Israele e la mattanza nel "popolo invisibile"
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Israele e la mattanza nel "popolo invisibile"

Un uomo di 55 anni è stato ucciso a Nazareth venerdì, nel terzo omicidio nella comunità araba in Israele nelle ultime 24 ore.

Tribunale israeliano
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Settembre 2021 - 17.29


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Israele, la mattanza nella comunità araba. Nel “popolo invisibile”, definizione coniata da David Grossman: gli arabi israeliani. 

Un uomo di 55 anni è stato ucciso a Nazareth venerdì, nel terzo omicidio nella comunità araba in Israele nelle ultime 24 ore. L’uomo è stato identificato come Naim Suri, che ha recentemente scontato una condanna a 32 anni di carcere per omicidio e altri crimini. È stato rilasciato dalla prigione quattro mesi fa. La polizia ha aperto un’indagine sull’incidente, che crede sia legato a una disputa tra bande. Suri è stato trovato incosciente con ferite d’arma da fuoco sul corpo, hanno riferito i medici del Magen David Adom. È stato dichiarato morto sulla scena. 

Il sospetto omicidio di Suri è il terzo riportato nelle ultime 24 ore, dopo un omicidio a Haifa e Petah Tikva. Giovedì sera, Hussam Othman, 24 anni, residente ad Haifa, è stato ucciso a colpi di pistola mentre era seduto nella sua auto in città. La polizia ha avviato un’indagine, ma nessun sospetto è stato ancora identificato.  Suri è la 91esima persona ad essere uccisa nella comunità araba in circostanze di violenza e criminalità.

Per molti anni, Suri è stato considerato uno dei criminali più pericolosi in prigione. Nel 1989, è stato condannato a 10 anni di prigione per reati violenti. Nel 2004, dopo il suo rilascio, ha ucciso un uomo ed è stato accusato di altri 15 anni. Un anno dopo, è stato condannato ad altri tre anni dopo aver accoltellato un uomo in un centro di detenzione a Tiberiade. Mentre era in carcere, Suri è stato tenuto in isolamento per molti anni per paura che potesse fare del male agli altri detenuti. Sempre venerdì, la polizia ha aperto un’indagine su un incidente di sparatoria a Umm al-Fahm, una città araba nella regione del triangolo di Israele. Sono stati sparati dei colpi contro un gruppo di persone in un veicolo, in cui un bambino di 6 anni è stato gravemente ferito. Inoltre, un uomo di 26 anni è stato ferito moderatamente, e sua moglie, 19 anni, è stata ferita in modo lieve. L’uomo e il bambino sono stati evacuati all’ospedale Haemek nella città settentrionale di Afula per le cure mediche. 

Violenza e marginalizzazione

Se davvero quello che ha “defenestrato” Netanyahu è un “Governo del cambiamento” lo dimostri abolendo quelle leggi dell’apartheid.

Ad affermarlo, su Haaretz, è una delle icone viventi del giornalismo israeliano: Gideon Levy.

“Alcune leggi sono una macchia sui libri di legge di Israele, e finché non saranno rimosse, Israele non potrà essere considerata una democrazia – annota Levy –  Una delle più spregevoli è la legge che impedisce ai suoi cittadini arabi di unire le loro famiglie.

Quando si discute se Israele sia uno stato di apartheid, e i suoi propagandisti affermano che non lo è, citano come prova l’assenza di leggi razziste nei libri di legge del paese. La legge che molto probabilmente sarà riaffermata questa settimana, per la 18esima volta consecutiva, è la prova definitiva del fatto che non solo ci sono pratiche di apartheid in questo paese, ma ci sono anche leggi di apartheid. “È meglio non evitare la verità: la sua esistenza nei libri di legge rende Israele uno stato di apartheid”, ha scritto l’editore di Haaretz Amos Schocken nel 2008. Sono passati tredici anni, e questa affermazione è più vera che mai. Questa legge racconta tutta la storia: Essa incarna l’essenza del sionismo e il concetto di ‘stato ebraico’; riflette i dubbi pretesti legati alla sicurezza che sanzionano qualsiasi abominio in questo paese; esemplifica la stupefacente somiglianza tra la destra ultranazionalista e la sinistra sionista, e l’uso subdolo che Israele fa delle misure temporanee e di emergenza. Una legge che è stata approvata come misura temporanea nel 2003, che è stata considerata nel 2006 dal giudice della Corte Suprema Edmond Levy come una legge che stava per scadere entro due mesi, sta celebrando 18 anni di esistenza.

