Accade in Palestina: "ben scavato vecchia talpa". L'evasione di Zacharia Zbeidi
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Accade in Palestina: "ben scavato vecchia talpa". L'evasione di Zacharia Zbeidi

Domenica notte il militante palestinese è evaso l dal carcere israeliano di Gilboa con cinque compagni definiti "terroristi" dalla radio militare. Israeliana

Il carcere israeliano di Gilboa
Il carcere israeliano di Gilboa
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

6 Settembre 2021 - 12.47


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Per una volta la testimonianza personale viene prima della notizia. Erano i tempi della seconda Intifada, tempi insanguinati. Agli attentati suicidi che squassano le città israeliane, Ariel Sharon risponde con una massiccia rappresaglia militare in Cisgiordania. Inizia l’assedio alla Muqata, il quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese a Ramallah all’interno del quale è trincerato Yasser Arafat con i suoi uomini. Sharon è primo ministro. Il “sogno” di eliminare “Mr Palestine” lo coltiva da una vita, da quando era ministro della Difesa ai tempi dell’operazione “Pace in Galilea”, quando decise di muovere Tsahal, l’esercito dello Stato ebraico, per invadere il Libano. L’obiettivo era sradicare dal Paese dei Cedri i feddayn e, soprattutto, farne fuori il capo dei capi. Non ci riuscì. E sul “generale bulldozer” calò l’onta di aver permesso ai miliziani falangisti cristiani libanesi di compiere l’atroce massacro di Sabra e Chatila.

Chi scrive era in Palestina ai tempi della seconda Intifada come inviato de L’Unità.  Assieme ad altri colleghi provavamo ad avvicinarci all’epicentro dello scontro. Le truppe scelte di Tsahal avevano stretto in una morsa di fuoco la Muqata. Arafat e i suoi resistevano ma dopo settimane di assedio la situazione sembrava giungere all’epilogo.  Un tragico, storico epilogo. In quei giorni di fuoco, ebbi occasione d’incontrare, grazie alla collaborazione del “nostro uomo” in Palestina, un giovane combattente delle Brigate dei martiri di al-Aqsa, l’ala militare di Fatah particolarmente attiva in Cisgiordania. L’incontrammo in un edificio semi distrutto dai bombardamenti israeliani alla periferia di Nablus. Fummo colpiti dalla sua determinazione e lucidità. Il giovane feddayn era molto legato al leader di Fatah in Cisgiordania, Marwan Barghouti. L’incontro avvenne pochi giorni dopo l’arresto a Ramallah di Marwan. “Un colpo durissimo – ammise il giovane combattente – perché Marwan non è solo un capo carismatico, è una mente politica che sa coniugare la resistenza armata con una visione strategica che comporta, alla fine, un negoziato con Israele. Cerchiamo la pace – aggiunse – ma una pace giusta che non sia sinonimo di resa alle forze sioniste”. 

Storia di un’amicizia

Avremmo voluto restare lì per ore a discutere con lui del futuro della Palestina. Ma i giovani combattenti che gli facevano da scorta col passare del tempo si facevano sempre più nervosi, e a ragione. Il rumore delle armi si faceva sempre più penetrante e ravvicinato. L’incontro fu interrotto. Solo il tempo di una stretta di mano. D’allora non avemmo più modo d’incontrarlo. Ma, come era prevedibile, il suo coraggio l’avevano portato a scalare i vertici delle Brigate al-Aqsa. Ne sarebbe divenuto il capo se non fosse stato catturato dagli israeliani. Tra le accuse nei suoi confronti, quella di aver pianificato, nel 2002, l’attacco al quartier generale del Likud, che provocò 6 morti. 

