla corte di cassazione.

A gennaio, il procuratore di Istanbul ha chiesto la condanna dell’avvocata per i diritti umani Eren Keskin nel processo principale Özgür Gündem, insieme ad altri che avevano partecipato a una campagna di solidarietà. A febbraio, con una sentenza provvisoria, le sue coimputate Necmiye Alpay e Aslı Erdoğan sono state assolte. Il procedimento contro Eren Keskin e altri tre imputati è proseguito.

A marzo, Raci Bilici, ex presidente del consiglio del dipartimento di Diyarbakır della Ong Associazione per i diritti umani (İnsan Hakları Derneği – İhd), è stato condannato a sei anni e tre mesi di reclusione per “appartenenza a un’organizzazione terroristica”, per la sua attività per i diritti umani. A fine anno era pendente un appello sul caso. A ottobre, in seguito a un rapporto del 2019 del gruppo di ricerca Forensic Architecture, il processo contro tre agenti di polizia e un presunto membro del partito armato Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partîya Karkerên Kurdistanê – Pkk), accusati di aver ucciso l’avvocato per i diritti umani Tahir Elçi, è iniziato, quasi cinque anni dopo la sua morte a Diyarbakır. Gli agenti sono stati accusati di “aver causato la morte per negligenza colposa”.

Diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate

Ad aprile, un alto funzionario statale presso la direzione degli affari religiosi (Diyanet) ha dato la colpa della diffusione dell’Hiv/Aids all’omosessualità e alle persone che hanno relazioni al di fuori del matrimonio. Ha esortato i suoi seguaci a combattere questo “male” in un sermone del venerdì incentrato sulla pandemia da Covid-19; l’appello ha avuto il sostegno del presidente. Gli ordini degli avvocati che hanno criticato le dichiarazioni sono stati oggetto d’indagini penali ai sensi dell’art. 216/3 del codice penale, che criminalizza “l’offesa ai valori religiosi”.

Diritti delle donne e delle ragazze

A luglio, il brutale assassinio della studentessa di 27 anni Pınar Gültekin ha portato a diffuse proteste in tutto il paese. A fine anno, il processo a due uomini accusati del suo omicidio era ancora in corso. Ad agosto, la proposta di alcuni politici del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – Akp) al governo di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul ha scatenato manifestazioni a livello nazionale. Organizzazioni per i diritti delle donne hanno criticato la mancata implementazione della Convenzione e la risposta inadeguata all’aumento della violenza domestica durante le restrizioni per il Covid-19. Il ministero dell’Interno ha annunciato che, nel 2020, 266 donne sono morte a causa della violenza di genere, anche se i dati forniti dalle organizzazioni di donne erano molto più alti. 

Tortura e altri maltrattamenti

Secondo la testimonianza di Osman Şiban, a settembre lui e Servet Turgut hanno subìto gravi ferite dopo essere stati arrestati e picchiati da un numeroso gruppo di soldati, nella provincia di Van. Servet Turgut è morto in ospedale il 30 settembre. Le dichiarazioni dell’ufficio del governatore di Van e del ministro dell’Interno hanno contraddetto quelle dei testimoni oculari e di Osman Şiban. L’indagine penale sulle accuse di tortura aperta dal procuratore di Van è stata sottoposta a un ordine di segretezza. A ottobre, quattro giornalisti che seguivano il caso sono stati arrestati a Van, con l’accusa di essere “membri di un’organizzazione terroristica”, sulla base delle agenzie di stampa per cui lavoravano e per aver scritto notizie su “incidenti pubblici in linea con la prospettiva e gli ordini del Pkk/Kck [Koma Civakên Kurdistan – Unione della comunità del Kurdistan] a scapito dello stato”.

Sparizioni forzate

A febbraio, Gökhan Türkmen, uno dei sette uomini accusati di legami con il movimento di Fethullah Gülen, che era stato fatto scomparire nel 2019, ha raccontato in tribunale le torture e gli altri maltrattamenti a cui era stato sottoposto durante i 271 giorni della sua sparizione forzata. Il tribunale ha chiesto l’avvio di un’indagine penale sulle sue accuse. A fine anno era ancora sconosciuta l’ubicazione di Yusuf Bilge Tunç, scomparso nell’agosto 2019.

Diritti di rifugiati, richiedenti asilo e migranti

La Turchia ha continuato a ospitare la più grande popolazione di rifugiati al mondo: circa quattro milioni di persone, di cui 3,6 milioni di siriani. È rimasto in vigore l’accordo Ue-Turchia del 2016, che prevede l’assistenza economica europea a sostegno dei rifugiati in Turchia in cambio della sua cooperazione in materia di controllo della migrazione e rimpatri.

Il 27 febbraio, dopo aver annunciato l’apertura delle frontiere con l’Ue, la Turchia ha sconsideratamente incoraggiato e facilitato il movimento di richiedenti asilo e migranti verso il confine terrestre greco, dove violenti respingimenti hanno causato morti e feriti (cfr. Grecia). A fine marzo, le autorità turche hanno allontanato le persone dalla zona di confine.

A fronte di questo scempio documentato, l’Europa continua a erogare miliardi di euro alla Turchia perché non apra il “rubinetto” dei migranti. Ad Ankara si reprime, a Bruxelles si soccombe.

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