Israele-Palestina: due Stati o uno bi-nazionale cantonizzato "modello Svizzera"? Due voci a confronto
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Israele-Palestina: due Stati o uno bi-nazionale cantonizzato "modello Svizzera"? Due voci a confronto

Oltre una tregua che lascia irrisolte tutte le questioni che sono alla base del conflitto. A cominciare dalla “fine”: due Stati o uno Stato binazionale, cantonizzato, “modello Svizzera”?

Bombardamenti israeliani a Gaza
Bombardamenti israeliani a Gaza
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

23 Maggio 2021 - 16.40


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Oltre una tregua che lascia irrisolte tutte le questioni che sono alla base del conflitto israelo-palestinese. A cominciare dalla “fine”: due Stati o uno Stato binazionale, cantonizzato, “modello Svizzera”? Globalist apre il confronto, con le riflessioni di due giornalisti che il tema lo conoscono nei minimi dettagli. 

Carolina Landsmann, è tra le firme più giovani ma già affermate di Haaretz.

“Da qualsiasi parte la si guardi, che ci si concentri su Gaza, sulla Cisgiordania o sulla tensione interna nei confronti dei cittadini arabi di Israele, la soluzione del conflitto israelo-palestinese è la stessa: due Stati per due popoli – scrive -.  Anche coloro che sostengono che la nazione palestinese è stata inventata non possono negare il fatto che ora esiste. Qualunque sia la durata della sua gestazione storica, non si può negare la sua nascita né il suo diritto, come quello di ogni popolo, a una patria nazionale.

Basta con i tentativi ipocriti di spiegare le cose attraverso la cosiddetta hasbara. L’unico modo efficace in cui Israele può spiegare la situazione al mondo è un’iniziativa di pace pubblica israeliana, con mappe e confini proposti. Ormai dovrebbe essere chiaro: Se non c’è il 1967, c’è il 1948, e in questi giorni abbiamo avuto una sbirciata – anche una simulazione – di ciò che ci riserva. Il formaggio pieno di buchi che ora delimita il territorio tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, simile a un uovo fritto in cui Israele è la parte bianca, con le enclavi palestinesi come pezzi di tuorlo che vi galleggiano dentro, può essere rovesciato. Quando la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e i cittadini arabi di Israele si uniscono – anche se non in modo organizzato o coordinato – la questione diventa chi è il bianco e chi il tuorlo; chi sta imponendo un blocco e chi è sotto assedio.

‘Ebrei israeliani, è ora di ascoltare’, ha scritto Noa Landau (Haaretz, 18 maggio), come se non sapessimo cosa dicono gli arabi. Come se non conoscessimo la storia e le circostanze storiche che ci hanno portato a vivere in uno stato. Tutti sanno tutto. È così che si è svolta la storia. E no, il paragone che Landau fa tra la lotta dei cittadini arabi d’Israele per l’uguaglianza dei diritti e quella dei neri negli Stati Uniti fa un’ingiustizia ai primi, poiché spoglia i palestinesi di quello che si potrebbe chiamare il loro vantaggio etico in questo conflitto – il loro status di nativi rispetto ai migranti ebrei. L’unica questione rilevante è cosa facciamo ora nelle circostanze che abbiamo ereditato. Il 20% della popolazione di Israele è palestinese, e c’è un conflitto nazionale israelo-palestinese che richiede una soluzione.

I cittadini arabi d’Israele non saranno israeliani fino alla creazione di uno Stato palestinese che soddisfi le loro aspirazioni nazionali. Solo allora potranno decidere se essere israeliani senza che questa decisione comporti la rinuncia alla loro autodeterminazione. Come un ebreo può vivere negli Stati Uniti come cittadino americano, sapendo che il diritto del suo popolo all’autodeterminazione è soddisfatto in Israele, e che può in qualsiasi momento realizzare le sue aspirazioni nazionali in Israele, così un cittadino palestinese di Israele potrà agevolare le sue aspirazioni nazionali, sapendo che il suo popolo ha un posto sotto il sole. Lo stupore che ha attanagliato molti ebrei di fronte all’intensità dell’odio scoppiato tra un piccolo numero di arabi israeliani è principalmente infondato. Anche se si ignorano le discriminazioni, l’abbandono sistematico e persino l’incitamento contro di loro, e anche se si mette l’occupazione tra parentesi e Gaza sotto chiave, ci si dovrebbe chiedere se gli israeliani hanno mai offerto ai cittadini arabi un ‘noi”’collettivo a cui aderire? Diciamo che si vogliono sopprimere le aspirazioni nazionali di un popolo, e supponiamo pure che ciò sia possibile: Quale identità abbiamo invitato i cittadini arabi ad adottare una volta abbandonata quella palestinese? Dopo tutto, una persona non può liberarsi di un’identità e rimanere priva di qualsiasi identità. Se non sono palestinesi e non sono israeliani come noi, cosa sono? Il discorso dell’ascolto, così come il tentativo del caporedattore di Haaretz Aluf Benn di lanciare un discorso di conciliazione e di riconoscimento delle memorie [palestinesi] nel mezzo di un conflitto in corso (‘Gli ebrei israeliani dovrebbero smettere di avere paura della Nakba’, Haaretz, 1 maggio) implicano che siamo dopo l’evento, non nel suo mezzo. L’occupazione e l’espropriazione stanno accadendo ora, ma qui stiamo cuocendo un tacchino e preparando il sugo, e proprio dietro l’angolo c’è un’offerta per erigere un memoriale alla Nakba. Dimenticate i memoriali – l’unico modo per smettere di temere la Nakba o i palestinesi è lavorare per la creazione di uno Stato palestinese”, conclude Landsmann.

