Levy: "Armare la sinistra israeliana perché possa proteggere i palestinesi dai coloni"
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Levy: "Armare la sinistra israeliana perché possa proteggere i palestinesi dai coloni"

Gideon Levy con le sue considerazioni hanno smosso le acque e scatenato un dibattito destinato a varcare i confini stessi d’Israele

Levy: "Armare la sinistra israeliana perché possa proteggere i palestinesi dai coloni"
Coloni israeliani
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

25 Novembre 2021 - 18.17


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Come sempre, ha fatto centro. Le sue considerazioni hanno smosso le acque e scatenato un dibattito destinato a varcare i confini stessi d’Israele. Gideon Levy, icona vivente del giornalismo israeliano, firma storica di Haaretz, ha scritto un articolo titolato così: “Armare la sinistra israeliana in modo che possa proteggere i palestinesi dalla violenza dei coloni”. 

Dove “armare” non è una metafora.

Scrive Levy: “Diversi fatti non possono essere contestati: i  palestinesi nei Territori, soprattutto la popolazione rurale, sono una popolazione a grave rischio, senza difensore. Negli ultimi mesi la loro condizione è peggiorata. Gli attacchi dei coloni sono diventati più violenti, metodici e frequenti, e la loro vita è diventata un incubo. Non c’è un contadino palestinese che non abbia paura di uscire a lavorare la sua terra, e molti hanno dovuto rinunciare ai loro appezzamenti per paura dei coloni.

L’IDF, che è responsabile della loro sicurezza, non si sogna nemmeno di alzarsi in loro difesa. I suoi soldati stanno a guardare, quasi sempre proteggendo gli aggressori, a volte fornendo loro le armi. L’alto comando incoraggia questo comportamento con il suo silenzio e la sua inazione, anche se recentemente una direttiva a parole dice il contrario. È improbabile che venga messa in atto. Anche la polizia israeliana non fa nulla, e la polizia dell’Autorità Palestinese non è autorizzata ad alzare un dito per difendere la sua gente. Così, la popolazione è lasciata più indifesa che mai. Si può naturalmente accettare con un’alzata di spalle, come si fa con tutta la realtà dell’apartheid, e non fare nulla. Haim Shadmi, giornalista e attivista di sinistra radicale, la pensa diversamente. La pensa esattamente come i coloni: dove l’IDF non fa abbastanza per proteggere i residenti, deve entrare in scena un’altra forza. È così che sono nate le milizie dei coloni – il cui braccio legale si chiama ravshatzim (un acronimo ebraico per ‘coordinatori della sicurezza militare in corso’) – pagate dallo stato, armate dall’esercito e autorizzate a fare quasi tutto in nome della protezione degli insediamenti. E infatti lo fanno. Terrorizzano i palestinesi, a volte facendo del male a degli innocenti, in nome dell’autodifesa. L’organizzazione Hashomer Hachadash è emersa per uno scopo simile: dove la polizia non fa abbastanza, è sorta in Israele un’organizzazione civile con un’unità montata su jeep, un’unità di motociclisti e un’unità di volontari della Border Police; proprio quello di cui la brutale Border Police ufficiale aveva bisogno. ‘Lo Stato d’Israele non protegge la sua terra – noi proteggeremo la terra dello Stato per lui’, dichiara la home page dell’organizzazione.

Shadmi la pensa allo stesso modo: una popolazione indifesa deve essere difesa. La sua coscienza si è risvegliata: La sinistra deve alzarsi in difesa degli aggrediti. Questo, tra l’altro, è ciò che alcuni bianchi, tra cui molti ebrei, hanno fatto in Sudafrica nei confronti della popolazione nera. Provate a immaginare la vigliaccheria dei teppisti dei coloni di fronte a israeliani armati, veterani dell’IDF, che li affrontano.

