Questa è la storia di una giovane donna di Gaza. Che aveva un sogno: uscire da quella prigione a cielo aperto isolata dal mondo. Un sogno che Afaf aveva realizzato. Ma qui è entrato in gioco Hamas.
La storia di Afaf
A raccontarla è l’Associated Press: “Afaf al-Najar aveva trovato un modo per uscire da Gaza. La 19enne ha vinto una borsa di studio per studiare comunicazione in Turchia, si è assicurata tutti i documenti di viaggio necessari e ha persino pagato 500 dollari per saltare le lunghe file al valico di Rafah con l’Egitto.
Ma quando è arrivata al confine il 21 settembre è stata respinta – non da Israele o dall’Egitto, che hanno imposto un blocco di 14 anni sulla Striscia di Gaza – ma a causa di una legge sulla tutela maschile emanata dal Hamas, che governa il territorio.
‘Onestamente sono scoppiata’ ha detto, descrivendo il momento in cui i funzionari di frontiera hanno rimosso i suoi bagagli dall’autobus. ‘I miei occhi hanno iniziato a colare, non riuscivo nemmeno a stare in piedi. Hanno dovuto portare una sedia per me… Mi sono sentita derubata del mio sogno’. I viaggi dentro e fuori Gaza, un territorio costiero che ospita più di 2 milioni di palestinesi, sono stati severamente limitati dal 2007, quando Hamas ha preso il potere nella Striscia. Nel febbraio scorso,
febbraio, un tribunale islamico gestito da Hamas ha emesso un avviso che dice che le donne non accompagnate devono ottenere il permesso di un “tutore” maschio – un marito, un parente o anche un figlio – per viaggiare fuori dal territorio. Dopo una reazione guidata da gruppi per i diritti umani, le autorità di Hamas hanno modificato la sentenza per eliminare il requisito. Invece, ha mantenuto la norma per la quale un parente maschio può presentare una petizione a un tribunale per impedire a una donna di viaggiare se ciò comporterebbe un ‘danno assoluto’. Le donne non possono impedire agli uomini di viaggiare.
Hamas ha fatto solo passi sporadici nel corso degli anni per imporre la Sharia, o legge islamica, nella già conservatrice Gaza, e anche allora ha solitamente fatto marcia indietro di fronte alle critiche. Non condivide l’ideologia estrema di fazioni più radicali come lo Stato Islamico. Il padre di Al-Najar ha presentato una petizione, e il tribunale le ha impedito di viaggiare per poterla considerare. Vive con sua madre, che è separata dal padre, e dice che lui ha interrotto tutti i contatti con lei a maggio. Non è stato possibile raggiungerlo per un commento.
I funzionari di Hamas non hanno risposto a ripetute richieste di commento.
Human Rights Watch, un gruppo con sede a New York che è profondamente critico nei confronti del blocco, imposto da Israele, ha invitato Hamas a revocare le sue restrizioni.
‘Le autorità di Hamas dovrebbero revocare il divieto di viaggio per Afaf al-Najar e il Consiglio giudiziario supremo dovrebbe ritirare il suo avviso, in modo che le donne di Gaza possano viaggiare senza restrizioni discriminatorie”’ ha detto.
Dopo essere stata respinta al confine, al-Najar si è appellata a un certo numero di gruppi locali per i diritti umani, ma ha detto che sembravano riluttanti ad assisterla, temendo rappresaglie da Hamas. Alla fine, ha presentato una petizione contro il divieto.
Suo padre non si è presentato alla prima udienza, che è stata rinviata. Prima di aggiornarla, il giudice le ha chiesto perché stesse andando all’estero e le ha suggerito che avrebbe potuto studiare in una delle università di Gaza. Al-Najar, che parla correntemente inglese e insegna la lingua, aspira a diventare una giornalista. Dice che un paese multiculturale come la Turchia offre opportunità che non esistono a Gaza, che è in gran parte tagliata fuori dal mondo esterno.
L’udienza è stata rinviata una seconda volta perché l’avvocato di suo padre era malato. È stata rinviata una terza volta mercoledì perché il suo nuovo avvocato ha detto che aveva bisogno di tempo per studiare il caso.
La validità della borsa di studio è stata estesa fino alla fine dell’anno, ma se al-Najar non arriva in Turchia per allora, la perderà.
Ma lei non si arrende.
‘Ho capito che nessuno mi aiuterà tranne me stessa, e ho capito che ora devo essere forte per combattere per i miei diritti’, ha affermato. ‘Invece di piangere nella mia stanza e lasciarmi andare, ho deciso di combattere. Ho scelto di combattere per la prima volta nella mia vita’”.
Una vita da donna libera.
