Draghi rifletta sulla Libia: "errare humanum est, perserverare autem diabolicum"
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Draghi rifletta sulla Libia: "errare humanum est, perserverare autem diabolicum"

Mancava solo il crisma dell’ufficialità. Ora il capo della dell’Alta commissione elettorale della Libia ha ordinato di sciogliere i comitati elettorali e di porre fine alle loro attività relative alle elezioni previste per il 24 dicembre

Draghi rifletta sulla Libia: "errare humanum est, perserverare autem diabolicum"
Imad al Sayeh
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Dicembre 2021 - 14.58


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Mancava solo il crisma dell’ufficialità. Ora è arrivato.  Il capo della dell’Alta commissione elettorale della Libia, Imad al Sayeh, ha ordinato di sciogliere i comitati elettorali e di porre fine alle loro attività relative alle elezioni previste per il prossimo 24 dicembre. Al Sayeh ha inoltre invitato tutti coloro che lavorano negli uffici elettorali a tornare ad un normale orario di lavoro a partire dal primo gennaio e ha disposto la liquidazione di tutti gli obblighi finanziari derivanti dalla preparazione del processo elettorale, entro il 31 dicembre. Il capo dell’Alta commissione elettorale ha infine chiesto di adottare tutte le misure necessarie per garantire la prontezza operativa dei comitati elettorali in caso di attuazione delle elezioni. E così le tanto attese elezioni libiche scivolano verso un rinvio: di 3 o 6 mesi?  Forse la notizia ufficiale potrebbe essere data il 23. 

Fratelli-coltelli

Intanto gli ex membri del governo Bashagha e Maiteeq hanno incontrato il generale Haftar a Bengasi. “La riconciliazione nazionale è un processo irreversibile e inclusivo” e la volontà degli elettori “va rispettata”. Lo hanno detto i candidati alle elezioni presidenziali Fathi Bashagha e Ahmed Omar Maiteeq, rispettivamente ex ministro dell’Interno ed ex vicepremier nel Governo d’accordo nazionale (Gna), entrambi esponenti della “città-Stato” di Misurata, insieme a Khalifa Haftar, comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) in “quiescenza” dal momento che anch’egli è candidato alle elezioni presidenziale. “Continueremo il coordinamento, la comunicazione e amplieremo il quadro di questa iniziativa”, afferma un comunicato congiunto letto ieri  da Bashagha a nome anche dei candidati Sharif al Wafi, Aref al Nayed e Abdel-Majid Seif al Nasr. “Ci siamo riuniti oggi su iniziata del candidato Khalifa Haftar per unificare gli sforzi nazionali e superare la fase che sta attraversando il nostro amato Paese. Rispettiamo la volontà degli elettori che aspettano il 24 dicembre”, aggiunge la nota, in riferimento alla data in cui dovrebbero tenersi le elezioni in Libia.  

Il giorno dopo, la smentita, che la dice lunga sulla credibilità di quell’impegno manifestato a parole.

 “Venerdì non ci saranno le elezioni come inizialmente previsto: lo conferma la decisione dell’Alta commissione elettorale di chiudere tutti i seggi. Ci sono nuove alleanze in formazione e alcune di queste alleanze sono disposte ad andare in guerra per il potere, ancora una volta”. A lanciare l’allarme è  Abdulkader Assad, caporedattore dei portali di notizie Libya Observer e Libya Alahrar. Il giornalista, che è anche linguista e scrittore, parla all’agenzia Dire da Istanbul, in Turchia, dove è di base in questo momento. L’intervista si svolge nel pieno di una fase concitata: mancano 72 ore a venerdì 24 dicembre, la data fissata per le elezioni presidenziali nell’ambito del Forum di dialogo politico libico (Lpdf) mediato dalle Nazioni Unite. Nel Paese, dove vige da 14 mesi un cessate il fuoco che ha resistito fino a oggi, si susseguono le notizie di violenze e tensioni. La settimana scorsa agenti della polizia nazionale e miliziani dell’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, si sono scontrati a Sabha, capoluogo della regione meridionale del Fezzan. La sede della Commissione elettorale della città, ancora una settimana prima, era stata circondata da uomini fedeli al generale, decisi a impedire l’approvazione della candidatura di Saif al-Islam Gheddafi, il figlio del colonello che ha governato il Paese per 40 anni tra il 1969 e il 2011.    Giorni fa è tornata a vedere le armi anche la capitale Tripoli, dove tre milizie hanno circondato gli uffici del primo ministro in risposta alla rimozione dall’incarico del comandante militare della regione, Abdel Baset Marwan.  “Il minimo che si può dire è che la fragile stabilità istituita in Libia a febbraio, con l’avvento del governo unificato ad interim nell’ambito del Lpdf, è collassata”, il commento di Assad. “Le elezioni non si terranno in tempo, come testimoniato dall’annuncio della chiusura dei seggi fatta dalla Commissione elettorale: nient’altro che un modo non ufficiale per posticipare il voto e per far capire che a oggi non c’è un’altra data”. Il cronista rilancia sui suoi social anche la notizia delle imminenti dimissioni del presidente dell’organismo elettorale, Imad Al-Sayeh, pur specificando che la decisione non è ancora ufficiale. Oggi la calma, apparente, sembra tornata a Tripoli dopo il ritiro di barricate e veicoli militari dalla zona di Ain Zara. Secondo Jalel Harchaoui, research fellow del think tank olandese Clingendael Institute, nei movimenti a sud di Tripoli sarebbero coinvolte almeno due note milizie della Tripolitania: la 444ma Brigata capeggiata da Mahmoud Hamsa, miliziano seguace dell’Islam salafita, forza anti-criminale e considerata vicina alla Turchia; la Forza Gnewa inquadrata nell’Autorità di supporto alla stabilità (Ass), apparato di sicurezza creato nel gennaio 2021 dal premier dell’ex Governo di accordo nazionale libico (Gna) Fayez Sarraj, e che fa riferimento ad Abdelghani al Kikli, già capo dei martiri di Abu Slim e uno degli uomini più influenti delle milizie Tripoli. “Sacchi di sabbia sarebbero stati posizionati per le strade della periferia sud, in un segno palpabile che la guerra potrebbe scoppiare”, ha scritto Harchaoui via Twitter, aggiungendo che la 444ma Brigata avrebbe assunto una posizione difensiva per impedire alla Forza Gnewa di guadagnare territorio.  

