In Libia signor ambasciatore Buccino c'è qualcosa che non quadra
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In Libia signor ambasciatore Buccino c'è qualcosa che non quadra

Il diplomatico ha detto: "La situazione in Libia rispetto al 2011 è molto cambiata: c'è un processo politico che sta andando avanti, c'è un sostegno internazionale a questo processo". Un po' eccessivo...

In Libia signor ambasciatore Buccino c'è qualcosa che non quadra
Libia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

21 Dicembre 2021 - 18.24


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Chi scrive ha avuto modo, nel corso degli anni, di apprezzare le capacità diplomatiche dell’ambasciatore Giuseppe Buccino, la sua capacità di muoversi con intelligenza ed equilibrio anche negli scenari più complicati e pericolosi. Uno di questi è senz’altro la Libia.

Narrazione e realtà

Per una volta dissentiamo con l’Ambasciatore. “La situazione in Libia oggi rispetto al 2011 è molto cambiata: c’è un processo politico che sta andando avanti, c’è un sostegno internazionale a questo processo”, ha affermato Buccino, a margine della XIV Conferenza degli Ambasciatori e delle Ambasciatrici d’Italia nel mondo.

Su un probabile rinvio delle elezioni previste il 24 dicembre il diplomatico ha spiegato che “anche in occasione delle elezioni nel 2012, ci fu un rinvio. La cosa importante è che c’è un processo politico, il 24 dicembre è parte di questo processo e la speranza è che il rinvio sia un rinvio di breve scadenza”. La consigliera speciale dell’Onu per la Libia, Stephanie Williams, è tornata a Tripoli “sta lavorando con il pieno sostegno dell’Italia e delle Nazioni Unite”, ha sottolineato Buccino. 

Un Ambasciatore è chiamato, per funzione e senso del dovere, a coprire la politica decisa ai massimi livelli politici della Farnesina, rappresentati in questa fase dal titolare Luigi Di Maio. Ma spingersi fino a narrare una realtà in via di stabilizzazione, questo è un po’ eccessivo.

Ricatto petrolifero

Non bastasse già quello dei migranti, usati come arma di ricatto, ecco aggiungersi anche quello del petrolio. Alcuni uomini armati affiliati alle Guardie delle strutture petrolifere (Pfg) in Libia hanno annunciato la chiusura degli impianti di Wafa (gas), El Sharara e Nc100 (petrolio) e la sospensione di tutti i lavori presso i giacimenti di idrocarburi di Nagus a Enc4. Lo riferiscono diversi media libici, tra cui l’emittente televisiva “218 tv” e il sito web “Libya Review”. Vale la pena ricordare che il giacimento di Wafa, nella Libia centro-occidentale (gestito dalla Mellitah Oil and Gas Company, società compartecipata paritariamente dall’italiana Eni e da Noc), è collegato al gasdotto Green Stream che rifornisce l’Italia del gas libico.

Dieci anni di impunità

In Libia, l’impunità regna sovrana da 10 anni. Nel 2012 una legge ha concesso piena immunità ai membri delle milizie per le azioni commesse al fine di “proteggere la Rivoluzione del 17 febbraio”. Il sistema giudiziario libico non funziona ed è inefficace: giudici e procuratori rischiano di essere sequestrati e assassinati semplicemente per il fatto di svolgere il loro lavoro. L’accertamento delle responsabilità resta una chimera, anche per i crimini commessi durante il regime di Gheddafi. Come il massacro del 1996 nella prigione di Abu Salim. I tentativi di portare di fronte ad un Tribunale i funzionari agli ordini di Gheddafi sono stati caratterizzati da gravi violazioni dell’equità dei processi, da torture e sparizioni forzate

Oggi un Paese senza pubblici poteri riconosciuti e credibili.Intanto la società civile libica, secondo diversi segnali colti da operatori umanitari, tende a percepire e valutare la situazione che si è creata in modi molto diversi: c’è chi crede di assistere ad una cospirazione internazionale – come del resto la cronaca degli avvenimenti ci conferma – che ha lo scopo di ridisegnare i perimetri di influenza nella regione. C’è poi chi invece ritiene che la “rivoluzione” di 10 anni fa, di fatto, ha raggiunto i suoi scopi. Altri ancora tendono a giudicare solo in base a quello che oggettivamente oggi si vede: un Paese allo sbando, insicuro, senza istituzioni e pubblici poteri riconosciuti solidi e credibili.

“Per dieci anni – dice Diana Eltahawy, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International – l’accertamento delle responsabilità e la giustizia sono stati sacrificati in nome di una pace e di una stabilità mai raggiunte. Gli autori delle violazioni dei diritti umani hanno beneficiato dell’impunità, sono stati integrati nelle istituzioni statali e sono stati trattati addirittura con deferenza. Se i responsabili delle violazioni dei diritti umani non saranno portati di fronte alla giustizia e continueranno a essere premiati con posizioni di potere – ha aggiunto Diana Eltahawy – la violenza, il caos, gli abusi sistematici e la sofferenza dei civili che hanno segnato l’era post-Gheddafi proseguiranno incontrastate”.