Quella sentenza fondamentalista
Nel febbraio scorso, nella Striscia di Gaza, un tribunale islamico gestito da Hamas ha stabilito che per viaggiare le donne devono avere il permesso di un tutore maschio, limitando ulteriormente i loro movimenti dentro e fuori Gaza, bloccata da Israele ed Egitto da quando il gruppo militante ha preso il potere. A Gaza la riduzione dei diritti delle donne potrebbe innescare una reazione in un momento in cui i palestinesi pianificano di tenere le elezioni entro la fine dell’anno. Potrebbe anche contribuire a consolidare il sostegno di Hamas tra la sua base conservatrice in un momento in cui deve affrontare critiche sulle condizioni di vita nel territorio che governa dal 2007.
La decisione del Consiglio Giudiziario della Sharia afferma che una donna non sposata non può viaggiare senza il permesso del suo “tutore”, che di solito si riferisce a suo padre o a un altro parente maschio più anziano. Il permesso dovrebbe essere registrato presso il tribunale, ma all’uomo non sarebbe richiesto di accompagnare la donna durante il viaggio. Il linguaggio della sentenza implica fortemente che una donna sposata non sarebbe in grado di viaggiare senza l’approvazione del marito.
L’editto dice anche che a un uomo potrebbe essere impedito di viaggiare da suo padre o da suo nonno se ciò causasse “gravi danni”. Ma l’uomo non avrebbe bisogno di chiedere il permesso preventivo e per impedirgli di viaggiare il parente dovrebbe intentare una causa.
La sentenza assomiglia alle cosiddette “leggi sulla tutela” che sono esistite a lungo nell’ultra-conservatrice Arabia Saudita, dove le donne venivano trattate come minorenni che necessitavano del permesso di un marito, padre o persino un figlio per richiedere un passaporto e viaggiare all’estero. Il regno ha allentato queste restrizioni nel 2019.
Hassan al-Jojo, capo del Consiglio Giudiziario supremo, ha detto all’Associated Press che la sentenza era equilibrata e coerente con le leggi islamiche e civili. Ha respinto quello che ha definito ” clamore inutile e ingiustificato” dei social media.
Ha giustificato la misura citando casi passati in cui le ragazze avevano viaggiato all’insaputa dei loro genitori e gli uomini avevano lasciato le loro mogli e figli senza un capofamiglia.
La sentenza ha suscitato critiche sui social media, dove molti hanno accusato Hamas di annullare i diritti delle donne proprio mentre l’Arabia Saudita ha allentato le sue restrizioni, consentendo anche alle donne di guidare. Il Partito Popolare Palestinese, un piccolo gruppo di sinistra, ha chiesto ad Hamas di revocare la decisione.
Zainab al-Ghunaimi, un’attivista che a Gaza gestisce un gruppo che si occupa dei diritti delle donne, ha dichiarato che la sentenza viola la legge fondamentale palestinese, che garantisce la parità di diritti agli adulti, e significa che le autorità stanno “facendo marcia indietro nella protezione dei diritti umani”. Zainab ha anche fatto notare la contraddizione che sta nel fatto che lo stesso ente legale consenta ad una donna di “sposarsi all’età di 16 anni ed ottenere così, nemmeno maggiorenne, i documenti per viaggiare da sola”.
Una intervista illuminante
Quella Miassar Ateyani, direttrice della General Union of Palestinian Women a Wolfram Kuck per l’agenzia di stampa Nena News
Eccone un brano: “A Gaza purtroppo le donne soffrono ancora di più, sia sotto l’occupazione, sia sotto il governo di Hamas. Quando Hamas ha preso il potere nel 2007 e ha sostenuto il velo obbligatorio per tutte le donne e “consigliato” loro di non lavorare ma occuparsi della famiglia e della casa, alcune donne si sono subito ribellate, ma poche. Perché solo poche? Perché la maggior parte delle gazawi non aveva paura tanto di Hamas, quanto del marito o in generale degli uomini della famiglia. Adesso, rispetto ai primi anni dopo il 2007, anni veramente di buio oscurantismo, la situazione a Gaza è un minimo migliorata. Ma succedono ancora delle cose allucinanti. Ad esempio, una vicenda attualissima che riguarda il gruppo musicale Soul Band Gaza, un gruppo di giovani gazawi, tra l’altro musicalmente parlando bravissimi, con una giovane ragazza come cantante. Hanno girato i loro video musicali suonando in pubblico a Gaza, in piazza o sulla spiaggia,e la ragazza cantava senza velo. Hamas l’ha attaccata e la società non l’ha protetta. Ora il gruppo se n’è dovuto andare in Turchia. Ma ti sembra normale che noi come società perdiamo dei giovani talenti del genere perché la ragazza ha cantato in pubblico senza velo? Si tratta quindi di un problema di società, non solo di regime. Che sia un regime di Fatah o di Hamas, è la società innanzitutto che deve sostenere le donne. Per esempio, ti posso dire cosa è successo pochi mesi fa ad al Khalil (Hebron), qui in Cisgiordania, non nella Striscia sotto Hamas. Come Gupw abbiamo organizzato una conferenza sul Cedaw e i gruppi islamisti hanno organizzato una contro-iniziativa di donne islamiste contro di noi. Donne contro donne, capisci? Le donne islamiste hanno sostenuto che avrebbero combattuto il Cedaw e ci hanno accusato di essere contro il Corano e contro l’Islam. I gruppi islamisti inoltre minacciarono di ritorsioni i proprietari di case e sale ad al Khalil che ci affittarono gli spazi. Quindi mi chiedo io, è davvero più grave la situazione a Gaza che ad al Khalil? Ti faccio un altro esempio: sempre ad al Khalil circa due mesi fa un marito ha ammazzato la propria moglie. I capifamiglia delle due famiglie coinvolte hanno fatto un incontro, si sono messi d’accordo economicamente e il tutto è stato risolto senza l’intervento della legge. E sono proprio questo tipo di famiglie che si oppongono alle nostre attività per l’implementazione del Cedaw”.