Parole in libertà

“Un breve passo indietro nel tempo.  Parole che vanno lette alla luce dei recentissimi accadimenti. “Il fatto fondamentale di questa conferenza è che sono qui presenti, a presentare il risultato, il capo dello Stato libico al Menfi e il primo ministro Dbeibah che hanno fatto proprio il percorso verso la stabilità, un percorso a guida libica concordata con tutti noi”.

Così il premier Mario Draghi alla conferenza stampa al termine dell’incontro sulla Libia a Parigi. Draghi ha aggiunto che l’accordo è per elezioni simultanee il 24 dicembre, trattandosi di due chiamate al voto, una per le presidenziali l’altra per eleggere i parlamentari. Il presidente Menfi ha poi specificato che potrebbero svolgersi immediatamente una dopo l’altra, una anche il 25 dicembre. Secondo Draghi, l’assunzione di responsabilità diretta dei due massimi esponenti libici, “pronti a lavorare insieme”, è un fatto fondamentale per realizzare il percorso delineato. Si tratta di un percorso che si fonda su quattro pilastri: il primo è che le elezioni si svolgano simultaneamente per la presidenza e per il parlamento e che il risultato sia accettato. “I libici vogliono votare, ci sono già tre milioni di iscritti al voto”; e per votare occorre definire “nei prossimi giorni” la legge elettorale con l’accordo di tutti; il secondo pilastro è il percorso verso la stabilità in termini di sicurezza partendo dal fatto che il cessate il fuoco ha funzionato da un anno e mezzo, “non c’è guerra, c’è pace”; il terzo pilastro è l’economia: va consolidata la banca centrale e occorre un bilancio unico per il Paese; il quarto pilastro è quello dei diritti umani per i quali bisogna essere consapevoli che la situazione “va affrontata insieme”. 

Il meno che si possa dire che questi “pilastri” si sono rivelati, alla prova dei fatti, alquanto fragili. Nonostante ciò, l’Italia non demorde. E nella conferenza stampa di fine anno, Draghi ribadisce che “Ue e Italia continueranno a far di tutto per il consolidamento del processo democratico”

Guerra per procura

Globalist ha documentato con articoli e interviste questa guerra di mercenari al soldo di Russia, Turchia, Emirati Arabi Unit e, più defilati, Arabia Saudita e Qatar.

Soffermiamoci sulla Turchia. Per la sua campagna libica fa leva sulla compagnia militare privata Sadat, etichettata da alcuni come “l’esercito ombra di Erdogan” in Libia, dove è attiva già dal 2012 (stesso anno in cui è stata fondata). Si tratta di gruppi di contractor formati da ex militari, con la benedizione dei servizi segreti turchi (Mit). Alla testa di Sadat è Adnan Tanriverdi, comandante in pensione dell’esercito, che ha specificato che la compagnia “fornisce sostegno e addestramento militare in 22 Paesi del mondo islamico e dell’Asia Centrale”.  Sadat è stata impegnata in operazioni spesso clandestine, come l’addestramento delle milizie siriane da opporre al regime di Bashar al-Assad. L’intervento di Sadat nei Paesi coinvolti nelle primavere arabe è servito a Erdogan per spingere nell’orbita turca realtà in profondo cambiamento, come appunto quella libica, molto spesso attraverso la raccolta di informazioni e interventi diretti circoscritti. La Turchia per avere la meglio sul campo in Libia si affida anche ai mercenari siriani. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani negli ultimi sei mesi Ankara ha portato sul fronte a Tripoli 9.600 mercenarie altri 3.300 li sta addestrando nei campi siriani, pronti a partire. Tra le reclute, segnala l’Osservatorio, vi sono circa 180 minori di età compresa tra 16 e 18 anni. 

