Palestina, la detenzione amministrativa di Hisham Abu Hawash, una "tortura" israeliana
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Palestina, la detenzione amministrativa di Hisham Abu Hawash, una "tortura" israeliana

Il detenuto Hisham Abu Hawash ha trascorso quattro mesi e mezzo di sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione senza processo

Palestina, la detenzione amministrativa di Hisham Abu Hawash, una "tortura" israeliana
Hisham Abu Hawash
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

5 Gennaio 2022 - 14.40


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Quella di Hisham Abu Hawash è una storia emblematica. Emblematica di una “tortura” legalizzata: la detenzione amministrativa.

A utilizzarla è quella che si autodefinisce l’”unica democrazia in Medio Oriente”: Israele.

La storia

A darne conto è un editoriale di Haaretz, il quotidiano progressista di Tel Aviv.

“Dopo 141 giorni durante i quali la vita del detenuto amministrativo Hisham Abu Hawash era in pericolo, martedì è stato raggiunto un accordo per il suo rilascio il 26 febbraio.

È un peccato che solo dopo che Abu Hawash ha trascorso quattro mesi e mezzo di sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione senza processo, e sulla scia dei disordini nell’Autorità Palestinese e delle minacce della Jihad Islamica e di Hamas, sia stato raggiunto questo giusto risultato. Abu Hawash è ricoverato in gravi condizioni all’Assaf Harofeh Medical Center nel centro di Israele, dopo aver perso circa la metà del suo peso corporeo, e potrebbe morire in qualsiasi momento. Israele ha sospeso il suo mandato d’arresto la settimana scorsa, ma Abu Hawash ha continuato il suo sciopero della fame, chiedendo che l’ordine fosse ritirato completamente. Sapeva che se avesse interrotto il suo sciopero della fame senza ottenerlo non ci sarebbe stata alcuna garanzia che l’incubo della sua detenzione amministrativa non sarebbe ripreso immediatamente. Abu Hawash, 40 anni e padre di cinque figli, è stato arrestato nella sua casa di Dura, a sud di Hebron, a fine ottobre 2020. I procuratori militari non avevano prove non classificate su cui redigere un atto d’accusa da presentare a un tribunale militare. Ma nello stato del servizio di sicurezza Shin Bet, “materiale riservato” è sufficiente perché un comandante militare firmi un ordine per sei mesi di detenzione amministrativa, e un altro sei mesi dopo, ripetuto all’infinito.

Dopo decenni di occupazione, sembra che quasi nessuno in Israele abbia l’energia o l’interesse di parlare a favore di un palestinese in più che ha subito un torto. Uno in più, uno in meno, cosa possiamo fare comunque? Per molte persone in Israele, “palestinese” e “terrorista” sono sinonimi, e gli israeliani apparentemente preferiscono credere che lo stato non farebbe queste ingiustizie se non ci fosse qualcosa.

Ma se c’è qualcosa, perché sono trascorsi più di 14 mesi senza un’incriminazione? Se lo Stato aveva prove contro Abu Hawash, avrebbe dovuto incriminarlo. In caso contrario, doveva rilasciarlo immediatamente. L’insistenza di Israele nel tenere un uomo in custodia senza processo avrebbe potuto costarci un’escalation militare nella Striscia di Gaza e disordini popolari nell’Autorità Palestinese. È un peccato che l’attuale governo, che comprende partner centristi e di sinistra, stia seguendo le orme dei governi precedenti e si faccia trascinare contro la sua volontà, fino all’ultimo momento, a quel punto ha bisogno della mediazione regionale di parti tra cui l’Egitto, e di minacce che lo fanno sembrare come se rispondesse solo alla forza, per districarsi dal casino.

È ora che Israele impari a rinunciare a questa pratica antidemocratica e corrotta della detenzione amministrativa illimitata, senza prove o accuse che possano essere confutate”., conclude l’editoriale.

Un popolo imprigionato

Il 17 aprile si celebra la Giornata Internazionale di Solidarietà con i Prigionieri Palestinesi. Di loro si è tornato a parlare, recentemente, seguendo la battaglia del giornalista Al-Qeeq, che ha scelto, insieme a tanti altri prigionieri politici palestinesi, lo sciopero della fame come forma di protesta pacifica contro forme di detenzione ingiustificate da un punto di vista del diritto internazionale e lesive della dignità umana. Detenzioni che si accompagnano, infatti, ad interrogatori violenti a cui vengono sottoposti perfino i bambini, e a torture intollerabili che hanno lo scopo di spegnere qualsiasi tipo di resistenza, anche solo psicologica, al regime di occupazione. Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967 – ha ricordato in occasione del 17 aprile l’ambasciata di Palestina in Italia –  i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 per cento del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