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Ad un simposio della Knesset sulla violenza dei coloni organizzato dalla sinistra questa settimana, Shadmi ha espresso la sua proposta: ‘Se non potete farlo’, ha detto ai legislatori, ’per favore, dateci l’autorità di usare le armi. Faremo il lavoro per i palestinesi e proteggeremo la vita umana’. In altre parole, ravshatzim, o Hashomer Hachadash, sotto gli auspici dello stato, per difendere gli indifesi. Shadmi ha aggiunto: ‘Non faremo del male a nessuno’, ma a quel punto nessuno voleva più sentire niente.

Il clamore era evidente. Non si deve parlare così. Il primo è stato il membro più a sinistra e più arabo del governo di centro-sinistra, Esawi Freige. ‘Inutile. Siete andati troppo lontano, troppo lontano, troppo lontano’ Perché fuori luogo? E chi ha esagerato? E chi proteggerà i suoi fratelli nei Territori? Poi è arrivata la tempesta online, da sinistra e da destra, violenta, iperbolica, incendiaria, che distorce le parole di Shadmi: la sinistra minaccia l’omicidio. Un sollievo comico è stato fornito dal presidente del Consiglio degli insediamenti di Yesha, David Elhayani, che ha chiesto al commissario di polizia di ‘trattenere Shadmi per interrogarlo sulle minacce e l’incitamento all’omicidio’. Il sensibile Elhayani, che di violenza se ne intende, è spaventato dalle minacce della sinistra. Divertente.

Quasi nessuno ha appoggiato la proposta di Shadmi, una delle più spot-on sollevate a sinistra negli ultimi anni. Se ci fosse una sinistra, è quello che avrebbe dovuto fare molto tempo fa. Il problema di questo immaginario esercito della salvezza, che non sarà mai istituito: Chi si offrirà volontario per esso? I figli delle candele? Le squadre di lavoratori Hapoel? I giovani del Meretz?”.

Fin qui Levy.

Annota in un breve ma denso saggio, Mickey Gitzin, direttore esecutivo del New Israel Fund: “L’occupazione è un’entità extraterritoriale priva di diritti umani e civili. Permette ai cittadini israeliani soggetti al sistema giuridico israeliano di ricorrere alla violenza contro i palestinesi – che sono soggetti al sistema giuridico militare e non sono cittadini di nessun paese – e di farlo senza paura di essere puniti e mentre i militari chiudono un occhio.

Aiutati dalla fragile situazione politica e dalla paura di Bennett di essere accusato di essere di sinistra, i residenti degli avamposti e i gruppi violenti si comportano come non osavano fare durante il mandato dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, e la violenza contro i palestinesi e gli attivisti per la pace sta diventando sempre più comune. La debolezza dimostrata dal sistema giuridico di fronte agli aggressori rafforza ciò che già sapevamo: anche se il comandante militare è sovrano sui soggetti palestinesi sul terreno, è lì per proteggere la popolazione ebraica. Il semplice fatto è che non c’è nessun’altra democrazia liberale al mondo che occupi un territorio e una popolazione come Israele, e per la quale l’occupazione è diventata una parte così centrale della sua identità. Israele è stato un paese occupante per quasi tre quarti della sua esistenza. Durante la maggior parte dei 54 anni trascorsi dal 1967, l’occupazione è stata considerata una situazione temporanea che un giorno si sarebbe risolta in uno dei due modi: ritiro o annessione. La democrazia israeliana, inevitabilmente, dipende dalla natura temporanea dell’occupazione, dalla promessa che un giorno finirà, e nel frattempo esiste per motivi di sicurezza e serve come merce di scambio per un accordo futuro.

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Ma la situazione temporanea non è più temporanea da molto tempo. Perché i governi israeliani hanno smesso di cercare di promuovere una soluzione diplomatica per porre fine a questa situazione intollerabile – o anche solo di dare un’impressione di farlo. Al contrario: La politica attuale è quella di espandere l’occupazione, allargare gli insediamenti oltre la crescita naturale, e adottare un approccio troppo comprensivo, nella maggior parte dei casi, verso nuovi avamposti stabiliti nel cuore dei territori il cui unico scopo è quello di impedire un accordo finale.