La realtà è quella che Globalist ha documentato in decine di articoli e interviste. Una realtà tratteggiata con grande rigore analitico e documentaristico da Carlo Ciavoni su Repubblica: “La realtà di questi ultimi anni è stata caratterizzata da promozioni di capi delle milizie responsabili di uccisioni illegali e torture, con la complicità (o la “distrazione”) dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese dopo la caduta di Gheddafi. sono stati integrati uomini delle milizie nei ministeri della Difesa e dell’Interno, ai quali sono stati attribuiti incarichi speciali, inseriti a libro-paga del Governo. Ad esempio, il cui Consiglio di presidenza dell’esecutivo di accordo nazionale di Tripoli ha nominato, all’inizio di quest’anno, Abdel Ghani al-Kikli (noto come “Gheniwa”), capo della milizia “Forza di sicurezza centrale di Abu Salim”, a capo di un nuovo organismo chiamato “Autorità di sostegno alla stabilità”, alle dirette dipendenze della presidenza. “Gheniwa” è uno dei più potenti capi delle milizie tripoline costituitesi dopo il 2011, in uno dei più popolosi quartieri della capitale, Abu Salim, dove si trova il carcere di massima sicurezza di Tripoli, luogo indicato spesso dagli attivisti dei diritti umani come un vero inferno per chi vi è rinchiuso”.

Non basta. Annota ancora Ciavoni: “Gheniwa” e la sua agenzia, insomma, avranno ampi poteri, compresi quelli dell’applicazione della legge: potrà arrestare persone per motivi di “sicurezza nazionale”. Tutto questo nonostante negli ultimi 10 anni Amnesty International abbia documentato crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani ad opera di gruppi sottoposti al suo comando. Nel 2013 e nel 2014 le ricerche di Amnesty Internationalservirono per scoprire che persone detenute dalle forze di sicurezza controllate da “Gheniwa” erano state sottoposte a sequestri e torture e altri maltrattamenti, a volte con esiti mortali. La stessa Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) è arrivata a conclusioni analoghe, comprese quelle relative alle morti in custodia sotto tortura.

Stupratori funzionari del ministero dell’Interno. Il Governo di accordo nazionale,  già dal 2016, aveva assegnato stipendi alle milizie di “Gheniwa”, integrando suoi uomini nel ministero dell’Interno, rendendo così legittimi e “legali” gli omicidi, i sequestri di persona, le torture, le violenze sessuali contro le detenute. Insomma, impunità di massa. “Gheniwa” e le forze in servizio nel carcere di Abu Salim non sono stati gli unici ad essere stati ricompensati, nonostante le gravi violazioni dei diritti umani a loro carico. Nel gennaio scorso – sempre secondo il lungo rapporto di Amnesty International – Haitham al-Tajouri, capo della milizia “Brigata dei rivoluzionari di Tripoli” è stato nominato vice di “Gheniwa”, nonostante fosse stato coinvolto in detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate e torture.

Sequestri di persona, torture, uccisioni extragiudiziarie. Sempre a Tripoli e sempre su decisione del Governo di accordo nazionale, nel 2018 le “Forze speciali di deterrenza” (note come “al-Radaa”), sotto il comando di Abdel Raouf Kara, sono state integrate nel ministero dell’Interno. Due anni più tardi, nel 2020, vennero trasferite sotto il diretto controllo del Consiglio di presidenza. Sia Amnesty International che altri organismi tra cui le Nazioni Unite, hanno documentato il coinvolgimento di “al-Radaa” in sequestri di persona, sparizioni forzate, torture, uccisioni extragiudiziarie, lavoro forzato, attacchi alla libertà d’espressione e persecuzione ai danni di donne e di esponenti della comunità Lgbtq+. . E ancora. Nel settembre 2020, il Governo di accordo nazionale ha anche promosso Emad al-Trabulsi, capo della milizia “Sicurezza pubblica”, a vicedirettore dell’intelligence nonostante il coinvolgimento di questa milizia in violazioni gravissime dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati. Vari governi non hanno portato di fronte alla giustizia gli appartenenti alle milizie di Misurata responsabili di crimini di guerra tra cui attacchi contro la popolazione civile, come quello contro la città di Tawarga,  nel 2011, che causò lo sfollamento forzato di circa 40.000 persone. Le milizie di Misurata hanno sottoposto gli abitanti ad arresti arbitrari di massa, uccisioni illegali, torture con esiti a volte mortali e sparizioni forzate.

Le coperture e le complicità dell’Egitto. Le forze armate arabe libiche continuano a proteggere i capi della “Nona brigata” (nota come “Forze al-Kaniat”), coinvolta in omicidi di massa, nel disfacimento di cadaveri in fosse comuni, in torture e sequestri di persona nella città di Tarhuna. Contribuiscono ad evitare l’accertamento delle responsabilità anche ulteriori parti. L’Egitto, ad esempio, ha continuato a proteggere Khalid al-Tuhamy, capo della sicurezza ai tempi di Gheddafi e ricercato dal Tribunale penale internazionale, fino alla sua morte avvenuta nel febbraio 2012. Turchia, Russia, Emirati Arabi Uniti e lo stesso Egitto hanno violato l’embargo delle Nazioni Unite sulle armi alla Libia….”.