Il nome di quel giovane combattente è Zacharia Zbeidi.  Un nome ritornato all’attenzione internazionale da quando, domenica notte, da quando Zbeidi è evaso l dal carcere israeliano di Gilboa con cinque compagni definiti “terroristi” dalla radio militare. Israeliana.  Secondo l’emittente i detenuti palestinesi hanno scavato per mesi un tunnel sotto la torre di guardia del carcere e sono riusciti a raggiungere un’arteria vicina. La fuga è stata scoperta lunedì mattina con molte ore di ritardo e non è noto se i fuggiaschi si siano diretti verso la vicina Cisgiordania, verso la Giordania o se siano ancora in territorio israeliano. Polizia ed esercito cercano di catturarli.  Elicotteri e droni sono impiegati dalla polizia e dall’esercito israeliani per localizzare i sei evasi palestinesi, cinque dei quali sono membri della Jihad islamica condannati a lunghe pene detentive per aver compiuto attentati. Alla caccia ai fuggiaschi partecipano anche unità dell’anti-terrorismo ed unità scelte dell’esercito. La notizia della clamorosa fuga ha destato reazioni di entusiasmo nei siti web palestinesi. Fra i primi a reagire all’evento è stato un portavoce di Hamas, Fawzi Barhum. “Il ritorno in libertà dei sei prigionieri malgrado tutte le misure di sicurezza – ha dichiarato, da Gaza – rappresenta un atto di eroismo. E’ un successo per tutti i detenuti palestinesi e una sfida lanciata ai sistemi di sicurezza israeliani che pretendono di essere i migliori al mondo”. Secondo i media locali, l’esercito israeliano ha adesso elevato lo stato di allerta. 

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Il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha parlato con il ministro della pubblica sicurezza Omer Bar-Lev dopo l’incidente, e sta ricevendo – scrive Haaretz  continui aggiornamenti sull’accaduto.

Il comandante del distretto settentrionale Shimon Lavi ha detto questa mattina che il tunnel vuoto trovato sotto la cella era un “difetto strutturale” che i detenuti hanno scoperto. Ha aggiunto che hanno intenzione di evacuare i prigionieri rimanenti, circa 400 persone che saranno disperse in altre prigioni, per indagare sulla fuga. Lo Shin Bet ha riferito che gli evasi si sono coordinati con i collaboratori fuori dalla prigione usando un cellulare di contrabbando e avevano una macchina per la fuga che li aspettava. Sono stati notati per la prima volta da contadini locali che hanno avvisato la polizia intorno alle 3 del mattino. Il portavoce di Fatah, Munir al-Jaghoub, ha celebrato la fuga dicendo che “il sogno della libertà è condiviso da tutti i prigionieri… questi sei eroi sono riusciti a rompere questo sistema”.

Un popolo imprigionato

Il 17 aprile si celebra la Giornata Internazionale di Solidarietà con i Prigionieri Palestinesi. Di loro si è tornato a parlare, recentemente, seguendo la battaglia del giornalista Al-Qeeq, che ha scelto, insieme a tanti altri prigionieri politici palestinesi, lo sciopero della fame come forma di protesta pacifica contro forme di detenzione ingiustificate da un punto di vista del diritto internazionale e lesive della dignità umana. Detenzioni che si accompagnano, infatti, ad interrogatori violenti a cui vengono sottoposti perfino i bambini, e a torture intollerabili che hanno lo scopo di spegnere qualsiasi tipo di resistenza, anche solo psicologica, al regime di occupazione. Dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967 – ha ricordato in occasione del 17 aprile l’ambasciata di Palestina in Italia –  i palestinesi accusati di reati in base alla legge militare israeliana e giudicati nei tribunali militari sono stati più di 800.000: tale cifra costituisce circa il 20 per cento del numero totale di palestinesi che abitano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), ovvero il 40% della popolazione maschile totale.

