Sudan la controrivoluzione “modello al-Sisi”.
Putsch militare
Il ministero dell’Informazione sudanese ha confermato che forze armate hanno sparato contro manifestanti “che rifiutavano il colpo di stato militare” a Khartoum: l’esercito ha usato “munizioni vere” contro i contestatori fuori dal quartier generale dell’esercito nel centro di Khartoum, cui l’accesso è impedito da blocchi di cemento e militari da diversi giorni, ha aggiunto il ministero sul proprio account Facebook. nelle prime ore della giornata i militari hanno arrestato il primo ministro del paese, Abdalla Hamdok, il ministro dell’Industria, Ibrahim al Sheikh, e quello dell’Informazione, Hamza Baloul, oltre a un consigliere del primo ministro, Faisal Mohammed Saleh.
“Il Comitato dei medici sudanesi: almeno 12 feriti negli scontri a Khartoum“: lo scrive un twitter di Sky News Arabiya.
Del resto il ministero dell’Informazione sudanese, segnalando du Facebook che i militari hanno sparato con proeittili veri contro i manifestanti, aveva precisto che “ci si attende diversi feriti”. “I sudanesi che rifiutano il golpe si sono radunati, sfidano i proiettili e arrivano alla sede del Comando Generale dell’Esercito”, ha riferito lo stesso dicastero sempre su Fb.
L’ufficio del primo ministro sudanese Abdalla Hamdok ha invitato a scendere in piazza dopo il tentativo di golpe e l’arresto di importanti leader civili del governo di transizione. “Chiediamo al popolo sudanese di protestare usando tutti i mezzi pacifici possibili… per riprendersi la rivoluzione dai ladri”, ha scritto l’ufficio di Hamdok in una nota.
Militari non meglio indentificati hanno assediato l’abitazione del primo ministro del Sudan, dichiarandolo agli arresti domiciliari. lo riferisce al Hadath TV, citata da al Jazeera. Poi, il ministero dell’Informazione in una nota, avverte che “dopo aver rifiutato di sostenere il golpe, le forze armate hanno arrestato il primo ministro Abdallah Hamdok e lo hanno portato in un luogo non identificato”. Risultano arrestati anche i ministri dell’Industria e dell’Informazione e un consigliere del premier. “L’accesso alle telecomunicazioni è stato limitato” – fa sapere al Jazeera da Khartoum – “quindi è molto difficile ottenere informazioni su cosa stia succedendo”.
La ministra degli Esteri sudanese Mariam al-Mahdi, leader del partito islamista moderato “Umma”, ha dichiarato che “qualsiasi colpo di Stato viene respinto, resisteremo con ogni mezzo civile“. Lo scrive un tweet della tv al Arabiya. Mariam è figlia di Sadiq al -Mahdi, leader dell’opposizione ed ex primo ministro del Sudan.
Secondo altre fonti ad aver preso il controllo sarebbero militari fedeli al generale Burhan, in un momento delicatissimo della transizione del Paese diviso in due fazioni dalla cacciata dell’ex presidente Omar al-Bashir. Solo ieri i gruppi pro democrazia avevano messo in guardia da un possibile colpo di mano dopo che le forze di sicurezza avevano disperso con i lacrimogeni una manifestazione di filomilitari che chiedeva lo scioglimento del governo di transizione. I manifestanti avevano bloccato per breve tempo le strade e i ponti principali di Khartoum, isolando l’area centrale dai quartieri settentrionali.
“Membri civili del consiglio sovrano di transizione e un certo numero di ministri del governo di transizione sono stati arrestati da forze militari congiunte”, in Sudan. Lo ha confermato il ministero dell’Informazione in una nota su Facebook precisando che gli arrestati sono stati condotti in un luogo non precisato. Tuttavia, nel suo comunicato, il ministero non ha specificato se il premier Abdallah Hamdok fosse tra i leader arrestati, dopo che i media avevano riferito che era stato posto agli arresti domiciliari.
L’”Al Sisi” sudanese
E’ il generale Abdel Fattah al-Burhan. E’ lui ad aver dichiarato che i militari hanno preso il potere nel paese e che il governo è stato sciolto. Abdel Fattah: non è solo il nome a unire il capo dei golpisti sudanesi al presidente-generale egiziano. A unirli è l’ambizione di militarizzare la transizione per poi dar vita a un regime “democratico” marchiato dai militari, con o senza divisa.