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La legge è ora diventata l’oggetto di un duello tra il governo e l’opposizione, dove è chiaro che l’opposizione di destra sosterrà l’estensione di questa legge – il razzismo vince su tutto il resto – senza che nessuno si occupi della sostanza della legge e del suo impatto sull’immagine di Israele. Per dirla in breve: Dopo la Legge del Ritorno, questa è la legge che esemplifica più di ogni altra il dominio del suprematismo ebraico in questo paese. Un ebreo può condividere la sua vita con chi vuole, un arabo no. Proprio così, disperatamente e dolorosamente semplice. Qualsiasi paese che trattasse i suoi cittadini ebrei in questo modo sarebbe vituperato.

Un giovane di Kafr Qasem che si innamora di una donna della città cisgiordana di Nablus non può vivere con lei nel suo paese, Israele. Un giovane della vicina Kfar Sava può vivere nel suo paese con chi vuole. Una donna dell’insediamento di Itamar, che si affaccia su Nablus, può in teoria sposare qualcuno della tribù Masai del Kenya o un indù del Nepal. Può incontrare qualche difficoltà, ma la strada è aperta a qualsiasi cittadino ebreo israeliano per realizzare la sua coppia nel suo paese – lo so per esperienza personale.

Non è così quando si tratta di un cittadino arabo che desidera vivere con qualcuno del sesso opposto, qualcuno che potrebbe vivere a cinque minuti di macchina, spesso un cugino. La linea verde del 1967, ormai quasi completamente cancellata, esiste ancora quando si tratta di arabi. Questa vergogna è avvolta da scuse esistenziali e di sicurezza sul terrore e sulla minaccia demografica. Non c’è fine alla paura e alle descrizioni di minacce imminenti per Israele: Migliaia di terroristi attraverseranno questo paese e lo distruggeranno. Ogni arabo israeliano sposerà otto donne della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e la maggioranza ebraica sarà persa per sempre.

Su tutto questo incombe un (presunto) stato di emergenza, che ha prodotto questa legge in primo luogo. È solo temporaneo, terminerà tra un anno o due, proprio come l’occupazione, la madre di tutte le temporaneità eterne.

Non meno sorprendente è la condotta del Partito Laburista riguardo a questa legge. È sempre a favore del suo prolungamento, che il partito sia di sinistra o meno; è sempre accompagnato da un’ammonizione santificante e da giusti sospiri. Nel 2016, il laburista Nachman Shai, portavoce per antonomasia della santificazione di Mapai, disse di non essere convinto della necessità della legge, ma che il suo partito l’avrebbe sostenuta. Entro sei mesi, gli fu promesso, ci sarebbe stata una seria discussione sulla sua necessità. Passò un anno, e Shai sostenne di nuovo l’estensione della legge, questa volta con una lirica: ‘Appoggeremo la legge tenendo sempre presente che si tratta di persone che devono essere rispettate’. Come? Con il baklava?

Shai è ora ministro per gli affari della diaspora – solo la diaspora ebraica, ovviamente – e il suo partito sosterrà di nuovo questa legge, solo un’altra volta, solo temporaneamente, solo per il bene dell’esistenza e della sicurezza ebraica del paese.

Per dirlo chiaramente: Se Labor e Meretz sostengono questa legge, non c’è più nessun sionista qui. Se la legge passa, lo stato non è democratico ed ebraico. Il momento della verità è vicino, e la fine è così preannunciata”, conclude Levy.