A seguito delle rivolte iniziate negli ultimi mesi del 2015 e che proseguono nel 2016, i prigionieri palestinesi sono in continuo aumento. Al primo marzo 2016 i prigionieri nelle carceri israeliane erano 7000, tra i quali: 700 prigionieri in detenzione amministrativa, 440 bambini (di cui 98 sotto i 16 anni), 68 donne, 6 membri del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), 343 prigionieri dalla Striscia di Gaza –  spesso arrestati al valico di Erez, malati, quando rientravano dopo avuto il permesso di cura in Israele, 70 prigionieri dei territori occupati nel ’48, cioè Israele, 450 cittadini di Gerusalemme Est, e 458 condannati a vita. I prigionieri sono distribuiti in circa 17 prigioni, tutte, tranne una – il carcere di Ofer – all’interno di Israele, in violazione dell’Art. 76 della quarta Convenzione di Ginevra, per cui le forze di occupazione non possono trasferire i detenuti nel proprio territorio. La conseguenza pratica di questo sistema è che molti detenuti hanno difficoltà ad incontrarsi con i loro difensori palestinesi e a ricevere visite dai familiari perché ai loro parenti vengono spesso negati, per “motivi di sicurezza”, i permessi per entrare in Israele.

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Israele è l’unico Paese al mondo dove i bambini palestinesi – e solo quelli palestinesi – vengono sistematicamente giudicati da tribunali militari, passando per trattamenti disumani.  Ogni anno vengono arrestati e processati in questi tribunali tra i 500 e i 700 minorenni. Ad oggi, sono più di 400 i ragazzi detenuti in condizioni disastrose nelle prigioni israeliane di Ofer e Mejido.

Nel corso degli ultimi 5 anni, Israele ha nettamente intensificato le detenzioni arbitrarie dei bambini palestinesi e il 2015, in particolare, ha visto il più alto trend di arresti, ben 2.179, specialmente durante gli ultimi tre mesi dell’anno, quando ne sono stati detenuti 1.500. Lo scorso mese di marzo, invece, dei 647 palestinesi arrestati in Cisgiordania e a Gaza, i ragazzi erano 126.

Di solito – prosegue il report – questi giovani vengono catturati ai posti di blocco o nel cuore della notte, ammanettati e bendati, per essere poi condotti, in un uno dei centri per gli interrogatori presenti in Israele.

Fin dall’inizio della pandemia la maggior parte dei detenuti (arabi e israeliani) ha vissuto nel terrore del contagio. Le condizioni delle carceri israeliane sono pessime, con un enorme sovraffollamento. Non sorprende che il fenomeno sia particolarmente grave nelle strutture che ospitano i palestinesi. La grandezza media di una cella di Gilboa è di 22 metri quadrati, da cui bisogna sottrarre circa sei metri quadrati per la doccia, il bagno e il cucinino. In ognuna di queste celle vivono sei persone, con meno di tre metri quadrati a testa. 

Le condizioni delle carceri israeliane sono pessime, con un enorme sovraffollamento. Non sorprende che il fenomeno sia particolarmente grave nelle strutture che ospitano i palestinesi. La grandezza media di una cella di Gilboa è di 22 metri quadrati, da cui bisogna sottrarre circa sei metri quadrati per la doccia, il bagno e il cucinino. In ognuna di queste celle vivono sei persone, con meno di tre metri quadrati a testa. 

Fino alla settimana scorsa la situazione nei penitenziari sembrava sotto controllo. Il numero di detenuti infettati era relativamente basso, e i malati erano sparsi in diverse strutture. A luglio i contagiati erano sette, di cui soltanto due nelle prigioni di sicurezza. Nessuno a Gilboa. Ma il 3 novembre è arrivata la notizia che 66 palestinesi detenuti a Gilboa erano positivi. Il 5 novembre il numero è salito a 87: ben 21 contagiati in due giorni su una popolazione carceraria di 450 detenuti. In meno di una settimana il virus ha colpito il 20 per cento dei detenuti. 