Al-Burhan ha 61 anni e fino ad oggi era il generale a capo del Consiglio Sovrano del Sudan, l’organo collettivo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio Militare di Transizione dopo la deposizione del dittatore Omar Bashir, che tra le altre cose aveva il compito di nominare il primo ministro. Nel suo discorso non ha parlato direttamente degli arresti, ma ha detto che i militari «continueranno la transizione democratica del paese», annunciando l’introduzione dello stato di emergenza in tutto il paese. Oltre a quello del governo, ha dichiarato anche lo scioglimento del Consiglio Sovrano e di tutti gli organi di governo locali, e ha annunciato che un consiglio militare governerà il paese fino al luglio del 2023, quando si terranno nuove elezioni. Sembra un copia incolla di quanto sostenuto dai militari egiziani dopo la sanguinosa repressione di piazza con cui i militari egiziani spazzarono via i Fratelli musulmani e il presidente democraticamente eletto, Mohammed Morsi, morto poi in carcere. La contro rivoluzione fu all’inizio vista con favore da quanti, a Il Cairo, vedevano con preoccupazione la presa del potere, sia pure con il voto, della Fratellanza. Da qui l’iniziale sostegno ai militari. Ma bastarono poche settimane per svelare il vero volto del “Pinochet” delle Piramidi: attivisti dei diritti umani incarcerati, in galera anche i dirigenti della rivoluzione di Piazza Tahir, che portò alla caduta del regime di Hosni Mubarak. Il tutto, condito con le promesse dei militari e del loro capo, al-Sisi, di migliorare le condizioni di vita della popolazione. Lo stesso sta avvenendo oggi in Sudan. Di fronte alla crescente crisi economica, con la penuria crescente dei generi di prima necessità, e a una insorgente minaccia jihadista, una parte della popolazione aveva invocato l’intervento dei militari. Quei militari che oggi aprono il fuoco contro la folla.
Due interviste “profetiche”
“I militari non vogliono lasciare ai civili la guida del Consiglio sovrano; le proteste e sit-in degli
ultimi giorni, spontanei solo in apparenza, si spiegano così”. A
parlare con l’agenzia Dire è Reem Shawkat, influencer impegnata a sensibilizzare su crisi e rivoluzione in Sudan L’intervista è di giovedì scorso. Shawkat, origini sudanesi, una vita negli Stati Uniti, ricorda che il percorso in vista delle elezioni del 2023 prevede un’alternanza alla guida del Paese. “Dopo una fase coordinata dai militari e in particolare dal presidente Abdel Fattah Al-Burhan, nei prossimi mesi toccherà ai civili” sottolinea l’influencer.”E’ curioso che proprio adesso a Khartoum siano stati organizzati sit-in per chiedere all’esercito di sciogliere il governo e assumere pieni poteri”. Manifestazioni sono in corso nella capitale da giorni. “Oggi dimostranti si sono riuniti di fronte al Palazzo presidenziale chiedendo lo scioglimento dell’esecutivo guidato dall’economista Abdalla Hamdok” sottolinea Shawkat. Nei video dell’influencer, diffusi su Instagram o TikTok, il ruolo dei militari è mostrato con disegni o vignette parlanti. “Cerco di spiegare le cose in modo semplice – dice Shawkat – anche perché raccogliere informazioni su quello che sta accadendo e dunque farsi un’idea è molto difficile”. Secondo Shawkat, la sfida chiave in Sudan sarà garantire il rispetto della separazione tra autorità militare e potere politico. “E’ fondamentale l’atteggiamento della comunità internazionale” sottolinea la influencer: “Finora c’è stato un sostegno alla transizione democratica, che rende più difficili
gli abusi da parte dell’esercito A preoccupare è però anche la caduta dell’economia, aggravata dalle proteste e dai blocchi dei trasporti nell’area di Port Sudan, in riva al Mar Rosso. “Le comunità del posto chiedono di essere incluse nel governo, ma intanto i prezzi dei beni essenziali continuano ad aumentare” sottolinea Shawkat. “Si spiega anche così la decisione di ridurre gli orari a scuola: manca il pane e allora i ragazzi tornano a casa alle 11.30, sperando di trovare il pranzo”.