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A seguito delle rivolte iniziate negli ultimi mesi del 2015 e che proseguono nel 2016, i prigionieri palestinesi sono in continuo aumento. Al primo marzo 2016 i prigionieri nelle carceri israeliane erano 7000, tra i quali: 700 prigionieri in detenzione amministrativa, 440 bambini (di cui 98 sotto i 16 anni), 68 donne, 6 membri del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), 343 prigionieri dalla Striscia di Gaza –  spesso arrestati al valico di Erez, malati, quando rientravano dopo avuto il permesso di cura in Israele, 70 prigionieri dei territori occupati nel ’48, cioè Israele, 450 cittadini di Gerusalemme Est, e 458 condannati a vita. I prigionieri sono distribuiti in circa 17 prigioni, tutte, tranne una – il carcere di Ofer – all’interno di Israele, in violazione dell’Art. 76 della quarta Convenzione di Ginevra, per cui le forze di occupazione non possono trasferire i detenuti nel proprio territorio. La conseguenza pratica di questo sistema è che molti detenuti hanno difficoltà ad incontrarsi con i loro difensori palestinesi e a ricevere visite dai familiari perché ai loro parenti vengono spesso negati, per “motivi di sicurezza”, i permessi per entrare in Israele.

Israele è l’unico Paese al mondo dove i bambini palestinesi – e solo quelli palestinesi – vengono sistematicamente giudicati da tribunali militari, passando per trattamenti disumani.  Ogni anno vengono arrestati e processati in questi tribunali tra i 500 e i 700 minorenni. Ad oggi, sono più di 400 i ragazzi detenuti in condizioni disastrose nelle prigioni israeliane di Ofer e Mejido.

Nel corso degli ultimi 5 anni, Israele ha nettamente intensificato le detenzioni arbitrarie dei bambini palestinesi e il 2015, in particolare, ha visto il più alto trend di arresti, ben 2.179, specialmente durante gli ultimi tre mesi dell’anno, quando ne sono stati detenuti 1.500. Lo scorso mese di marzo, invece, dei 647 palestinesi arrestati in Cisgiordania e a Gaza, i ragazzi erano 126.

Di solito – prosegue il report – questi giovani vengono catturati ai posti di blocco o nel cuore della notte, ammanettati e bendati, per essere poi condotti, in un uno dei centri per gli interrogatori presenti in Israele.

Fin dall’inizio della pandemia la maggior parte dei detenuti (arabi e israeliani) ha vissuto nel terrore del contagio. Le condizioni delle carceri israeliane sono pessime, con un enorme sovraffollamento. Non sorprende che il fenomeno sia particolarmente grave nelle strutture che ospitano i palestinesi. La grandezza media di una cella di Gilboa è di 22 metri quadrati, da cui bisogna sottrarre circa sei metri quadrati per la doccia, il bagno e il cucinino. In ognuna di queste celle vivono sei persone, con meno di tre metri quadrati a testa. 

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Fino alla settimana scorsa la situazione nei penitenziari sembrava sotto controllo. Il numero di detenuti infettati era relativamente basso, e i malati erano sparsi in diverse strutture. A luglio i contagiati erano sette, di cui soltanto due nelle prigioni di sicurezza. Nessuno a Gilboa. Ma il 3 novembre è arrivata la notizia che 66 palestinesi detenuti a Gilboa erano positivi. Il 5 novembre il numero è salito a 87: ben 21 contagiati in due giorni su una popolazione carceraria di 450 detenuti. In meno di una settimana il virus ha colpito il 20 per cento dei detenuti. 

I giudici della corte suprema hanno riflettuto su questa impennata dei contagi? Hanno pensato che i promotori della petizione sapevano bene di cosa stavano parlando, quando hanno sottolineato il rischio di un focolaio a Gilboa? Hanno pensato che forse le autorità carcerarie non si stanno impegnando al massimo per evitare un focolaio proprio nella struttura indicata dalla petizione? Ricordano cosa hanno sostenuto gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele? In quell’occasione i giudici hanno ripetuto l’opinione del governo, ovvero che il “distanziamento fisico” per ostacolare il contagio non si applica ai detenuti, che invece devono essere considerati come componenti di un’unica unità familiare che vivono insieme in un singolo ambiente. Anche a Gilboa. Gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe hanno sottolineato che le guardie carcerarie entrano in ogni cella circa cinque volte al giorno. ‘Non è come una casa privata dove si può impedire l’ingresso delle guardie per essere al sicuro’, hanno spiegato. ‘Le guardie entrano ed escono, poi rientrano a casa e il giorno dopo tornano al lavoro’…

Israele e le sue istituzioni sono ormai drogati dal disprezzo per le vite dei palestinesi. È per questo che hanno respinto due petizioni che chiedevano l’adozione di misure facilmente applicabili, che avrebbero potuto ridurre il rischio di contagio tra i detenuti palestinesi”. Sono brani di un lungo articolo che Amira Hass, storica firma di Haaretz, la giornalista israeliana che più conosce la realtà palestinese, scrisse nel novembre del 2020 per il quotidiano progressista di Tel Aviv e pubblicato in Italia da Internazionale. 