Così Ciavoni. 

I veri player

Ovvero Vladimir Putin e Racep Tayyp Erdogan.

Secondo gli analisti della Nazioni Unite, contractor militari russi sono impegnati in Libia in operazioni “su vasta scala” — dal training al fronte — per sostenere le ambizioni politiche armate di Haftar.  Ci sarebbero tra gli 800 e i 1200 uomini del gruppo Wagner, che operano attivamente in Libia almeno dal 2018. Tra questi ci sono anche una quarantina di cecchini in prima linea sul fronte tripolino. Sono ex forze speciali che mesi fa hanno fatto la differenza pro-Haftar, e da quando hanno un po’ allentato le attività il capo miliziano dell’Est ha iniziato a indietreggiare.

Nel report ci sono le immagini di questi professionisti della guerra e prove tecniche circostanziali, come la presenza in Libia di granate Vog-25 da 40 mm, che sono state utilizzate dagli agenti Wagner nell’Ucraina orientale e in Siria.

Le analisi sono state effettuate dagli esperti dell’Onu che monitorano le sanzioni contro la Libia — sottoposta a embargo dal 2011, misura costantemente violata su entrambi i fronti, e ora oggetto del controllo della missione navale europea Irini  attivata da pochi giorni. Il report è la prima ampia analisi delle Nazioni Unite sui mercenari russi, ed è stato visto da Bloomberg in anteprima.

Un’entità collegata a Wagner si è impegnata in una “campagna altamente sofisticata ed estesa sui social media” per sostenere Haftar e le sue operazioni a terra, ha osservato il gruppo di analisti onusiani, aggiungendo che le “operazioni psicologiche” sono vietate sotto l’embargo sulle armi delle Nazioni Unite. Uno sforzo simile è stato intrapreso per sostenere Saif Al-Islam Gheddafi, il figlio del defunto dittatore, considerato il cavallo su cui Mosca ha puntato in Libia.

Ora, non è certo un segreto che in Russia non si muova foglia che lo “Zar” non voglia: e la recente “scomparsa” dal campo di battaglia dei mercenari russi, era un messaggio molto chiaro che un adirato Putin ha indirizzato ad Haftar: se credi di potercela fare da solo, accomodati pure, ma scordati del sostegno russo, diretto o indiretto. Haftar ha capito e si è adeguato. Per il capo del Cremlino, l’ex ufficiale, neanche tra i più capaci, di Muammar Gheddafi, può al massimo aspirare ad essere, per Mosca, l’Assad libico, vale a dire lo strumento di una politica imperiale russa nel Mediterraneo.

I soldi che circolano in Est Libia sono stampati in Russia. Il danaro stampato a Tripoli può circolare soltanto in Tripolitania. Gli interessi sono evidenti.

La torta petrolifera

Ciò che sta davvero accadendo in Libia è la “Grande spartizione” tra il Sultano e lo Zar. Russi e turchi sono pronti a spartirsi la Libia e a esercitare la loro crescente influenza nel Mediterraneo Occidentale. E’ questo che dicono le manovre aeronavali turche a largo delle coste libiche e lo schieramento dei jet russi nella base di Jufra che, secondo alcuni, hanno parzialmente sostituito i mercenari della Wagner. Ankara vuole insediarsi in Tripolitania, Mosca punta a farlo in Cirenaica. Ma dopo mesi di una campagna militare impantanata, la Russia ha ritirato il suo supporto decidendo di negoziare con Ankara i futuri assetti del paese e le relative zone di influenza. Tutto è dunque deciso? Non ancora, si legge in una documentata analisi analisi dell’Ispi, perché ci sono temi su cui i due paesi, entrambi impegnati in Libia, si trovano su sponde decisamente opposte: la Russia vuole fermare l’avanzata delle forze di Tripoli prima che raggiungano Sirte e, soprattutto, vuole garantirsi un avamposto militare in Cirenaica. Ankara frena, e dalla sua posizione di forza cerca di assicurarsi la base di Al Watyah e il porto di Misurata, rispettivamente a ovest e a est di Tripoli. Dagli equilibri che si raggiungeranno dipende l’assetto della Libia di domani che, ancora una volta, non si deciderà né a Tripoli né a Bengasi, prosegue il documento. Da tempo infatti quella in Libia si è trasformata in una guerra per procura dove sono gli attori esterni, regionali, e globali, ha determinarne gli scenari e i possibili compromessi.

Un progetto di spartizione della Libia che, secondo indiscrezioni, sarebbe partito allora e finalizzato in un vertice segreto tenutosi a Malta a fine ottobre 2020. La posta in gioco non è solo il controllo degli idrocarburi gestiti dalla Noc (National Oil Corporation) con importanti contratti all’Eni, è in gioco, ma l’intero asse mediterraneo. 

Signor Ambasciatore, permetta una domanda: Ma qual è, dove è, in cosa consiste questo “ processo politico che sta andando avanti”?

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