“La vita al momento in Sudan è molto dura, stiamo sopravvivendo per miracolo. Tutto è molto caro, i trasporti, il cibo, la gente non ha pane. È una situazione insostenibile per la popolazione e gli aiuti della comunità internazionale arrivano solo ad alcuni, mentre moltissimi ne restano privi”. In un colloquio con l’Agenzia Fides,avvenuto il 23 ottobre, due giorni prima del golpe dei militari, mons. Yunan Tombe Trille, Vescovo di El Obeid e presidente della Conferenza episcopale di Sudan e Sud Sudan, fotografa un momento molto delicato per il suo Paese , dopo una stagione di grandi speranze avviata dopo la fine della dittatura di Omar Hasan Ahmad al-Bashīr nell’aprile del 2019, e l’inizio di una transizione democratica.
Spiega il Vescovo: “La gente è divisa tra chi vuole che il governo di transizione con ministri civili vada avanti, e non vengano traditi i principi delle manifestazioni di oltre due anni fa; e quanti, invece, sostengono la totale presa del potere da parte di militari che, secondo loro, sono gli unici a poter risolvere la profonda crisi politica e assicurare il pane. Da tempo non ci sono incontri tra civili e militari al governo e possiamo dire che l’esecutivo al momento non è operativo. Nel frattempo i crimini hanno raggiunto un livello mai così alto nella storia, forse proprio per la fame che tanta gente sta sperimentando. Naturalmente dietro a quelle fette di popolazione che chiedono il colpo di stato e che il potere torni completamente nelle mani dei militari, vi sono gruppi di pressione legati ai circoli dell’esercito”.
Prosegue mons. Yunan Tombe Trille: “Non dimentichiamo che al-Bashir continua a manovrare dietro le quinte anche perché i suoi sono parte della coalizione. È molto difficile prevedere cosa succederà nell’immediato futuro e non voglio ripetere quello che ho detto tante volte: non credo alle loro promesse. È possibile che si arrivi a un nuovo colpo di stato per mano dei militari. Non ho mai dato credito alle promesse di chi ci ha governato negli ultimi 60 anni perché si ci voltiamo a guardare, vediamo che ci hanno creato solo tanti problemi”.
Chi protesta
Il Sudan sta attraversando una transizione segnata da divisioni politiche e lotte di potere dopo la cacciata di Bashir nell’aprile 2019. Dall’agosto 2019, il Paese è guidato da un’amministrazione civile-militare incaricata di sovrintendere alla transizione verso un governo del tutto formato da civili. Ma il principale blocco civile – le Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc) – quello che ha guidato le proteste anti-Bashir nel 2019, si è frammentato in due fazioni. La scorsa settimana decine di migliaia di sudanesi avevano sfilato in diverse città per sostenere il pieno trasferimento del potere ai civili e per contrastare un sit-in rivale allestito da giorni davanti al palazzo presidenziale di Khartoum chiedendo il ritorno al “governo militare”. Il premier Abdalla Hamdok in precedenza aveva descritto le divisioni nel governo di transizione come la “crisi peggiore e più pericolosa” che deve affrontare la transizione.
Usa allarmati
Gli Stati Uniti hanno dichiarato di essere “fortemente allarmati” per gli annunci di arresti di leader civili in Sudan da parte delle forze militari: lo ha twittato l’inviato americano per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman. Questi annunci di una presa del potere da parte dei militari vanno “contro la dichiarazione costituzionale (che regola la transizione nel Paese) e le aspirazioni democratiche del popolo sudanese”, ha sostenuto Feltman. Anche l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell sta “seguendo con la massima preoccupazione gli eventi in corso in Sudan”. “L’Unione europea – precisa il politico spagnolo su Twitter – invita tutte le parti interessate e i partner regionali a rimettere in carreggiata il processo di transizione”.
Gli arresti di leader civili in Sudan sono “inaccettabili”, ha dichiarato l’inviato delle Nazioni Unite in Sudan, Volker Perthes, dicendosi “molto preoccupato per le notizie di un colpo di stato”. “Chiedo alle forze armate di rilasciare immediatamente i detenuti”, ha aggiunto.
Appelli che rischiano di rimanere inascoltati. Ieri in Egitto, oggi in Sudan.