“La detenzione amministrativa si basa su informazioni riservate solitamente raccolte dallo Shin Bet”, ha detto Sahar Francis, direttore esecutivo di Addameer, una ONG con sede a Ramallah che fornisce assistenza legale ai prigionieri palestinesi. “I capi di imputazione non ci vengono mai rivelate a noi avvocati. Il problema con la detenzione amministrativa è che è infinita, i detenuti vengono messi in detenzione e non sanno perché sono lì o quando saranno rilasciati”.

Illegalità “legalizzata”.

Di grande interesse è  quanto scritto da Oren Ziv, fotoreporter,  membro fondatore del collettivo fotografico Activestills e giornalista della israeliana Local Call. (Traduzione a cura dell’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus).

 “Come denunciano gli avvocati che difendono i detenuti palestinesi, le detenzioni amministrative si basano di regola su “materiale riservato” consegnato in via riservata ai tribunali da parte dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani. Si tratta di materiali a cui i detenuti stessi ed i loro avvocati non hanno accesso. Di conseguenza, è praticamente impossibile difendersi da un ordine di detenzione amministrativa. Secondo il diritto internazionale, la detenzione amministrativa dovrebbe essere utilizzata solo nei casi più estremi. “Siamo venuti qui per protestare contro le detenzioni amministrative, in corso dal 1967″, ha detto l’attivista Sigal Avivi a +972. “Negli anni sono stati arrestati uomini, donne e bambini. “Siamo qui perché lo Shin Bet lavora nell’ombra. In passato, alcuni studenti che hanno cercato di protestare qui sono stati costretti ad andarsene. Il nostro obiettivo è raggiungere molte persone ed essere qui e mostrare come lo Shin Bet è coinvolto in tutte le fasi della detenzione amministrativa”. 

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I detenuti vengono trasferiti agli interrogatori dello Shin Bet, che in molti casi includono la tortura”, si legge in una dichiarazione pubblicata dagli organizzatori della protesta. “L’uso sistematico di torture fisiche e mentali, abusi, false notizie, alterazione delle prove e impunità fanno parte del passato e del presente nel modo di operare dello Shin Bet. I metodi di interrogatorio brutali e violenti dello Shin Bet sono un segno di vergogna per l’intera organizzazione, non solo0 per il singolo torturatore”. Nonostante il calo del numero di casi negli ultimi due decenni, Francis osserva che la detenzione amministrativa è ancora una pratica comune. “Ci sono nuovi ordini ogni settimana così come estensioni di ordini esistenti. Proprio questa settimana abbiamo avuto il caso di un uomo di Betlemme che ha trascorso due anni in detenzione amministrativa. Il tribunale ha deciso di rilasciarlo, ma poi la sua detenzione è stata nuovamente decisa. Il problema è che possono sempre affermare che c’è nuova informazione, e noi come avvocati non sappiamo cosa hanno in mano come accuse, siamo completamente dipendenti dai giudici. La detenzione amministrativa può anche essere usata come un passo che precede la detenzione “regolare” o come mezzo per garantire che i palestinesi siano tenuti dietro le sbarre, anche se il tribunale militare ordina che siano rilasciati. È stato il caso di Amal Nakhleh, un palestinese di 16 anni sospettato di aver lanciato pietre ed è stato arrestato il mese scorso mentre tornava a casa dopo aver fatto la spesa con gli amici. Dopo che il giudice aveva previsto il rilascio su cauzione, i militari hanno minacciato di porre Nakhleh in detenzione amministrativa per assicurarsi che rimanesse in prigione”.

L’Unione Europea ha espresso forte preoccupazione per la violazione dei diritti umani nei confronti dei detenuti, esortando Israele al rispetto degli obblighi internazionali, al diritto di assistenza legale e alla necessità di un processo equo.

Il Parlamento europeo si era già espresso nel 2013 sul caso di Arafat Jaradat, con una risoluzione in cui si legge: “Si esprime preoccupazione quanto ai detenuti palestinesi trattenuti in condizioni di detenzione amministrativa senza un’accusa; si sottolinea che tali detenuti dovrebbero essere accusati e processati, nel rispetto delle garanzie giudiziarie conformi alle norme internazionali, oppure essere rilasciati senza indugio”. Arafat Jaradat è deceduto il 23 febbraio 2013 nel carcere di Megiddo, dopo otto giorni di detenzione per aver tirato sassi contro bersagli israeliani. Sulle cause del decesso, al momento ancora controverse, pesa l’ipotesi di tortura.

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