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“Modello svizzero”

Pierre Haski, direttore di France Inter, metteva per iscritto queste considerazioni in un articolo del 14 aprile 2018 per il prestigioso settimanale francese L’Obs,. Articolo tradotto e pubblicato da Internazionale. A tre anni di distanza, mantiene una straordinaria attualità.

a colonizzazione di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, che con la Striscia di Gaza costituiscono i territori occupati secondo la definizione della risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 1967, ha infatti cambiato in maniera irreversibile la situazione. Quale governo israeliano avrà la legittimità, e la forza, di far sloggiare 700mila persone che vivono su territori che il diritto internazionale considera palestinesi? 

Una soluzione che svanisce
Un centro studi come l’European council on foreign relations (Ecfr) riteneva già nell’ottobre del 2016 che la soluzione dei due stati fosse ormai “sempre più improbabile”, e che il proseguimento dell’occupazione, o dell’annessione, dei territori palestinesi avrebbe prodotto “la realtà di un unico stato”, con tutte le sue conseguenze politiche, demografiche e di sicurezza che nessuno oggi vuole vedere. 

La soluzione dei “due Stati” rimane al cuore delle discussioni internazionali, difesa da tutti coloro che, in maniera sincera o ipocrita, dicono di volere la pace in questa tormentata parte del mondo. Esattamente un anno fa, Parigi ha ospitato una conferenza internazionale a favore della soluzione dei due stati, un vano tentativo di François Hollande di fare uscire i negoziati dall’impasse. La conferenza si è rivelata poi un insuccesso e il mondo passò ad altro. 

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Perfino Benjamin Netanyahu, il capo del governo israeliano, arrivato al potere nel 1996 dopo aver condotto una virulenta campagna contro Yitzhak Rabin e gli accordi di Oslo, che portarono all’omicidio del primo ministro nel novembre 1995 compiuto da un estremista religioso ebraico, afferma di sostenere la creazione di uno stato palestinese. Anche se in realtà non fa niente per favorire la cosa e continua a incoraggiare la colonizzazione. 

Potrebbe essere Donald Trump a dare il colpo di grazia all’idea, o mito, dei due stati. La sua decisione unilaterale di riconoscere Gerusalemme, nel dicembre del 2017, come capitale d’Israele e di trasferirvi l’ambasciata statunitense, ha chiarito ai palestinesi ogni dubbio sulla posizione di Washington nei loro confronti. Oltre al fatto che, nel contesto regionale e internazionale attuale, non c’è alcuna speranza di veder realizzare alcun “processo di pace”, un’espressione che ormai non può che essere utilizzata tra virgolette. 

Ciò è tanto più vero se si considera che l’ala a destra della coalizione attualmente al potere in Israele spinge per l’annessione pura e semplice di alcuni territori della Cisgiordania a est di Gerusalemme, che sarebbero sicuramente stati attribuiti a Israele nel quadro di un accordo globale fatto di scambi territoriali, ma che questi componenti del governo Netanyahu, il cosiddetto partito dei coloni, vogliono attribuirsi unilateralmente. 

Un calcolo noto e una scelta impossibile
Se quindi la strada che portava ai due Stati si sta inesorabilmente chiudendo, ammesso che non si sia già chiusa, che ne è della soluzione di un unico Stato? Le organizzazioni palestinesi storiche hanno avuto per lungo tempo come unico programma quello di una sola “Palestina democratica e laica” prima di accettare nel 1993, in particolare il partito Fatah di Arafat, l’idea dei ‘due Stati’ come compromesso concreto, sapendo che gli israeliani non avrebbero mai accettato l’idea di un unico Stato. 