I giudici della corte suprema hanno riflettuto su questa impennata dei contagi? Hanno pensato che i promotori della petizione sapevano bene di cosa stavano parlando, quando hanno sottolineato il rischio di un focolaio a Gilboa? Hanno pensato che forse le autorità carcerarie non si stanno impegnando al massimo per evitare un focolaio proprio nella struttura indicata dalla petizione? Ricordano cosa hanno sostenuto gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele? In quell’occasione i giudici hanno ripetuto l’opinione del governo, ovvero che il “distanziamento fisico” per ostacolare il contagio non si applica ai detenuti, che invece devono essere considerati come componenti di un’unica unità familiare che vivono insieme in un singolo ambiente. Anche a Gilboa. Gli avvocati del Centro legale per i diritti delle minoranze arabe hanno sottolineato che le guardie carcerarie entrano in ogni cella circa cinque volte al giorno. ‘Non è come una casa privata dove si può impedire l’ingresso delle guardie per essere al sicuro’, hanno spiegato. ‘Le guardie entrano ed escono, poi rientrano a casa e il giorno dopo tornano al lavoro’.. 

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Israele e le sue istituzioni sono ormai drogati dal disprezzo per le vite dei palestinesi. È per questo che hanno respinto due petizioni che chiedevano l’adozione di misure facilmente applicabili, che avrebbero potuto ridurre il rischio di contagio tra i detenuti palestinesi”. Sono brani di un lungo articolo che Amira Hass, storica firma di Haaretz, la giornalista israeliana che più conosce la realtà palestinese, scrisse nel novembre del 2020 per il quotidiano progressista di Tel Aviv e pubblicato in Italia da Internazionale. 

Negligenza deliberata
 “È noto che le carceri israeliane sono vecchie, sporche e sovraffollate. Sono carenti di forniture igienico-sanitarie, anche le più basilari”, dichiara l’attivista palestinese ed ex detenuto Mohammed Abed Rabo, 48 anni. ‘Anche nel migliore dei casi nelle celle vivono tra i sei e i dieci detenuti, ma spesso sono di più’. All’ora dei pasti e durante le attività all’aria aperta più di 120 persone stanno insieme a distanza ravvicinata. 

Abed Rabo teme che il sovraffollamento sarà uno dei principali fattori della diffusione dell’epidemia tra i detenuti palestinesi. Inoltre, aggiunge, l’assenza di prodotti igienici come i disinfettanti per le mani e il sapone non farà che peggiorare le cose. ‘Già in condizioni normali i detenuti non hanno a disposizione i prodotti di base per lavarsi’ , afferma Abed Rabo. Secondo gli avvocati di alcuni detenuti i servizi penitenziari israeliani non hanno fatto niente per affrontare il problema. 

‘Dovrebbero dare ai detenuti mascherine, guanti, disinfettanti per le mani e una quantità maggiore di sapone, oltre a concedergli la possibilità di lavare più spesso vestiti e lenzuola. Si limitano a metterli in quarantena’. Una quarantena, osserva Abed Rabo, che consiste nel finire in isolamento. ‘Come possono ricevere le cure adeguate se finiscono in quelle terribili celle? È così che si trattano degli esseri umani malati?’.

Per anni gli attivisti palestinesi per i diritti umani hanno documentato quella che hanno definito una politica di ‘negligenza medica deliberata’  da parte delle autorità carcerarie d’Israele. Dalla seconda intifada (2000-2005) 17 detenuti palestinesi sono morti come risultato diretto della negligenza dei medici. 

In un rapporto del 2016 il gruppo in difesa dei diritti umani Addameer,  registrava la presenza di almeno duecento prigionieri con patologie croniche, tra cui una ventina di malati oncologici, altre decine affetti da disabilità fisiche e psicologiche e 25 ricoverati in modo permanente nella clinica del carcere di Ramla. 

‘Molti di questi pazienti hanno problemi respiratori e cardiologici, e malattie autoimmuni’, dichiara Abed Rabo, sottolineando che una parte significativa della popolazione carceraria è formata da uomini di mezz’età o anziani”, racconta Akram al Waara, in un reportage per Middle East Eye, pubblicato meritoriamente da Internazionale. 

 Da questo inferno Zacharia Zbeidi è riuscito ad evadere. La “ vecchia talpa” ha scavato bene. 

 

 

 

 

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