Presidente Draghi, fermi quella fregata venduta al dittatore d'Egitto al-Sisi
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Presidente Draghi, fermi quella fregata venduta al dittatore d'Egitto al-Sisi

Se vuole una testimonianza diretta non passi dal suo ministro degli Esteri ma telefoni ai genitori di Giulio Regeni o ai famigliari di Patrick Zaki. E legga i rapporti delle organizzazioni i per i diritti umani

Il presidente egiziano Al Sisi
Il presidente egiziano Al Sisi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Aprile 2021 - 17.09


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Presidente Draghi, uno sforzo ancora. Ha definito, giustamente Erdogan un “dittatore”. Ora applichi la stessa definizione a uno che in quanto a dittatura non è secondo a nessuno: il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Se vuole averne una testimonianza diretta non passi dal suo ministro degli Esteri ma telefoni ai genitori di Giulio Regeni o ai famigliari di Patrick Zaki. E legga con attenzione i documentati rapporti di tutte le più importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani. Sarebbe una lettura illuminante. 

Blocchi la fregata

E visto che c’è fermi quella nave. La seconda fregata multimissione Fremm, facente parte dell’accordo di vendita per due navi militari perfezionato durante il 2020, sta partendo alla volta dell’Egitto. Secondo indiscrezioni raccolte delle nostre organizzazioni la nave, il cui nome è stato mutato in Bernees e con il numero di immatricolazione egiziano 1003, dovrebbe completare oggi l’imbarco degli armamenti. In programma per domani invece il momento finale della consegna alle forze armate di al-Sisi dopo la cerimonia di cambio bandiera avvenuta in queste ultime ore: la nave era, infatti, inizialmente destinata alla Marina Militare italiana con il nome “Emilio Bianchi” assegnato al varo del gennaio 2020. Anche se non dovesse concretizzarsi nella giornata di domani la consegna appare comunque imminente: da circa metà febbraio dai cantieri navali presso La Spezia sono state eseguite diverse uscite in mare di collaudo finale e soprattutto di addestramento per l’equipaggio della Marina Militare egiziana.

A denunciarlo sono Rete Italiliana Pace e Disarmo (Ripd e Amnesty International Italia.  “Questa notizia – rimarcano in  un comunicato congiunto — conferma in maniera evidente come non ci sia stato alcun cambio di rotta rispetto alle decisioni dello scorso anno e che anche il Governo Draghi, cui è in capo la responsabilità dell’autorizzazione finale alla consegna, dopo la concessione della licenza di vendita nel 2020 da parte del Governo Conte, ha deciso di continuare a sostenere il regime egiziano con forniture militari. Una scelta che Amnesty International Italia e Rete Italiana Pace e Disarmo continuano a condannare e a considerare non solo inaccettabile e insensata, ma anche contraria alle norme nazionali ed internazionali sul commercio di armi che l’Italia ha sottoscritto e che dovrebbe rispettare.

Il tutto avviene a pochi giorni dall’ennesimo rinvio dei termini di carcerazione preventiva per lo studente Patrick Zaki e nel continuo ripetersi di casi di violazioni diritti umani da parte del regime di al-Sisi. Non va dimenticato inoltre che a metà marzo è stato pubblicato un nuovo Rapporto degli esperti Onu che individuano chiaramente una serie di violazioni da parte dell’Egitto dell’embargo sugli armamenti in vigore verso la Libia. Rafforzare la marina militare egiziana significa dunque peggiorare ulteriormente anche questa situazione specifica.

“La vendita di queste navi configura una serie di problemi e violazioni che le nostre organizzazioni hanno segnalato da tempo – sottolinea Francesco Vignarca coordinatore delle campagne di Ripd – cui nelle ultime settimane si è aggiunta anche l’evidenza di una perdita economica non indifferente, al contrario di quanto sostenuto da diversi esponenti politici come giustificazione dell’accordo”. La coppia di navi è infatti costata allo Stato italiano – che ora attende i rimpiazzi – circa 1,2 miliardi di euro compresi gli interessi pagati sui mutui, ma secondo notizie di stampa l’accordo di rivendita avrebbe un valore di soli 990 milioni di euro, senza contare i costi di smantellamento dei sistemi di standard Nato già installati.

Come già ripetuto più volte nel corso del 2020 (non appena trapelata l’intenzione del Governo italiano di concedere a Fincantieri autorizzazioni per la rivendita di queste due navi inizialmente destinate alla marina militare italiana) le nostre organizzazioni ribadiscono i contenuti della mobilitazione #StopArmiEgitto chiedendo il massimo sostegno da parte dell’opinione pubblica e della società civile. Va ricordato, inoltre, che l’Egitto è stato il primo paese per destinazione di  autorizzazione militari nel corso del 2019, con un controvalore di oltre 870 milioni di euro determinati in particolare dalla vendita di decine di elicotteri militari prodotti dalla Leonardo S.p.A.

