Gideon Levy: "Nella politica omologata di Israele la resistenza è dei non sionisti"
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Gideon Levy: "Nella politica omologata di Israele la resistenza è dei non sionisti"

La “Questione israeliana” non si declina più politicamente sulla direttrice destra/sinistra. La dialettica, sempre più tenue, è tra sionisti e non sionisti.

Lapid e Bennett
Lapid e Bennett
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Ottobre 2021 - 12.16


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La “Questione israeliana” non si declina più politicamente sulla direttrice destra/sinistra. La dialettica, sempre più tenue, è tra sionisti e non sionisti.  A darne conto è uno dei più autorevoli giornalisti e saggisti israeliani: Gideon Levy.

Scontro identitario

Scrive Levy: “La settimana scorsa, Angela Merkel ha espresso la sua ammirazione per la sostenibilità della nuova coalizione di Israele. L’editorialista di Haaretz Carolina Landsmann si chiede, su questo sito, se abbiamo un governo doppio o uno che ha scoperto il più grande inganno di tutti i tempi. Il giornalista Ron Cahlili sostiene che la destra ideologica e la sinistra sionista sono la stessa cosa. Tutti hanno toccato la grande storia, quella del gatto che è uscito dal sacco: Non c’è destra o sinistra in Israele. L’unica divisione ideologica è tra sionisti, che comprendono quasi tutti, e non sionisti, che sono molto meno numerosi. La cancelliera può quindi mettersi l’anima in pace. Nessun miracolo è avvenuto quando si è formato l’attuale governo e la Germania non ha nulla da imparare da esso. Non c’è stato nessun ‘incidente politico’, come ha coniato il primo ministro. È facile sostenere l’attuale coalizione perché è una coalizione di consenso, senza grandi lacune tra i suoi componenti. Il Likud (meno Netanyahu) e gli ultraortodossi potrebbero unirsi in una coalizione muro contro muro, rappresentando una società muro contro muro. Questo governo sarà ricordato come quello che ha smascherato il grande inganno, anche se inavvertitamente. È sorto sulle onde dell’odio provato verso Netanyahu, ed esiste (e continuerà ad esistere) sulla base dell’unità di fondo dei suoi partner. Se Merav Michaeli sostituisse Naftali Bennett domani mattina, non ci sarebbe nessun terremoto. A parte qualche cambiamento di stile, Israele rimarrebbe com’era.

Il presunto mandato epocale del primo primo ministro nazional-religioso non è foriero di cambiamenti. Non perché Bennett abbia tradito la sua ideologia, ma perché questa situazione si accorda incredibilmente bene con le posizioni dei componenti di sinistra di questo governo. Non è che la sinistra sionista sia di destra, o che la destra ideologica abbia tendenze di sinistra. E non sono tutti opportunisti, il che significa la morte dell’ideologia. Al contrario, Israele ha un’ideologia, e come! È più forte e mette in ombra tutto il resto. Si chiama sionismo ed è la religione regnante che unifica la nazione. (Quasi) tutti sono sionisti e tutti credono nella supremazia ebraica in questo paese, compresi i territori che occupa.

Sinistra e destra sono uguali nel loro culto delle Forze di Difesa Israeliane e dello Shin Bet, il cui ruolo è il mantenimento del regime di supremazia ebraica sopprimendo qualsiasi opposizione ad esso. Quando il nuovo capo entrante dello Shin Bet, Ronen Bar, ha detto che il servizio di sicurezza è il bastione della democrazia, aveva ragione. Proprio come la Stasi, il ruolo di Bar è quello di sostenere il regime che, nel linguaggio dello Shin Bet e del popolo, si chiama democrazia, piuttosto che tirannia ebraica.