Quella Legge spartiacque

Un passo indietro nel tempo. Ventisette novembre 2014: Salim Joubran, giudice arabo della Corte Suprema israeliana, sostiene che gli arabi sono discriminati in Israele. “La ‘Dichiarazione di Indipendenza’ – afferma in un convegno di pubblici ministeri ad Eilat, secondo quanto riportato da Haaretz – menziona specificatamente l’eguaglianza, ma sfortunatamente questo non avviene nella pratica”. Joubran cita anche il rapporto della Commissione Or – istituita nel 2000 per far luce su dieci giorni di scontri tra polizia e cittadini arabi del nord di Israele, e intitolata al giudice della stessa Corte Suprema, Theodore Or. che l’aveva preceduta – secondo il quale “i cittadini arabi dello Stato vivono in una realtà di discriminazione”. Joubran elenca anche una serie di settori in cui esiste la discriminazione: “ci sono divari nell’educazione, nell’impiego, nell’assegnazione di terreni per le costruzioni e l’espansione della comunità, scarsezza di zone industriali e infrastrutture, molti errori nei segnali stradali in arabo” . Le cose non sono migliorate da quel giorno ad oggi, semmai è vero  il contrario. Più di tre quarti degli arabi israeliani non credono che Israele abbia il diritto di definire se stesso come Stato nazionale del popolo ebraico. E’ quanto emerge dall’ultimo sondaggio d’opinione “Peace Index” condotto dall’Israel Democracy Institute, secondo il quale oltre il 76% dei cittadini arabi d’Israele intervistati respinge il diritto di Israele di definirsi Stato ebraico, con più del 57% che si dice “fortemente contrario” a questo concetto. Ancora un altro passo indietro nel tempo. Secondo una relazione del 1998 dell’Adva Centre di Tel Aviv, le disparità sociali ed economiche in Israele sono particolarmente evidenti nei confronti degli arabi israeliani. La relazione fornisce alcune cifre illuminanti: il reddito medio dei palestinesi che hanno cittadinanza israeliana è il più basso tra tutti i gruppi etnici del Paese; il 42% dei palestinesi cittadini israeliani all’età di 17 anni ha già abbandonato gli studi; il tasso di mortalità infantile tra i palestinesi cittadini israeliani è quasi il doppio rispetto a quello degli ebrei: 9,6 per mille nascite contro il 5,3. Il sistema giuridico israeliano si basa su almeno due categorie di cittadinanza. La categoria “A” vale per cittadini che la legge definisce come “Ebrei” cui la legge stessa conferisce un accesso preferenziale alle risorse materiali dello Stato come anche ai sevizi sociali e di welfare per il solo fatto di essere, per legge, “Ebrei”; in contrasto con la cittadinanza di categoria “B” i cui componenti sono classificati per legge come “non Ebrei”, cioè come “Arabi” e come tali discriminati dalla legge per quanto concerne la parità di accesso alle risorse materiali dello Stato ai servizi sociali e di welfare e soprattutto per ciò che concerne la parità di diritti di accesso alla terra ed all’acqua. Gli arabi non possono accedere a nessuna industria collegata, anche indirettamente, all’esercito (per esempio quella elettronica), sono esclusi da molti posti direttivi, non hanno nessuna di quelle agevolazioni (nell’acquisto degli appartamenti, di automobili e, anche, di abituali beni di consumo) che lo Stato concede ai suoi cittadini che hanno svolto il servizio militare. Hassan Yabarin, un avvocato arabo israeliano di spicco che ha continuato a lottare contro queste leggi nei tribunali, afferma che “essere arabo in Israele è come vivere nella propria patria ed essere sottoposto a leggi razziste che discriminano per identità”. “Questo significa che un arabo che vive nella sua terra natale viene trattato peggio di un immigrato a causa della suo origine nazionale”, rimarca ancora Yabarin che dirige il Centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele (Adalah). Wadi Abunasar, direttore del Centro internazionale della consulta di Haifa, nel nord di Israele, sostiene la tesi che Israele si caratterizza per avere una struttura piramidale in base alla razza. “Al vertice della piramide – dice – si posizionano gli ebrei ashkenaziti laici, mentre gli arabi si trovano nella parte inferiore della stessa; altre categorie