“La fornitura delle Fremm – commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) – non è mai stata sottoposta all’esame delle Camere. Si tratta di un passaggio fondamentale richiesto dalla normativa vigente (la legge n. 185 del 1990) e oggi ancor più necessario in considerazione delle trattative in corso con l’Egitto per altre fregate Fremm, pattugliatori, caccia multiruolo e aerei addestratori che consoliderebbero la posizione del regime di al-Sisi come principale acquirente di sistemi militari italiani. Rinnoviamo pertanto la richiesta al Governo di presentare l’intera materia alle Camere ed esortiamo il Parlamento a richiedere con urgenza un dibattito approfondito sulle esportazioni di sistemi militari all’Egitto”. 

Ricordiamo che la legge 185 del 1990 prescrive il divieto ad esportare armamenti “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i princìpi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere” (art. 1.6.).  

“La conclusione di questo affare con la consegna della seconda Fremm suscita ancora più sdegno perché arriva pochi giorni dopo l’ennesimo, crudele, rinvio di altri 45 giorni della detenzione preventiva di Patrick Zaki. Il Governo sta dimostrando una mancanza totale di coerenza nell’esprimere al contempo solidarietà verso la causa del giovane studente dell’Università di Bologna e nel vendere armamenti ad un regime sanguinario come è quello di al-Sisi. Atti che non solo sono politicamente inopportuni, ma contrari alla normativa italiana e internazionale sull’export di armi”,  rimarca Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Chiediamo che vi sia un cambio di passo e che il Parlamento italiano faccia sentire la propria voce per frenare questa collaborazione con uno paese responsabile di gravissime violazioni dei diritti umani. Finché questi accordi saranno conclusi con il beneplacito delle istituzioni, è da ingenui pensare che si possa compiere qualche passo avanti nell’ottenere la liberazione di Zakiconclude Noury. 

Ma quella dei rapporti con l’Egitto non è una questione solo italiana. La conclusione di affari militari con il regime di al-Sisi suscita preoccupazione e sdegno anche a livello europeo, come è stato ricordato anche in un’importante Risoluzione approvata al Parlamento Europeo il 18 dicembre scorso, in cui si invita l’UE a procedere ad un riesame approfondito dei rapporti con l’Egitto, stabilendo chiari parametri di riferimento che subordinino l’ulteriore cooperazione con il Paese al conseguimento di progressi nelle riforme delle istituzioni democratiche, dello Stato di diritto e dei diritti umani. Una preoccupazione resa ancora più forte dagli sviluppi di un caso “gemello” a quello di Zaki, l’arresto del giovane egiziano Ahmed Samir Santawy, studente presso l’Università Europea di Vienna e attualmente in carcere con le stesse accuse che pendono su Zaki e su molti degli oppositori che al-Sisi vuole mettere a tacere: terrorismo e diffusione di notizie false volte a minare l’ordine pubblico. Proprio domani, 10 aprile, è in programma una mobilitazione promossa dalla Sezione italiana, belga e austriaca di Amnesty International insieme all’Università di Bologna, per chiedere la liberazione dei due giovani studenti.

Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi

Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a decine di migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Un conteggio ufficiale non è stato fatto, ma attivisti per i diritti umani egiziani, con la garanzia dell’anonimato per non fare una brutta fine, hanno detto a Globalist che un conteggio in difetto, porta a non meno di 43.000 desaparecidos. Per comprendere l’enormità di questo crimine, va ricordato che, tra il 1976 e il 1983, in Argentina, sotto il regime della Giunta militare, sono scomparsi fino a 30.000 dissidenti o sospettati tali – 9.000 accertati secondo i rapporti ufficiali della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas (Conadep) – su 40.000 vittime totali. 

Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agency.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato.

Chi costruisce il suo potere su un sistema repressivo così radicato e tentacolare, non teme certo le parole. Ma le sanzioni, sì. Soprattutto economiche, vista la grave crisi in cui versa l’Egitto e il malessere e la rabbia sociali che il regime del presidente-carceriere prova a contenere con un mix di repressione e promesse che restano tali. Sanzioni mirate, dunque. Mirate ai conti bancari, all’estero, di quella nomenklatura militare-affaristica che si è arricchita sotto Mubarak e continua a farlo con al-Sisi. E poi, stop alla vendita di armi ad un regime che le usa per reprimere nel sangue le proteste interne e per dettar legge, in competizione con la Turchia del “sultano” Erdogan, in Libia, in Siria, nel Nord Africa tutto. 

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