Non c’è un solo membro di questa coalizione che pensi di porre fine all’occupazione, che la pensi diversamente sull’Iran – anche l’assedio di Gaza è consensuale. Questo vale anche per l’IDF e l’impresa di insediamento in corso. Pertanto, non c’è nulla di sorprendente nel silenzio degli agnelli: nel loro cuore, tutti vogliono l’occupazione. Le differenze sono nell’involucro. La sinistra vuole apparire migliore, ed è per questo che i suoi rappresentanti visitano occasionalmente la sede palestinese di Muqata a Ramallah, sollevando eventualmente anche una proposta alla Knesset riguardo ai pogrom in Cisgiordania. Non c’è molto di più.

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L’attuale governo ha rovinato la mappa politica. Da qui in poi, dobbiamo dire la verità: non ci sono veri e propri divari tra i sionisti. I non sionisti sono pochi, quasi tutti non ebrei, tutti non legittimati. Ci sono differenze tra ebrei haredi e laici, e divari tra ebrei ashkenaziti e mizrahi, ma i cliché su una polarizzazione in questa nazione sono vuoti e senza senso. L’unico abisso si trova tra i sostenitori della supremazia ebraica e i loro oppositori. Ecco perché la maggior parte dei cittadini arabi del paese non fa parte di questo gioco. Ecco perché Israele è vicino al suo momento di verità. Si riferisce alla sua base come stato ebraico in una terra con due popoli, esponendo la sua vera immagine in tutta la sua nudità. Chi avrebbe creduto che un governo palesemente non ideologico, che sta cercando di fuggire da tali notizie come da un incendio, sarebbe stato il primo governo ad esporre la verità? E la verità è che non ci sono molti paesi in cui l’ideologia è ancora così critica; non ci sono democrazie con un’unica ideologia tirannica e dominante. Israele è uno stato sionista come l’Unione Sovietica era uno stato comunista. Anche lì, non c’era alcuna difficoltà a mettere insieme un governo di comunisti moderati ed estremisti”, conclude Levy.

Il sionismo tradito

Zeev Sternhell, il più grande storico israeliano, recentemente scomparso, aveva una idea molto chiara e netta sui caratteri del sionismo pionieristico e sulla sua revisione ultranazionalista. Tema che fu al centro di nostre numerose conversazioni e interviste. Di una, riporto alcuni passaggi.

Una coloritura politica l’ha certamente il movimento dei coloni il cui peso politico è sempre più decisivo nella formazione dei governi, come quello attualmente in carica.

Le colonie sono un cancro. E l’ala più estrema del movimento dei coloni è da tempo una minaccia per la democrazia e non solo per la pace. Se la nostra società è incapace di mettere insieme forza, potere politico e determinazione mentale necessari per spostare qualche colonia, ciò starà ad indicare che la storia di Israele è finita, che la storia del sionismo come noi lo intendiamo, come io la intendo, è finita. Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. E il primo diritto è quello ad uno Stato indipendente, a fianco e non contro lo Stato d’Israele. L’alternativa, che purtroppo già è in atto, non è l’annessione dei Territori palestinesi, ma la realizzazione di un regime di apartheid, che se fosse portato a termine, con il silenzio complice della comunità internazionale, sancirebbe non solo la fine del sionismo ma la morte della democrazia in Israele e per Israele.

Guardando alle frange estremiste del movimento dei coloni, qual è l’atteggiamento da evitare nei loro confronti? 

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L’indulgenza. L’indulgenza nei loro confronti ha portato ad una situazione degenerativa che non si ferma ai Territori. L’aggressività, la violenza, il concepire chi la pensa diversamente come un “traditore”: al di qua della Linea Verde è stato esportato un metodo di comportamento che quando viene compiuto contro palestinesi nei Territori viene tollerato, spesso neppure indagato e comunque non approfondito.

L’indulgenza. E poi cosa teme? 

La connivenza. Quella che porta politici che hanno anche responsabilità di governo a flirtare con le ali estreme del movimento dei coloni.

In un saggio che ha fatto molto discutere, lei ha sostenuto che gli insediamenti impiantatisi dopo la guerra del ’67 oltre la Linea Verde sono “la più grande catastrofe nella storia del sionismo”. Perché?

Perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quella che il sionismo voleva evitare. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Perciò il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole precludere ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Insisto su questo punto: resto convinto che l’insediamento nei Territori metta in pericolo la capacità di Israele di svilupparsi come società libera e aperta.

Lei afferma che gli intellettuali sono i “migliori ambasciatori” del sionismo. Ma c’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano.

No, non è così. Questa è una caricatura del sionismo o, comunque, ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Come le ebbi a dire in una nostra precedente conversazione, resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, conferma quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele.

Lei invoca una rivolta culturale, non solo politica, contro l’Israele dell’intolleranza.

Il termine più appropriato è una rivolta delle coscienze. Ecco, quello di cui avverto maggiormente la necessità: lo svilupparsi di un movimento d’opinione capace di scuotere la coscienza collettiva, di trasformare la psicologia di una nazione. Un movimento che dica con forza che nei Territori non possono più esistere due modelli legali, uno per i palestinesi e uno per i coloni. Per quanto mi riguarda, continuerò a sostenere che nei Territori vige un regime coloniale che va abbattuto. Per il bene della pace, per il bene d’Israele.

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I coloni oltranzisti l’accuserebbero di “tradimento”, i più benevoli di essere un “sognatore”.

A smuovere il mondo sono i “sognatori”, coloro che hanno il coraggio di portare avanti una visione. Senza questi “sognatori” lo Stato d’Israele non sarebbe mai nato. È un argomento che è stato al centro di nostre precedenti conversazioni. Non possiamo, non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà: ed è la realtà che ci dice che l’occupazione sta corrodendo le basi della nostra democrazia, così come la colonizzazione dei Territori occupati alimenta una cultura dell’illegalità. Tutto questo non ha nulla a che vedere con quei valori che furono a fondamento del pionierismo sionista. Non si tratta di mitizzare il sionismo, ma di avere coscienza che l’obiettivo finale non era solo quello di creare un focolaio nazionale per il popolo ebraico, ma anche di far vivere un Paese “normale”. E questa normalità è oggi minacciata dai terroristi che dicono di agire in nome e per conto del “popolo eletto”.  Dovremmo essere in tanti a gridare: “non in mio nome, assassini”.

Così Sternhell.

Sogno e realtà

Israele è un sogno realizzato, anche se nel suo divenire si è scoperto meno idilliaco di quanto immaginato. Lo dice con orgoglio e amore, speranza e inquietudine, Amos Oz, anche lui recentemente scomparso,  ad Elena Lowenthal  per La Stampa, in un suggestivo ed emozionante confronto a tre, con David Grossman e Abraham Bet Yehoshua. 

L’occasione è data dal settantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele (2018).  Ho paura per il futuro. Ho paura del fanatismo e della violenza. Ma sono contento di essere cittadino di uno Stato che conta otto milioni e mezzo di profeti, otto milioni e mezzo di primi ministri, otto milioni e mezzo di messia. Non ci si annoia, qui. Ci si arrabbia, ogni tanto arrivano frustrazione e collera, ma non di rado anche fascinazione ed entusiasmo. Questo è uno dei posti più interessanti del mondo”. “Per me – dice Yehoshua – la conquista più importante di questi settant’anni è la legittimità dell’esistenza dello Stato ebraico sia nel contesto mondiale, compresa una parte del mondo arabo e islamico, sia all’interno dell’ebraismo: oggi Israele esiste perché deve esistere, perché è ovvio che esista. Questa legittimità ce la siamo conquistata non solo con la forza delle armi, ma anche nella capacità che questo Paese ha dimostrato di assorbire milioni di profughi. C’è ancora tanto da fare, sono ancora in molti a negare il suo diritto all’esistenza. Ma ci siamo e ci saremo”. 

Su quest’ultima asserzione, non c’è ombra di dubbio. Il punto è: quale Israele? E su questo i punti interrogativi sono molti di più, e pesanti, delle certezze.

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