Patrick Zaki, diciotto mesi da sequestrato. Lui combatte, e noi?
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Patrick Zaki, diciotto mesi da sequestrato. Lui combatte, e noi?

Lo studente egiziano dell'università Alma Mater di Bologna dorme per terra, in un'affollata cella del famigerato carcere di Tora alla periferia del Cairo.

Patrick Zaki
Patrick Zaki
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

8 Agosto 2021 - 17.30


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Patrick Zaki è in carcere da un anno e mezzo.. Un anno e mezzo e un giorno, per la precisione. Lo studente egiziano dell’università Alma Mater di Bologna dorme per terra, in un’affollata cella del famigerato carcere di Tora alla periferia del Cairo. Ma nonostante le pressioni dell’opinione pubblica e il monitoraggio processuale europeo a trazione italiana, le porte della prigione non si aprono. 
Il trentenne studente egiziano era stato arrestato in circostanze controverse il 7 febbraio dell’anno scorso e, secondo Amnesty, rischia fino a 25 anni di carcere. La custodia cautelare in Egitto può durare due anni, ma se durante le indagini subentrano nuovi capi d’accusa può essere prolungata ulteriormente, come ha dimostrato lo sciopero della fame iniziato di recente dalla figlia di un predicatore islamico in carcere senza processo da quattro anni. 
Dopo una prima fase di cinque mesi di rinnovi quindicinali ritardati dall’emergenza Covid, ora il caso di Patrick è in quella dei prolungamenti di 45 giorni e il più recente rinnovo della carcerazione era stato ordinato a metà del mese scorso: la sua prospettiva è dunque di passare in cella anche la seconda metà di agosto.

“Errgastolo” amministrativo

Scrive Riccaardo Nouri, portavoce di Amnesty International Italia: “Patrick si trova ormai da un anno e mezzo in detenzione preventiva, senza processo e senza possibilità di difendersi dalle accuse mossegli l’8 febbraio 2020: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo.

Accuse rivolte in tantissimi altri casi simili, con le quali le autorità giudiziarie egiziane intendono ridurre al silenzio la ricerca, l’attivismo, la promozione dei diritti umani e naturalmente la denuncia delle violazioni.

Intorno a Patrick, sin dalla notizia della sua sparizione forzata iniziata il 7 febbraio dello scorso anno appena atterrato al Cairo da Bologna, è nata una straordinaria campagna che, dai luoghi accademici e istituzionali del capoluogo emiliano-romagnolo e dai suoi portici si è ampliata a tutta l’Italia e persino all’estero.

Una campagna che ha mosso la solidarietà di decine di comuni italiani che hanno conferito a Patrick la cittadinanza onoraria, e dei due rami del parlamento che ad aprile e a luglio  di quest’anno hanno chiesto al governo di agire concretamente, attraverso lo strumento della cittadinanza italiana e dell’apertura di un negoziato ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

La risposta del governo italiano non c’è stata. Ci si è limitati, nella lunga serie di udienze di convalida della detenzione preventiva, ad attivare il monitoraggio dell’Unione europea sui procedimenti penali negli stati terzi, in modo coerente con la timida strategia basata su tre parole d’ordine: dialogo, cautela, silenzio.

Dialogo, evidentemente acritico, con l’Egitto immaginando che in questo modo si otterrà prima o poi “il favore” di rimandare a Bologna Patrick; cautela, evitando di assumere iniziative politiche che potrebbero turbare l’alleato; silenzio, come invito all’opinione pubblica a non compromettere le azioni diplomatiche in corso. Quali, non è dato saperlo.

Per Patrick, chiuso nella sua cella della prigione di Tora, questo anno e mezzo è stato un tempo lentissimo, pieno di angoscia, di dolore fisico, di sofferenza mentale, segnato da un lungo periodo di isolamento dal mondo esterno a causa della pandemia e poi da rare visite dei familiari, ai quali ha lasciato sempre messaggi di ringraziamento per la comunità italiana che lotta per lui, alternati a segnali di resistenza e di avvilimento.

In questo periodo di “chiuso per ferie”, non dimentichiamo Patrick!”. 

Quel carcere, un inferno.

Così Antonella Napoli racconta del carcere di massima sicurezza in cui è imprigionato Patrick,  in un articolo per Avvenire: “Una grande tomba di cemento, il simbolo del terrore del regime egiziano guidato dal presidente Abdel Fattah al–Sisi. Basta attraversare l’ingresso sorvegliato da blindati e uomini armati nelle torrette collocate lungo il perimetro del penitenziario di Tora, a soli venti miglia a sud dal Cairo, per capire che la definizione coniata dagli attivisti per i diritti umani rispecchia pienamente l’essenza della famigerata struttura carceraria. Questa immensa prigione divisa in quattro blocchi, tra cui la sezione di massima sicurezza conosciuta come “lo scorpione”, rappresenta per uomini e donne, che potrebbero non affrontare mai un processo, un campo di detenzione preventiva senza via di uscita. Ancor più oggi, con il rischio elevato di contrarre il Covid–19…”.