Dal maggio 2019, in coincidenza non casuale con il coinvolgimento principalmente di Turchia e Russia nel conflitto, sono arrivati in Libia mercenari dal Ciad e alcuni ribelli del Darfur. Poi, non sono mancate le forze di supporto sudanesi, i combattenti libici Toubou e ciadiani nel sud per difendere campi e piste di atterraggio e combattenti russi per lavori più tecnici. In particolare, la Turchia aveva iniziato a rischierare i terroristi mercenari anti-Assad dalla Siria, come truppe di terra già nel 2019, subito dopo la firma degli accordi marittimi e militari intercorsi con il Gna.  La maggior parte di questi combattenti apparteneva all’esercito nazionale siriano “reclutato” da Erdogan per affrontare il governo di Assad sostenuto da Mosca. La maggioranza proveniva da due formazioni: la Brigata Sultan Murad (composta in parte da turkmeni dell’area di Aleppo e autoproclamata come un gruppo “islamista”) e la Brigata al-Sham (principalmente da Idlib e designata come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti). Molti altri provenivano dalla Brigata al-Mu’tasim (Aleppo) e da Jabhat al-Nusra (una branca di al-Qaeda). Per la maggior parte, questi gruppi sono ben addestrati ed esperti nella cooperazione con il supporto al combattimento con le forze armate turche

Secondo il Pentagono, la Turchia avrebbe pagato e offerto la cittadinanza a migliaia di mercenari siriani per combattere al fianco delle milizie libiche alleate del Gna

Una conferma sul ruolo svolto dai mercenari al servizio del “Sultano” di Ankara, viene da un recente report dell’organizzazione per i diritti umani “Syrians for Truth and Justice” (Stj) .

La Stj è riuscita a mettersi in contatto con un testimone che lavora al confine turco-siriano di Jarabulus e che ha testimoniato come il Ministero della Difesa turco abbia incaricato alcune compagnie di sicurezza privata, tra cui SadatedAbna al-Umma di reclutare volontari tramite l’ombrello dell’Esercito libero siriano. Le compagnie in questione si occuperebbero di esaminare i potenziali mercenari per poi preparare tutta la documentazione necessaria e trasferirli legalmente dalla Turchia alla Libia, con tanto di contratto che va dai 3 ai 6 mesi.

Secondo testimonianze raccolte e pubblicate nel report, i volontari che passano i test di reclutamento vengono poi trasferiti con dei bus in territorio turco dove le compagnie di sicurezza si occupano di registrare i dati di ciascun volontario (impronte, dna, impronta ottica digitale). In seguito, a tutti viene consegnato un documento di identità da utilizzare in Libia e un Kimlik (documento che i turchi rilasciano ai rifugiati siriani). Un processo di circa 3 o 4 giorni, dopo di che i mercenari vengono inviati in Libia.

L’Stj ha poi raccolto la testimonianza di un volontario registratosi con un ufficiale della Divisione “Sultan Murad” noto come Abu Stef ma che ha poi desistito dal partire. L’intervistato ha illustrato l’esperienza di un suo compagno che dopo i test veniva messo in un hotel per poi ricevere documenti turchi, in modo da uscire dalla Turchia senza essere individuato come cittadino siriano. I mercenari vengono trasferiti in Libia con navi ed aerei per poi essere mandati al fronte senza alcun tipo di supporto logistico o indicazioni di alcun tipo. Il volontario ha poi smentito il salario di $3 mila al mese, spiegando che si tratta di soli $1.200 e senza possibilità di poter rientrare in Siria.

Siriani contro siriani

Fonti americane hanno rivelato a inizio maggio 2020 che Mosca stava contrattando con Damasco una fornitura di uomini e armi per Haftar in Libia. A maggio sarebbero stati reclutati circa 900 uomini e altri 650 sono in campi di addestramento siriani, pronti a essere inviati a combattere in Libia per 1.000-2.000 dollari al mese. Si tratterebbe, secondo Reuters, di ex membri dell’Esercito libero siriano che si sono arresi al regime di Bashar al-Assad e che combatteranno contro circa 4.500 ex compagni assoldati per la Libia da Erdogan.

Quanto a Mosca, il caos in Libia è un’opportunità per riguadagnare influenza nell’area. La Russia è interessata a stabilire un “testa di ponte” nel Nord Africa per ottenere una quota del settore della ricostruzione e all’influenza sull’industria degli idrocarburi, in particolare il mercato del gas. Sebbene non vi siano interessi nazionali vitali americani in gioco in Libia, la sua instabilità costituisce una minaccia crescente per gli interessi statunitensi nella regione anche considerato l’atteso arrivo nell’area dei cinesi con interessi simili a quelli della Russia.

Ora che in questo caos spartitorio potessero essere tenute libere elezioni più che un azzardo si è rivelato un vero e proprio salto nel vuoto. L’ennesimo fallimento, frutto avvelenato di quella sciagurata guerra scatenata nel 2011. L’Iraq prima, la Libia poi. L’Occidente non ha ancora capito la lezione della storia: se non hai un serio e condiviso progetto per il dopo, puoi anche vincere sul campo di battaglia, ma quella “vittoria”, prima o poi, ti si ritorcerà contro. 

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