Quando questa è la politica, la questione del partner palestinese, che negli ultimi 20 anni è servita come scusa per il rinvio, è semplicemente irrilevante. L’idea che si è radicata in Israele è che la continuazione dell’occupazione non è un problema degli israeliani ma dei palestinesi, poiché i primi non pensano al conflitto quando si svegliano la mattina, mentre i palestinesi, al contrario, sono abituati a svegliarsi in piena notte a causa di esso.

E ancora, la fine dell’occupazione è nell’interesse di Israele. Finché continua, Israele è al massimo una democrazia con un asterisco. Il desiderio di rimuovere l’asterisco ed eliminare l’occupazione deve essere essenziale per chiunque sia interessato a vivere in una democrazia liberale. Chiaramente ci sono molti ostacoli difficili da superare. Ma anche senza raggiungere una soluzione diplomatica nel prossimo futuro, c’è una lunga serie di passi che possono essere fatti per ridurre il dominio israeliano sui palestinesi e per promuovere il più possibile l’autogoverno palestinese, in un modo che anche le delicate circostanze politiche del governo del cambiamento possono permettere. Se non per la pace, almeno per la democrazia”, conclude Gitzin.

Lo sconforto di Abraham

“Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine ‘sinistra’, in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è invece alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine «sinistra», in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Per evitare la prospettiva di un processo Netanyahu, da leader politico, si è trasformato in quello di una setta che, mediante minacce e lusinghe, argina l’opposizione dei suoi membri mentre il sistema politico si piega davanti a lui per garantirgli un’eventuale immunità annullando elezioni appena tenute, disperdendo il parlamento e indicendo nuove consultazioni elettorali entro tre mesi.
Nemmeno i più anziani ed esperti fra noi erano pronti a questo scenario di corruzione e di aperto attacco politico dei partiti di governo allo stato di diritto per far sì che il primo ministro non finisca in prigione. E tutto questo con il sostegno di una folla acclamante. Di fronte a tale realtà proviamo un senso di disgusto e di prostrazione. Non è più questione di posizioni politiche diverse e nemmeno di tendenziose panzane raccontate dal primo ministro e dai suoi assistenti che si succedono a ritmo incessante. Questa è una chiara e spudorata violazione dei valori di solidarietà che erano alla base della promessa sionista di riunire ebrei di diversa provenienza e livello in uno stato democratico.

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Negli anni ’70 del secolo scorso due ministri del governo laburista furono sospettati di avere preso tangenti e ancora prima di essere processati si suicidarono per la vergogna. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1977 diede le dimissioni perché accusato di aver mantenuto un piccolo conto corrente all’estero, cosa allora vietata ai cittadini israeliani. Il presidente Moshe Katsav fu condannato a sette anni di carcere da un giudice distrettuale arabo per aver sessualmente molestato la sua segretaria. Il primo ministro Ehud Olmert finì in carcere per aver ricevuto finanziamenti illeciti per la sua campagna elettorale. Fino a ieri potevamo consolarci con il fatto che nella palude politica israeliana ci fossero ancora principi di giustizia e di uguaglianza. Ma ecco che ora il primo ministro calpesta spudoratamente la legge per salvare la propria pelle e conduce il paese a una nuova, aspra e costosa campagna elettorale a poche settimane di distanza dalla precedente. C’è quindi da meravigliarsi che persone come me, indipendentemente dalla loro posizione politica, provino un senso di avvilimento e di paralisi?”.

Queste considerazioni fanno parte di un lungo articolo di Abraham Bet Yehoshua, il grande scrittore israeliano, pubblicato da La Stampa l’8 agosto 2019. Due anni e quattro mesi dopo,  le cose non sono certo migliorate. E l’avvilimento di Yehoshua si è trasformato nel Grande sconforto condiviso da quella parte d’Israele che sogna una sinistra che non c’è. Una sinistra “in armi”.  

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