Levy: "Vi spiego perché i palestinesi evasi sono combattenti per la libertà"
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Levy: "Vi spiego perché i palestinesi evasi sono combattenti per la libertà"

La riflessione della vera e propria icona vivente del giornalismo “liberal” israeliano nonché storica firma di Haaretz

'Obiettivo Palestina', scatti di Federico Palmieri
'Obiettivo Palestina', scatti di Federico Palmieri
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Settembre 2021 - 16.33


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“Ben scavato vecchia talpa”. Così Globalist ha titolato l’articolo che raccontava l’evasione di 6 detenuti palestinesi da un carcere di massima sicurezza israeliano. Tra di loro, c’è Zakaria Zbeidi, uno dei leader militari di al-Fatah durante la seconda Intifada. 

E’ confortante che la nostra lettura sia stata condivisa da uno dei più autorevoli e affermati giornalisti israeliani: Gideon Levy, vera e propria icona vivente del giornalismo “liberal” israeliano nonché storica firma di Haaretz

Combattenti per la libertà

Scrive Levy: 

I sei prigionieri palestinesi evasi sono i più audaci combattenti per la libertà che si possano immaginare. Gli israeliani che lo trovano difficile da ammettere farebbero bene a ricordare molti dei film e delle serie televisive che hanno visto: La fuga dalla prigione è il “lieto fine” perfetto.

La fuga dalla prigione di San Giovanni d’Acri del 1947 – in cui i membri dell’Irgun, la milizia clandestina pre-statale guidata da Menachem Begin, irruppero nella prigione della città per liberare i membri della milizia detenuti dal governo del mandato britannico – è rimasta per sempre impressa nella memoria collettiva come parte dell’ethos dell’eroismo. Ma ciò che è buono per i film e per gli ebrei non è mai applicabile ai palestinesi. I sei fuggitivi sono solo terroristi, e il sentimento nazionale li vuole vedere morti. Nel frattempo, i social media ronzano di battute spiritose sulla fuga, forse per evitare di affrontare il suo significato o per fuggire dall’imbarazzo.

I sei sfidanti hanno scelto la via della resistenza crudele e violenta all’occupazione. Si può discutere sulla sua efficacia contro il forte e ben armato stato israeliano, ma la sua giustezza non può essere messa in dubbio. Hanno il diritto di usare la violenza per resistere a un’occupazione che è più crudele e violenta di qualsiasi terrore palestinese.

Dopo la loro cattura, sono stati condannati con sentenze draconiane e sproporzionate, soprattutto se paragonate alle norme di condanna di altri detenuti in Israele. Le loro condizioni di prigionia sono ugualmente una vergogna, non superando nessun test di umanità e diritti umani, compreso il confronto con le condizioni in cui sono tenuti i peggiori prigionieri criminali. Ignorate la propaganda vile e fallace sulle loro condizioni, con la foto del baklava in prigione: Nessuno detenuto in una prigione israeliana ha tali condizioni. Decenni senza un permesso o una telefonata legale con la famiglia, a volte anche senza visite dei familiari, vivendo in condizioni di tale affollamento che persino l’Alta Corte di Giustizia ha ritenuto necessario intervenire. La maggior parte dei sei evasi ha già scontato circa 20 anni di prigione, senza possibilità di futuro: Ognuno di loro ha ricevuto qualche condanna all’ergastolo più 20-30 anni. Perché non dovrebbero tentare di fuggire? Perché non dovrebbe esserci un po’ di comprensione per il loro gesto e persino una segreta speranza che dopo essere evasi spariscano e comincino una nuova vita, come nei film?

