Jody Williams: "Non chiamateli danni collaterali. Sono crimini di guerra e come tali andrebbero perseguiti".
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Jody Williams: "Non chiamateli danni collaterali. Sono crimini di guerra e come tali andrebbero perseguiti".

Parla la statunitense, premio Nobel per la Pace 1997 per la Campagna internazionale anti-mine.

Jody Williams, fondatrice della Campagna Internazionale per il Bando delle Mine Antiuomo
Jody Williams, fondatrice della Campagna Internazionale per il Bando delle Mine Antiuomo
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Settembre 2021 - 15.21


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“Chiamarli ‘ danni collaterali’ è come uccidere una seconda volta. Uccidere la verità, fare scempio del dolore di chi è rimasto in vita e ha visto morire i propri figli, colpiti da un missile o da un drone armato. Chiamiamoli per quello che sono: crimini di guerra”. Ad affermarlo, in esclusiva per Globalist è Jody Williams, statunitense, premio Nobel per la Pace 1997 per la Campagna internazionale anti-mine.

Parla Jody Williams

Quanto ai vent’anni della guerra in Afghanistan, la Nobel per la Pace osserva: “Chi oggi in Afghanistan ha meno di vent’anni ha conosciuto solo morte e distruzione. E’ cresciuto nella violenza e nell’odio. Per questi bambini diventati poi adolescenti l’Occidente è diventato sinonimo di bombardamenti, stragi. A questi bambini è stata rubata l’infanzia e a tanti di loro la vita stessa”.

“Lungi da me cercare un lato passabile dei Talebani. Mi fa orrore la loro concezione della donna, la loro visione della società, il voler imporre la brutale dittatura della sharia. Ma l’America non può non chiedersi perché, vent’anni dopo l’inizio di quella guerra, i Talebani non solo non sono stati spazzati via ma hanno addirittura riconquistato il potere. Non è una questione militare. Non basta dire, cosa pur vera, abbiamo anche costruito scuole, strutture mediche, abbiamo garantito alle donne l’accesso all’istruzione…Tutto vero, ma è pur sempre un anche che non cancella la devastazione provocata da un intervento militare che col passare del tempo si è trasformato in altro dalla dichiarata volontà di distruggere al-Qaeda ed eliminare Osama bin Laden. Di nuovo la pretesa di esportare la democrazia dall’esterno, con la forza delle armi. Una visione sbagliata, che ha provocato solo disastri nel Medio Oriente allargato lo dimostra l’Afghanistan, e ancor prima l’ha dimostrato l’Iraq.

Quanto alle critiche piovute addosso a Joe Biden, per aver portato a termine il ritiro”, Jody Williams parte lancia in resta: “Oggi è di moda ‘sparare’ sul presidente Biden. Lo ha fatto, senza sprezzo del ridicolo, anche il suo predecessore alla Casa Bianca, quel Donald Trump che finge di dimenticare che è stata proprio la sua amministrazione a negoziare a Doha con i Talebani la resa e non certo il futuro dell’Afghanistan. Una cosa, però, a Biden vorrei dire. Ed è una osservazione critica che nasce da quanto lui stesso ha affermato nei suoi discorsi televisivi post-ritiro: se eravamo in Afghanistan, come ha detto, per sconfiggere al-Qaeda e cancellare dalla faccia della terra bin Laden, e se, come sostiene il presidente, una volta raggiunti questi due obiettivi  la missione era felicemente compiuta, allora, mi viene da chiedergli, perché siamo rimasti in Afghanistan per altri dieci anni?”.

Quanto al rispetto dei diritti umani e, in essi, dei diritti delle donne, la Nobel per la Pace, insorge: “Provo rabbia – ci dice – di fronte alle lacrime di coccodrillo versate da coloro che sostengono, armano, fanno affari con regimi dispotici, liberticidi, nei quali vige di fatto una sharia di Stato. Un esempio? L’Arabia Saudita. La loro solidarietà è pelosa, strumentale. Ai tanti ‘Trump’ in giro per l’America e per il mondo, dei diritti delle donne non è mai fregato niente. E ora pretendono di impartire lezioni. Detto questo, aggiungo che lasciare bambine, ragazze, donne in mano a quei barbuti oscurantisti che considerano le donne ‘bottino di guerra’, è un crimine nel crimine. Con le donne afghane, l’America è un debito. Ed è un debito che va pagato”.