Si tratta di un calcolo noto: gli israeliani ebrei sarebbero minoritari in uno Stato condiviso con i palestinesi nei territori dell’ex Palestina del mandato britannico, vale a dire l’attuale Israele più i territori palestinesi occupati.  Gli israeliani si troverebbero quindi di fronte a una scelta impossibile: rimanere uno ‘Stato ebraico’, per riprendere il titolo del libro di Theodor Herzl che, alla fine del diciannovesimo secolo, fece nascere il sogno sionista di un “ritorno” alla terra biblica, e che implicherebbe che i palestinesi che vivono in questo stato non godrebbero di pari diritti, oppure creare uno Stato binazionale nel quale tutti i cittadini godrebbero degli stessi diritti, ma che implicherebbe una rinuncia alla specificità di Israele. 

Entrambe le soluzioni sono difficili da immaginare. La prima farebbe di Israele uno Stato non democratico, poiché la maggioranza dei suoi cittadini sarebbe priva di diritti. La seconda negherebbe la forza dell’idea di uno Stato ebraico dopo i traumi storici del ventesimo secolo. 

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Se il Medio Oriente si trovasse nelle Alpi, si chiamerebbe Svizzera, con la sua costituzione federale, il suo sistema di cantoni e di democrazia diretta e la sua condivisione dei poteri al livello nazionale che ha fatto di questo paese un’oasi di pace (certo con ambiguità, ma non è questo il punto) nel cuore di un continente che ha avuto la sua dose di guerre e di odio. 

Si potrebbe in effetti tranquillamente trasporre la costituzione svizzera in questo stato unico israelo-palestinese (quale sarebbe il nome? IsraPal?). La frammentazione territoriale attuale, tra colonie ebraiche e villaggi palestinesi in Cisgiordania, l’isolamento della striscia di Gaza, o anche la segregazione geografica di fatto tra israeliani ebrei e arabi israeliani, cristiani e musulmani, nell’Israele precedente al 1967, offre una possibile suddivisione territoriale in cantoni autonomi. Ognuno potrebbe restare padrone a casa propria, con i suoi modi di vita e le sue tradizioni, oltre che con la sua polizia cantonale. È quello che già succede, anche all’interno di ogni comunità: basta passare un sabato dal ‘cantone’ di Tel Aviv, con i suoi bar e le sue spiagge, a quello di una colonia religiosa ebraica della Cisgiordania, per sentirsi in due paesi diversi. La creazione di cantoni darebbe a ognuno la certezza che le sue scelte di vita sarebbero rispettate all’interno di uno stesso insieme. I cantoni delegherebbero a un’entità confederale le missioni di sicurezza che sono evidentemente fondamentali per una convivenza pacifica di queste comunità che per lungo tempo si sono scontrate. 

 Utopia? Oggi sì, nella misura in cui il rapporto di forza è tale da permettere agli israeliani di poter pensare di conservare lo status quo, se non all’infinito, almeno nel futuro prossimo. Niente, nell’ambiente internazionale o nei rapporti quotidiani con i palestinesi, malgrado le occasionali esplosioni di violenza con le quali Israele convive da decenni, spinge l’opinione pubblica o i dirigenti a rimettere in discussione l’ordine esistente. 

Studiare la convivenza
Chi può credere, però, che l’attuale stato delle cose, che prefigura inevitabilmente una condizione d’apartheid, per utilizzare un termine molto discusso, possa sopravvivere nei decenni a venire? Chi può credere che i palestinesi, che hanno dimostrato nel corso degli anni una fortissima resilienza, accetteranno in silenzio di scomparire e di aver perso la partita? 

L’“opzione svizzera” è chiaramente molto lontana dalle realtà del Medio Oriente attuale, con le sue divisioni confessionali, le guerre civili, etniche e religiose, le contese territoriali, politiche e ideologiche. Ma dal momento in cui la separazione non sarà più possibile, quando i due popoli che si contendono la stessa terra saranno condannati a conviverci, come non cominciare a immaginare delle formule di coabitazione? Le utopie di oggi potrebbero trasformarsi nelle soluzioni pratiche di domani?”. 

Così concludeva il suo articolo Haski. Il dibattito è aperto. Ne va del futuro di due popoli. E di una pace che per essere tale deve contemplare la giustizia. 

 

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