Conosco molto bene Zakaria Zbeidi, potrei anche definirmi suo amico. Come una manciata di altri giornalisti israeliani, l’ho incontrato spesso nel corso degli anni, soprattutto quando era un ricercato. Fino a circa tre anni fa gli mandavo ancora pezzi d’opinione dall’archivio di Haaretz che lui voleva per la sua tesi di laurea. Tuttavia, è rimasto un po’ un enigma per me, e l’intreccio che ha portato al suo riarresto circa due anni fa è ancora un mistero; Zakaria non è un ragazzo, è un padre ora, quindi perché? Ma la sua storia è la classica storia di una vittima e di un eroe. “Non ho mai vissuto come un essere umano”, mi disse una volta. Da ragazzino, trasportava già sacchi di sabbia in un cantiere in via Abbas ad Haifa, mentre gli ebrei della sua età erano a casa con i loro genitori. Suo padre morì quando era piccolo; era adolescente quando sua madre fu colpita e uccisa dalle forze dell’Idf alla finestra di casa sua, e poche settimane dopo suo fratello fu ucciso e la sua casa fu demolita dall’esercito. Di tutti i suoi amici del campo profughi di Jenin che sono stati immortalati nel meraviglioso documentario del 2004  I figli di Arna, solo lui è ancora vivo. Nel 2004 mi disse: ‘Sono morto. So di essere morto’, ma la fortuna, o qualcos’altro, era dalla sua parte.

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Come Marwan Barghouti e altri eroi palestinesi, voleva la pace con Israele, ma a condizioni di giustizia e onore per il suo popolo, e anche lui sentiva che l’unica opzione che gli rimaneva era quella della resistenza violenta. Non l’ho mai visto senza pistola.

Penso a Zakaria adesso e spero che fugga verso la libertà, così come spero che Barghouti venga un giorno liberato. Queste persone meritano di essere punite per le loro azioni, ma meritano anche comprensione e apprezzamento per il loro coraggio e soprattutto per la loro rettitudine. Israele ha deciso di tenerli in prigione per sempre, e loro stanno cercando, ognuno a modo suo, di annullare l’ingiusto e malvagio decreto. Sono esattamente ciò che chiamerei combattenti per la libertà. Combattenti per la libertà della Palestina. Come potrebbero essere chiamati in altro modo?”.

Levy conclude il suo articolo con una domanda fortemente politica e affatto retorica. Si Zakaria e i suoi compagni di fuga sono combattenti per la libertà. Lo sono per un popolo, quello palestinese, nel quale non c’è famiglia che non abbia avuto un componente imprigionato dall’occupante israeliano.

Un popolo imprigionato

Vogliamo riproporlo di nuovo: il 17 aprile si celebra la Giornata Internazionale di Solidarietà con i Prigionieri Palestinesi. Di loro si è tornato a parlare, recentemente, seguendo la battaglia del giornalista Al-Qeeq, che ha scelto, insieme a tanti altri prigionieri politici palestinesi, lo sciopero della fame come forma di protesta pacifica contro forme di detenzione ingiustificate da un punto di vista del diritto internazionale e lesive della dignità umana. Detenzioni che si accompagnano, infatti, ad interrogatori violenti a cui vengono sottoposti perfino i bambini, e a torture intollerabili che hanno lo scopo di spegnere qualsiasi tipo di resistenza, anche solo psicologica, al regime di occupazione. Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967 – ha ricordato in occasione del 17 aprile l’ambasciata di Palestina in Italia –  i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 per cento del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

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A seguito delle rivolte iniziate negli ultimi mesi del 2015 e che proseguono nel 2016, i prigionieri palestinesi sono in continuo aumento. Al primo marzo 2016 i prigionieri nelle carceri israeliane erano 7000, tra i quali: 700 prigionieri in detenzione amministrativa, 440 bambini (di cui 98 sotto i 16 anni), 68 donne, 6 membri del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), 343 prigionieri dalla Striscia di Gaza –  spesso arrestati al valico di Erez, malati, quando rientravano dopo avuto il permesso di cura in Israele, 70 prigionieri dei territori occupati nel ’48, cioè Israele, 450 cittadini di Gerusalemme Est, e 458 condannati a vita. I prigionieri sono distribuiti in circa 17 prigioni, tutte, tranne una – il carcere di Ofer – all’interno di Israele, in violazione dell’Art. 76 della quarta Convenzione di Ginevra, per cui le forze di occupazione non possono trasferire i detenuti nel proprio territorio. La conseguenza pratica di questo sistema è che molti detenuti hanno difficoltà ad incontrarsi con i loro difensori palestinesi e a ricevere visite dai familiari perché ai loro parenti vengono spesso negati, per “motivi di sicurezza”, i permessi per entrare in Israele.