L’Occidente ha trasformato l’Afghanistan in un enorme campo di battaglia che nasconde, a decine di migliaia, le micidiali mine anti uomo. Circa 300 persone al mese vengono colpite dalle mine in Afganistan, restando uccise o mutilate. In tutto sono 200mila gli afghani uccisi o feriti da mine antiuomo negli ultimi 20 anni.

Jody Williams ha definito le mine ‘‘soldati perfetti’’, perché anche a guerra conclusa continuano a uccidere e mutilare rimanendo in vaste aree e continuando a seminare terrore e a paralizzare la vita di intere società. Le mine rappresentano uno dei maggiori ostacoli alla pace; la loro presenza inficia ogni prospettiva di sviluppo: impedisce l’accesso a vaste aree coltivabili, ostacola il rimpatrio dei profughi, rallenta le campagne di vaccinazione e la distribuzione degli aiuti umanitari.

Il nostro colloquio con la fondatrice della Campagna internazionale anti-mine, si conclude laddove era iniziato: “I ‘danni collaterali’ sono crimini di guerra – torna a rimarcare Williams – nei confronti di popolazioni civili verso le quali vige la Convenzione di Ginevra sulla guerra. Anche per questo, coloro che si sono macchiati di questi crimini, andrebbero perseguiti e giudicati in un aula di tribunale, se possibile non militare”.

Il mondo visto da Guantanamo

“Nella casa in Pakistan dove è stato ucciso bin Laden, sono stati rivenuti documenti con i nomi degli affiliati ad Al-Qaeda: non erano neanche 120 persone, di cui cinque erano i suoi figli. Pensare che questa organizzazione potesse essere una minaccia duratura per la sicurezza americana tanto quanto lo era stata l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda era assurdo. Con posti come Guantanamo, però, abbiamo fatto crescere una generazione di giovani musulmani alienati, addestrandola a odiarci. Rispetto all’11 settembre gli estremisti islamici ora sono molti di più”.

 I 20 anni di “guerra al terrore” sono visti dalla fine, e dalle celle di Guantanamo, se a guardarli è Clive Stafford Smith. Avvocato inglese, 62 anni, è il legale di sette dei 39 detenuti che ancora si trovano nella struttura detentiva di massima sicurezza istituita 19 anni fa dagli Stati Uniti nella base navale omonima situata a Cuba,
conosciuta anche con l’acronimo Gtmo.
 L’agenzia Dire lo ha intervistato alla vigilia del 20esimo anniversario dell’attentato delle Torri Gemelle di New York che alla “guerra al terrore” diede il via. L’avvocato è tornato dal carcere di Guantanamo, dove si è recato per la 40esima volta, solo cinque giorni fa. “E’ sorprendente quanto la situazione sia avvilente”, denuncia Smith. “Ci sono persone che sono rinchiuse lì da 19 anni senza ancora essere andate incontro a un processo o senza che sia stata formalizzata un’accusa ai loro danni”.
 Nove di loro, riferisce il legale, sono stati dichiarati liberi di lasciarla dalla Periodic Review Board che ciclicamente analizza la struttura e i casi dei detenuti. Due, originari del Pakistan, sono clienti di Smith. “Ci sono alcuni reclusi che potrebbero andare via anche domani, ma che non vengono rilasciati effettivamente, anche da dieci anni”, riporta l’avvocato. “La situazione ricorda un passaggio di un brano degli Eagles, Hotel California: ‘You can check out any time you like, but you can never leave’“, letteralmente: ‘Puoi lasciare l’albergo quando vuoi, ma non potrai mai andare via’. Lo scorso luglio il cittadino marocchino Abdullatif Nasser è stato trasferito nel suo Paese di origine dopo 19 anni di detenzione senza accuse. Si è trattato del primo rimpatriato dell’amministrazione guidata dal presidente Joe Biden, e secondo il legale, comunque, “non sarà l’ultimo”. Le ragioni per facilitare la partenza dei reclusi sarebbero diverse,
a cominciare dal dispendio economico, sottolinea Smith: “Per il carcere, dal 2002 a oggi, sono stati spesi addirittura sei miliardi di dollari”.
Lo scenario cupo di Guantanamo fa il paio con quello della ritirata della Nato in Afghanistan, il primo Paese dove gli americani sono intervenuti militarmente dopo l’11 settembre. Il 15 agosto i talebani contro cui Washington si era mossa nel 2001 sono entrati nella capitale Kabul e hanno proclamato l’Emirato islamico. Il 31 agosto l’ultimo marine ha fatto ritorno in patria, lasciandosi alle spalle un Paese che per certi versi
somiglia a quello che attendeva il primo soldato Usa 20 anni fa.
 “Era tutto molto prevedibile, basta avere un minimo di consapevolezza storica”, dice Smith. “La Gran Bretagna ha combattuto tre guerre di Afghanistan, l’Urss una, le hanno perse tutte”. L’avvocato, che oggi dirige anche 3D Centre, una ong con la quale conduce campagne in difesa dei diritti umani, ricorda il suo ultimo viaggio a Kabul due anni fa: “Non c’era una sola persona che fosse contenta della nostra presenza e, in primo luogo, del fatto che li avessimo invasi”.
Tra le ragioni di questo scontento c’è anche il governo presieduto da Ashraf Ghani,
fuggito dal Paese mentre i primi talebani calpestavano il suolo della capitale. “La stessa amministrazione americana lo considerava il governo più corrotto al mondo” denuncia Smith. “Di fatto l’alternativa era tra un esecutivo fatto da criminali e i talebani, che non volevano più gli Usa: la scelta non poteva essere altrimenti”.