si posizionano tra questi due estremità. Ad esempio, un druso potrebbe situarsi nel terzo superiore della gerarchia del settore arabo, ma rimane nella parte inferiore se consideriamo la società israeliana nel suo insieme”, ha spiegato. “Benché presti servizio nell’esercito israeliano, un druso continuerà a rimanere nella parte inferiore perché non è ebreo. Il “popolo invisibile” si affianca a quello ribelle nella minacciata espulsione di massa e pulizia etnica di cui si è fatto propugnatore   Tzhachi Hanegbi, ministro della Cooperazione regionale nel Governo Netanyahu, se palestinesi e fratelli arabi (israeliani) non porranno fine alle “loro azioni terroristiche”. Ma per comprendere appieno la complessità del rapporto tra la comunità arabo-israeliana e lo Stato, è molto utile riflettere su un sondaggio condotto, nel giugno 2017, dalla sezione in Israele del Konrad Adenauer Stiftung, dal programma Konrad Adenauer per la cooperazione arabo-ebraica presso il Dayan Center dell’Università di Tel Aviv e da Keevoon, una società di ricerca, strategia e comunicazione (margine di errore dichiarato: 2.25%). “Il numero di persone che hanno accettato di rispondere positivamente alle domande sulle istituzioni statali è notevolmente elevato – spiega Itamar Radai, responsabile accademico del programma Adenauer e ricercatore presso il Dayan Center – Esso riflette una generale aspirazione ad essere più integrati e partecipi nella società israeliana”. Al contempo, va aggiunto che la percepita discriminazione è stata indicata dagli intervistati come uno dei principali motivi di preoccupazione, con il 47% di loro che dichiara di sentirsi “generalmente trattato in modo non eguale” in quanto cittadino arabo. La maggioranza degli intervistati denuncia anche una diseguale distribuzione delle risorse fiscali dello Stato. Secondo Michael Borchard, direttore israeliano della Fondazione Konrad Adenauer, uno dei risultati più significativi del sondaggio è la risposta che è stata data alla domanda: “Quale termine ti descrive meglio?”. La maggioranza (28%) ha risposto: “arabo israeliano”; l’11% ha risposto semplicemente “israeliano” e il 13% si è definito “cittadino arabo d’Israele”. Il 2% ha risposto “musulmano israeliano”. Solo il 15% si è definito semplicemente “palestinese”, mentre il 4% si è detto “palestinese in Israele”, il 3% “cittadino palestinese in Israele” e il 2% si è definito “palestinese israeliano”. L’8% degli intervistati ha preferito auto-identificarsi semplicemente come “musulmano”. In altri termini, stando al sondaggio il 56% dei cittadini arabi si definisce in un modo o nell’altro “israeliano”, il 24% si definisce in un modo o nell’altro “palestinese”. Solo il 23% di loro evita qualunque riferimento a Israele, mentre il 9% combina in qualche modo il termine “palestinese” con i termini “israeliano” o “in Israele”. “Il dato di fondo – afferma Borchard – è che si registra una maggiore identificazione con Israele che con un eventuale stato palestinese: vogliono essere riconosciuti nella loro identità specifica, ma non hanno alcun problema ad essere collegati a Israele”. L’indagine ha inoltre rilevato che i cittadini arabi israeliani sono più preoccupati per l’economia, la criminalità e l’eguaglianza interna che non per la questione palestinese. Alla domanda su quale problema li preoccupi maggiormente, il 22% ha citato la sicurezza personale e la criminalità, altrettanti hanno citato la percepita discriminazione, il 15% ha dichiarato l’economia e il lavoro, mentre solo il 13% ha citato la questione palestinese. Interpellato circa le implicazioni politiche dell’indagine, Brochard ha risposto così: “Israele dovrebbe fare di più per rispondere a questo atteggiamento piuttosto positivo e cercare di essere più inclusivo, senza far circolare le affermazioni di chi descrive questi cittadini come generalmente sleali o non affidabili giacché le dinamiche di questa comunità ci raccontano una cosa diversa”.

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Raccontano di una violenza che rischia di essere la cifra del presente e del futuro. Una cifra insanguinata.

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