Israele è l’unico Paese al mondo dove i bambini palestinesi – e solo quelli palestinesi – vengono sistematicamente giudicati da tribunali militari, passando per trattamenti disumani.  Ogni anno vengono arrestati e processati in questi tribunali tra i 500 e i 700 minorenni. Ad oggi, sono più di 400 i ragazzi detenuti in condizioni disastrose nelle prigioni israeliane di Ofer e Mejido.

Nel corso degli ultimi 5 anni, Israele ha nettamente intensificato le detenzioni arbitrarie dei bambini palestinesi e il 2015, in particolare, ha visto il più alto trend di arresti, ben 2.179, specialmente durante gli ultimi tre mesi dell’anno, quando ne sono stati detenuti 1.500. Lo scorso mese di marzo, invece, dei 647 palestinesi arrestati in Cisgiordania e a Gaza, i ragazzi erano 126.

Di solito – prosegue il report – questi giovani vengono catturati ai posti di blocco o nel cuore della notte, ammanettati e bendati, per essere poi condotti, in un uno dei centri per gli interrogatori presenti in Israele.

Fin dall’inizio della pandemia la maggior parte dei detenuti (arabi e israeliani) ha vissuto nel terrore del contagio. Le condizioni delle carceri israeliane sono pessime, con un enorme sovraffollamento. Non sorprende che il fenomeno sia particolarmente grave nelle strutture che ospitano i palestinesi. La grandezza media di una cella di Gilboa è di 22 metri quadrati, da cui bisogna sottrarre circa sei metri quadrati per la doccia, il bagno e il cucinino. In ognuna di queste celle vivono sei persone, con meno di tre metri quadrati a testa. 

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Le condizioni delle carceri israeliane sono pessime, con un enorme sovraffollamento. Non sorprende che il fenomeno sia particolarmente grave nelle strutture che ospitano i palestinesi. La grandezza media di una cella di Gilboa è di 22 metri quadrati, da cui bisogna sottrarre circa sei metri quadrati per la doccia, il bagno e il cucinino. In ognuna di queste celle vivono sei persone, con meno di tre metri quadrati a testa. 

Fino alla settimana scorsa la situazione nei penitenziari sembrava sotto controllo. Il numero di detenuti infettati era relativamente basso, e i malati erano sparsi in diverse strutture. A luglio i contagiati erano sette, di cui soltanto due nelle prigioni di sicurezza. Nessuno a Gilboa. Ma il 3 novembre è arrivata la notizia che 66 palestinesi detenuti a Gilboa erano positivi. Il 5 novembre il numero è salito a 87: ben 21 contagiati in due giorni su una popolazione carceraria di 450 detenuti. In meno di una settimana il virus ha colpito il 20 per cento dei detenuti. 

I giudici della corte suprema hanno riflettuto su questa impennata dei contagi? Hanno pensato che i promotori della petizione sapevano bene di cosa stavano parlando, quando hanno sottolineato il rischio di un focolaio a Gilboa? Hanno pensato che forse le autorità carcerarie non si stanno impegnando al massimo per evitare un focolaio proprio nella struttura indicata dalla petizione? Ricordano cosa hanno sostenuto gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele? In quell’occasione i giudici hanno ripetuto l’opinione del governo, ovvero che il “distanziamento fisico” per ostacolare il contagio non si applica ai detenuti, che invece devono essere considerati come componenti di un’unica unità familiare che vivono insieme in un singolo ambiente. Anche a Gilboa. Gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe hanno sottolineato che le guardie carcerarie entrano in ogni cella circa cinque volte al giorno. ‘Non è come una casa privata dove si può impedire l’ingresso delle guardie per essere al sicuro’, hanno spiegato. ‘Le guardie entrano ed escono, poi rientrano a casa e il giorno dopo tornano al lavoro’.. 

Israele e le sue istituzioni sono ormai drogati dal disprezzo per le vite dei palestinesi. È per questo che hanno respinto due petizioni che chiedevano l’adozione di misure facilmente applicabili, che avrebbero potuto ridurre il rischio di contagio tra i detenuti palestinesi”. Sono brani di un lungo articolo che Amira Hass, storica firma di Haaretz, la giornalista israeliana che più conosce la realtà palestinese, scrisse nel novembre del 2020 per il 

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