Vicende complesse, ma che portano con loro delle lezioni. “L’11 settembre era un atto criminale, non di guerra” dice l’avvocato. “I suoi autori dovevano essere considerati dei criminali e non dei guerrieri. Quest’ultima opzione, per altro, era proprio quella che desiderava al-Qaeda”.
 Parlando di Afghanistan, Smith cita ancora un brano musicale: “Michael Franti cantava: ‘We can bomb the world to pieces, but we can’t bomb it into peace’, ‘possiamo fare a pezzi il mondo con le bombe, ma con queste non possiamo farci la pace’. La lezione è
semplice: dovremmo smetterla di fare guerre in giro e di sostenere governi corrotti”.

Fare i conti con quei danni…

“Poi, un giorno, bisognerà quantificarli i costi dei danni collaterali che noi, l’occidente, di gran lunga il meno peggio dei mondi possibili, ci lasciamo indietro nella speranza di seminare soft power.  Stavolta i danni collaterali sono dieci storie sepolte sotto le macerie di una casa dagli infissi rossi e verdi a pochi isolati dall’aeroporto di Kabul, la casa di Ahmad Naseer, ex ufficiale dell’esercito afghano riconvertitosi interprete degli stranieri che indicavano l’orizzonte. Dieci storie rimaste in mezzo tra l’attentato devastante del 26 agosto e la risposta di fuoco del Pentagono, madre, padre, zii e almeno sei bambini, compresa la piccola Sumaya di 2 anni. Secondo i reporter del «Washington Post», tra gli ultimi rimasti a raccontare la fine dell’Afghanistan, la famiglia è stata colpita dal drone americano a caccia di terroristi dell’Isis-K mentre usciva dall’utilitaria color amaranto rimasta carbonizzata sul vialetto d’ingresso. Aspettavano di scappare con l’estrema retroguardia occidentale in fuga dal cielo, racconta alla Bbc Emal Ahmadi: un parente, un conoscente, uno dei milioni di afgani che dopo giorni e notti trascorsi a compilare moduli, questionari, richieste di visti, guardano col naso all’insù il futuro che se ne va. Racconta Ahmadi che i corpi fossero irriconoscibili, cenere, polvere, l’inguardabile realtà di quel che resta del paese. Mentre le ultime truppe americane levano le tende, salutate dalla presa di potere taleban e dai razzi degli jihadisti, rimane lo scheletro dell’Afghanistan, la terra ferita di un popolo esangue…”. A scriverlo è Francesca Paci su La Stampa. Meglio di così, non può dirsi. 