Parla Hanan Ashrawi
“Di tutte le società arabe, quella palestinese è, nonostante tutto, la più plurale, anche se ancora tanto c’è da fare per raggiungere una effettiva parità di genere. Non è facile, soprattutto quando si vive sotto occupazione, tuttavia resto convinta che la qualità di una democrazia si misuri dalla presenza delle donne nella vita pubblica”. A sostenerlo è una delle figure palestinesi, più rappresentative e conosciute al livello internazionale: Hanan Ashrawi. Memoria storica, oltre che critica, della dirigenza palestinese, Hanan Ashrawi fu la prima portavoce della delegazione palestinese ai colloqui di Washington. E già questo rappresentò una novità che conquistò l’attenzione internazionale: perché donna, perché cristiana, perché autonoma rispetto a “quelli di Tunisi”, i dirigenti dell’Olp in esilio con Yasser Arafat. In seguito, è stata la prima portavoce donna della Lega Araba. Nel 1995 è uscito in Italia per la Sperling &Kupfer Editori il libro “Hanan Ashrawi. La mia lotta per la pace. Autobiografia di una donna scomoda”. Scomoda per la sua coerenza, per la sua determinazione, per la sua indipendenza intellettuale. Scomoda perché donna. Nel ricostruire gli eventi che portarono alla storica stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin e alla firma (settembre 1993) degli Accordi di Washington, Hanan Ashrawi annota: “Abbiamo dato avvio a una campagna per attribuire poteri alle donne e assicurarne la partecipazione su basi paritarie in tutti i campi della vita politica, economica e sociale. ‘Noi non torneremo in cucina!’”. Ventotto anni dopo, l’impegno continua, con una consapevolezza che non è venuta meno: “Le donne- rimarca Ashrawi – sanno perfettamente di poter essere sacrificate per prime ai fini dell’opportunità politica e per questa ragione hanno sentito, allora, l’imperativo e l’urgenza di esigere il proprio spazio. Mentre insistevamo per la nomina di donne all’interno dell’Autorità, ho ricevuto crescenti pressioni perché ‘tenessi una moneta in bocca’”.
Di seguito alcuni passaggi di una intervista che Ashrawi ha concesso a chi scrive.
Cosa significa essere donna in Palestina?
Significa essere parte di un movimento di liberazione nazionale e al tempo stesso battersi per il superamento dei caratteri più opprimenti di una società patriarcale. Ecco, se dovessi operare una sintesi, direi che le donne palestinesi lottano per una doppia liberazione. E fanno questo dovendosi occupare di mandare avanti famiglie con tanti bambini e spesso da sole perché il marito o il figlio più grande è in un carcere israeliano”.
Gli omicidi per ragioni di “onore” sono piuttosto diffusi in Palestina, sia nella Striscia di Gaza sia nella West Bank: la cronaca nera riporta spesso notizie di giovani trovate morte – strangolate, avvelenate, accoltellate, ecc. – dai propri familiari.
E’ qualcosa di terribile, contro cui ogni giorno combattiamo attraverso le associazioni delle donne e la messa a disposizione di avvocati. La violenza che segna la nostra condizione di palestinesi, un popolo sotto occupazione, può spiegare, in parte, ma non giustificare, in alcun modo, la violenza che le donne subiscono all’interno della famiglia. E un discorso di leggi, di codici, ma è anche un discorso culturale, di crescita collettiva. Per questo sono importanti i progetti per l’istruzione e l’educazione sessuale che poi significa avere consapevolezza di sé e del proprio corpo. Passi in avanti sono stati fatti, non siamo all’anno zero, tuttavia va riconosciuto che la società palestinese, in particolare quella delle zone rurali, non è ancora adeguatamente preparata a riconoscere e a perseguire la violenza sessuale: le vittime sono colpevolizzate, accusate di “essersela cercata” con comportamenti o abbigliamento “sbagliati”, e spesso rischiano di essere uccise perché “l’onore sia lavato”. La vittima è trasformata in colpevole, in capro espiatorio della violenza altrui…”.
Afaf, Hanan, Miassar. La resistenza è “rosa”. Contro l’occupazione israeliana. E contro un patriarcato islamista che vorrebbe tarpar loro le ali della libertà.
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