Ed ancora: “Le uniche aree ristrutturate sono quelle riservate agli uffici amministrativi, una piccola clinica medica e due edifici per il personale che includono la sala di riposo degli ufficiali, la biblioteca, la lavanderia e la cucina centrale. Le sezioni H1 e H2, che si trovano a destra dell’accesso principale, circondate da un muro con due porte realizzate con griglie e lamiere di ferro per bloccare la visione dal cortile esterno, e le sezioni H3 e H4, a sinistra, anch’esse circondate da pareti interne e due ingressi blindati, sono pressoché invivibili. Soprattutto d’estate quando le temperature raggiungono i 50 gradi e dalle acque del Nilo, poco distante, salgono nugoli di zanzare. Ogni sezione è composta da quattro aree di 20 celle di circa tre metri per tre metri e mezzo, dove vengono stipati fino a 15/20 detenuti. Ogni locale ha un piccolo bagno, un lavabo e piani di cemento per dormire. 

Un incubo. Ma è il blocco 4, quello di massima sicurezza, il luogo dove le condizioni di vita diventano insostenibili e si consuma il dramma, l’orrore, delle torture più atroci: cibo infestato da insetti e distribuito in contenitori sporchi, umiliazioni e sevizie continue. «I pochi prigionieri sopravvissuti ci hanno raccontato di metodi cruenti sistematici nel carcere di Tora, in particolare nella sezione ‘Scorpion’ – racconta Ahmed Alidaji, ricercatore di Amnesty International al Cairo fino al 2017 – Io stesso ho raccolto la denuncia di un giovane che insieme ad altri 19 compagni di prigionia è stato denudato e frustato con bastoni sulla schiena, sui piedi e sui glutei dopo che i soldati avevano trovato nella cella una radio tascabile e un orologio. Stessa sorte per un gruppo di 80 occupanti di un intero blocco quando uno di loro è stato scoperto in possesso di una penna. A chi si ribella viene riservato un trattamento anche peggiore. Gli agenti penitenziari, dopo avergli affibbiato nomi femminili, li violentano a turno come “punizione” per aver violato le regole della prigione’ conclude l’attivista.

Non sorprende che ai prigionieri della ‘Scorpion’ venga negato il permesso di vedere i familiari, anche se le autorità carcerarie affermano che sia una misura necessaria per impedire ai leader di gruppi terroristici di inviare istruzioni per attacchi contro turisti, stranieri e forze di sicurezza. Ma la gran parte dei detenuti accusati di terrorismo non ha mai commesso reati o azioni che giustifichino la grave incriminazione. Come Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna imprigionato nel carcere di Tora da otto mesi e ancora in attesa di giudizio”.

Più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. 

Desaparecidos

Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza.

E’ in questo inferno in terra che Patrick Zaki è stato rinchiuso. 

Il coraggio di una novantenne

“C’è qualcosa nella storia di Patrick Zaki che prende in modo particolare, ed è ricordare quando un innocente è in prigione. Questo l’ho provato anch’io e sarò sempre presente, almeno spiritualmente quando si parla di libertà”. Con queste parole Liliana Segre ha spiegato, intervistata da Radio Popolare, il motivo per cui ha deciso di andare in Senato per votare a favore della mozione per la cittadinanza italiana a Patrick Zaki. La senatrice a vita, testimone del dramma della Shoah, ha 90 anni e a causa dell’emergenza sanitaria ha ridotto le sue partecipazioni ai lavori parlamentari, ma in questo frangente  ha deciso di partire da Milano per andare in Parlamento ed esprimersi a favore. “Ho fatto questo viaggio – ha raccontato – perché ci sono delle occasioni in cui uno deve vincere le forze che non sono sempre brillantissime. Ricordo cosa sono i giorni passati dentro la cella, quando non si sa se preferire la porta chiusa o che si apra e qualcuno entri e ti faccia o ti dica qualcosa che ti possa far soffrire ancora di più”. Segre si è detta molto contenta di questa iniziativa :”Sarò sempre presente almeno spiritualmente quando si parla di libertà”.

Patrick, ha scritto una lettera alla senatrice Segre, per ringraziarla per il suo amore e sostegno. Tuttavia ha preferito non consegnarla alla madre e alla fidanzata che oggi hanno potuto fargli visita in carcere: ha infatti deciso di tenerla con sé per consegnargliela a mano quando tornerà in Italia.

 Libertà. Un diritto per Patrick. Un diritto negatogli da un regime di polizia che ha sulla coscienza il barbaro assassinio di Giulio Regeni..

 

 

 

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