Le cifre di una mattanza

A i tempi della guerra del Golfo e successivamente in quella in Iraq gli americani li definivano – con termine che voleva essere asettico, ma risultò agli occhi del mondo fin troppo cinico – “danni collaterali” In linguaggio militare sono le vittime «accidentali », quelle rimaste uccise durante un attacco deliberato contro un obiettivo «legittimo». 

Ma sono padri, madri, figli, persone con un nome e un cognome che la guerra, riempiendo il suo lessico di eufemismi, ha sempre cercato di ridurre a conseguenze e numeri «accettabili». 

Un passo indietro nel tempo. Nel 2019, Ieri la Coalizione anti-Daesh ha diffuso i dati relativi all’operazione Inherent Resolve in Iraq e Siria contro gli uomini del Califfato: sono 1.257 i civili “involontariamente uccisi” durante gli attacchi, un dato che peraltro potrebbe essere anche sottostimato.

Sul suo sito la Coalizione ha parlato di 34.038 attacchi condotto tra l’agosto 2014 e il febbraio 2019. Restano ancora da valutare, sottolinea la Coalizione, 141 rapporti aperti e 6 nuovi resoconti, per avere il numero complessivo delle vittime civili.

Una storia emblematica

Nel nostro viaggio nel tempo, andiamo al 3 ottobre 2015. Saranno delle inchieste anche “imparziali” come chiesto dall’Onu a fare luce sul raid delle forze statunitensi della missione Nato che ha provocato la strage nell’ospedale di Medici senza Frontiere in Afghanistan. Ma intanto lo choc a Kunduz resta e profondo. Nell’attacco sono state uccise 19 persone, di cui 12 operatori sanitari e sette pazienti. 37 i feriti e si contano decine di dispersi. “Vogliamo che il governo garantisca di nuovo la sicurezza qui a Kunduz – dice uno dei feriti – La gente sta morendo. Per l’amor di Dio guardate le mie condizioni”.  Kunduz, città occupata nei giorni scorsi dai talebani, è teatro di una grossa controffensiva di Kabul e delle forze speciali statunitensi. 
Nei raid infatti, dicono i militari americani, potrebbero esserci stati dei “danni collaterali”.

“Il nostro compound è più grande di un campo di calcio – spiega Bart Janssens, uno dei responsabili di Medici senza Frontiere – E noi abbiamo più volte comunicato a tutte le fazioni in guerra attraverso i GPS le esatte coordinate dell’ospedale. Davvero non capiamo come possa essere avvenuto un attacco del genere e non accettiamo la definizione di danno collaterale”.

La struttura ospitava 180 persone, tra medici e pazienti. Tra i morti 3 erano bambini piccoli e la quasi totalità giovani. Per giorni, Medici Senza Frontiere ha continuato a invocare  un’inchiesta internazionale: : “Non possiamo accettare che questa terribile perdita di vite sia archiviata come semplice danno collaterale… Con il fondato sospetto che si tratti di un crimine di guerra, chiediamo un’investigazione trasparente, condotta da un ente indipendente”. L’Ong ha anche denunciato che il bombardamento è proseguito Il ministero della Difesa Usa ha aperto un’indagine. Conclusioni? Nessun errore, nessuna scusa. Caso mai “rincrescimento”, per un’operazione militare che, “purtroppo”, ha provocato “danni collaterali”.

La violenza sta anche nelle parole usate. Un discorso che non riguarda solo l’America ma che coinvolge la Nato, alleanza della quale l’Italia fa parte. I civili uccisi vengono chiamati, dalle autorità della coalizione Nato, “morti collaterali”, o “collateral demages”, ossia, per l’appunto, “danni collaterali”

La guerra per l’attacco alle Torri gemelle è stata  la più sanguinosa per gli Usa, è costata oltre 2.500 militari agli Stati Uniti. Si stima che circa 150 mila afghani abbiano perso la vita. Un record che ha contribuito ad alimentare l’ideologia e l’odio che l’America aveva cercato di sconfiggere andando in Afghanistan.

E quell’odio non è un “danno collaterale”, ma il lascito di guerra.  

 

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